Pasquale Di Palmo
Pol Vandromme dall'infanzia al tifo bestiale: uno struggente epicedio del calcio che fu
il manifesto Alias, 29 giugno 2025
Pol Vandromme è stato uno scrittore e critico letterario di rilievo, con una bibliografia ricchissima alle spalle, nato a Charleroi nel 1927 e scomparso a Loverval, nelle immediate vicinanze, nel 2009. Autodefinitosi «belga di passaggio e provinciale di Parigi», faceva parte di quella frangia di intellettuali cosiddetta buissonière, termine con il quale si designano i simpatizzanti di una destra anticonformista e sui generis. Studioso di Céline e Drieu La Rochelle, di cui apparvero in Italia per l’editore Borla due importanti monografie negli anni sessanta, recentemente ristampate, si occupò anche di altre figure legate all’intellighenzia conservatrice: da Charles Maurras a Lucien Rebatet, da Marcel Aymé a Roger Nimier, con la variabile Georges Simenon sullo sfondo; si interessò al contempo a chansonniers come Brassens e Brel e nel 1959 pubblicò un libro intitolato Le monde de Tintin, ispirato al celebre personaggio dei fumetti, ideato dal disegnatore belga Hergé, la cui ristampa del 1994 è curiosamente prefata da Nimier.
Grande appassionato di football, Vandromme scrisse un toccante epicedio sullo stesso, intitolato Le gradinate dell’Heysel Una morale per il calcio (pp. 110, € 15,00) che ora Vydia editore licenzia nell’ottima traduzione di Massimo Raffaeli, il quale, da raffinato esperto della materia, ne ha fortemente caldeggiato la pubblicazione presso svariati editori. L’argomento è considerato respingente, in quanto l’autore belga prende abbrivio, per la sua singolare analisi, proprio dalla tragedia dello stadio Heysel di Bruxelles, dove il 29 maggio 1985 persero la vita trentanove tifosi italiani, con centinaia di feriti, in seguito alle intemperanze degli hooligans prima della finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool (un ricordo inquietante per chi scrive, trovandosi il padre sull’anello opposto dello stadio). Emersero notevoli lacune a livello organizzativo. Per la cronaca la squadra torinese, in cui militavano campioni del calibro di Scirea, Rossi, Tardelli e Boniek, vinse uno a zero, con rigore trasformato da Platini e inaccettabile festeggiamento finale.
In realtà il titolo del libro risulta fuorviante, in quanto Vandromme non si sofferma ad approfondire solo l’episodio tragico dell’Heysel ma si avventura in un panegirico sul calcio (o sulle aberrazioni del «neocalcio», palesi a tutti), sconfinante in un’appassionata, poeticissima dichiarazione d’amore. Les gradins du Heysel, edito nel 1992 da La Table Ronde, è in effetti una sorta di Bildungsroman, caratterizzato, oltre che dallo strascico di illusioni e disillusioni di un vecchio adolescente, dal senso di frustrazione per non essere mai riuscito a praticare proficuamente tale sport, a causa dell’intransigenza dei genitori. Questo «contemplativo del calcio», come lui stesso si definisce, vòlto alla ricerca di un piacere estetico mai fine a sé stesso, diventa così ideale cantore di un avvenimento drammatico che si configura, nella sua emblematicità, quale diretta emanazione di un tifo dai tratti irriconoscibili e vampireschi, paragonato a una «Bestia insaziabile» assetata di sangue.
Con ben altro spirito Vandromme, acceso tifoso dello Sporting Charleroi, la cui divisa ricorda paradossalmente quella zebrata della Juventus, si recava a vedere le partite della sua squadra presso il vecchio stadio Mambour: «Da me, al Mambour, sono le nozze mistiche del nero e del bianco». Gli assi di quella compagine si chiamavano Jean Capelle e Jules Henriet, rispettivamente attaccante e centrocampista. Quest’ultimo, nonostante fosse alto un metro e sessantatré, riusciva sempre a spuntarla di testa, divenendo il beniamino di Vandromme che ricorre ai soprannomi di «fuoco fatuo» e «passamuraglie», ricavati dai titoli più rappresentativi degli amati Drieu La Rochelle e Aimée. Stendhaliano di elezione, Vandromme cita un altro Nume tutelare della destra, Henry de Montherlant, interessatosi a più riprese agli eventi sportivi e al calcio, paragonati alle leggendarie imprese atletiche di greci e romani.
Il football per Vandromme deve essere puro divertimento e, come tale, andrebbe affrancato da ogni esasperato tatticismo. Inaccettabile misurarsi per il pareggio (si pensi alla celebre teoria di Gianni Brera e Annibale Frossi secondo cui il risultato ideale sarebbe lo zero a zero), bisogna solo aspirare alla vittoria. Con «la sua scrittura netta e calcolatamente deragliante» (Raffaeli), Vandromme riesce nell’intento di contrapporre le partite idilliache della propria infanzia, giocate clandestinamente nei cortili di scuola sotto cieli ammantati di fuliggine, alle derive di un tifo che concepisce l’avversario alla stregua di nemico da distruggere. D’altronde non c’è alcun intento sociologico nella requisitoria di Vandromme, bensì il tentativo di rapportarsi al mediatico «connubio di idiozia e mercantilismo» con sguardo critico, teso al recupero di aspetti autenticamente lirici del football. Non è un caso che il curatore, nell’intensa prefazione, memore di certi inarrivabili approdi di Saba e Sereni, sostenga che il calcio «nel suo moto desultorio, rammenti ancora una volta le dinamiche della poesia»
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