lunedì 2 giugno 2025

Il coraggio di Ulisse


Stando all'interpretazione di Anna Maria Chiavacci Leonardi, quello di Ulisse è il coraggio dello stesso Dante

Il coraggio è Ulisse che non torna a casa
Giuseppe Conte
il manifesto Alias, 2 giugno 2025

Il mito, quel sapere delle origini che arriva sino al presente illuminandolo, racconta molte diverse versioni del coraggio. Il coraggio di Achille consiste nella accettazione tormentata del proprio destino di morte in giovane età. Quello di Ettore nel difendere la sua città sfidando proprio Achille, eroe imbattibile e spietato. Quello di Enea nel dire no a una guerra che ritiene ingiusta, e poi nel prendere sulle spalle il padre Anchise sulla via di un esilio finalizzato a un disegno di rinascita. Ma il coraggio più esemplare che il mito ci racconta non riguarda un eroe: riguarda una giovane donna, Antigone, la figlia di Edipo, che è rimasta al fianco del padre ridotto dalla sua disgrazia a vagare cieco e mendico, e torna in tempo a Tebe per vedere il cadavere del fratello Polinice abbandonato ai cani e ai corvi per ordine del nuovo re Creonte. Ed ecco che lei trova il coraggio supremo, quello di opporsi al Potere, alla sua Legge ferrea, in nome di leggi superiori, quelle degli affetti, dell’anima e del divino, pronta a sacrificare la sua vita stessa. Che sia una giovane donna a farlo, ci dice che il coraggio nelle sue forme più alte si manifesta anche dove il pensiero dominante, maschile, ossessionato dall’idea di dominio, riterrebbe impossibile.

Un aspetto del coraggio che mi affascina è quello della sfida all’ignoto e all’infinito, che ha spesso a che fare con il mare. Penso all’Ulisse di Dante, un Ulisse molto più medievale e gotico che classico e greco, uno che non torna a casa, non naviga sottocosta, ma si lancia sulle onde nel folle volo verso l’inconoscibile per seguir «virtute e canoscenza». Il mare chiede sempre coraggio e pazienza, obbedienza e disobbedienza. La coscienza del sangue che gli europei hanno versato distruggendo gli imperi degli Aztechi e degli Incas e i Nativi Americani, coscienza viva da sempre negli europei migliori, non può però far scendere ombre sul coraggio dei navigatori che a cominciare da Colombo hanno sfidato un oceano sconosciuto, le sue tempeste e i suoi segreti. Mi piace il coraggio dei marinai detti cap hornier che furono gli ultimi a scapolare su bastimenti a vela il terribile Capo Horn. E anche quello degli ammutinati, quando come Fletcher Christian, l’ufficiale del Bounty cui al cinema prestò il volto Marlon Brando, si ergono contro un comandante ingiusto e inutilmente feroce. I grandi poeti romantici inglesi innamorati dell’Italia trovarono nel mare il teatro per mostrare versioni estreme di coraggio: Shelley che parte lo stesso sul suo Ariel nonostante la tempesta annunciata, Byron che con le sue nuotate si allena e tempra lo spirito che lo porterà a combattere e morire per la libertà della Grecia.

Ma c’è, ed è decisivo, un coraggio umile, quotidiano, che ciascuno di noi deve trovare nella sua esistenza giorno dopo giorno.

Il coraggio di affrontare il proprio lavoro e di amarlo, di sentirlo, qualunque esso sia, come la fonte della propria dignità di essere umano. Il coraggio di sorridere, di guardare con un filo di humour lo spettacolo del mondo che ruota intorno a noi, talvolta dolce e sublime, ma molto più spesso laido e abietto. Poi occorre il coraggio più difficile, quello di ribellarsi, di lottare, di sognare a occhi aperti nuovi assetti del vivere e nuovi equilibri della società. Di essere rivoluzionari in una realtà che prevede soltanto «rivoluzioni» tecnologiche, che confermano, come fa l’Intelligenza Artificiale, tutto il sapere e tutto il potere esistente. Non si parla abbastanza, parlando dei migranti, del coraggio che li spinge a sradicarsi e a cercare affrontando mille pericoli le coste di terre straniere, dove pensano di poter vivere esistenze migliori. Esiste infine un coraggio, indomabile, che è quello della speranza. E un coraggio altrettanto indomabile della poesia, quando erge una barriera contro la disumanizzazione e la barbarie in atto attraverso il suo linguaggio, il suo canto, la sua ricerca di bellezza e felicità.

Dante, Inferno, 26, 85-142
commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1991

Che l'Ulisse di Dante sia cosciente di violare un limite, è scritto nel suo stesso racconto: egli oltrepassa quello stretto dove la divinità aveva posto il suo segno acciò che l'uom più oltre non si metta. Ed egli sa di correre un rischio estremo, come dimostra la breve ma drammatica allocuzione ai compagni. Se la sua fosse soltanto un'aspirazione inappagata di conoscenza, dovuta al naturale limite della ragione umana, egli rientrerebbe, come Aristotele e Platone, tra i magnanimi del Limbo, i grandi filosofi che hanno in sorte, come eterna pena, il loro stesso desiderio (quel disio... ch'etternalmente è dato lor per lutto). Ma noi troviamo Ulisse nel profondo dell'inferno. C'è in lui una prevaricazione, una presunzione, che attiene alla facoltà più alta dell'uomo, la mente, «quella fine e preziosissima parte de l'anima che è deitade» (Conv. III, ii 19), e per questo è così grave. Si tratta di una passione travolgente, per cui si trascurano anche gli affetti più cari e sacri. La sete delle ultime realtà, dell'infinito (che l'aperto oceano figura), è posta da Dio stesso nell'animo umano; ma Dio ha riservato a sé di saziarla, per chi umilmente glielo chiede, come sarà detto a Purg. XXI 1-3. Se l'uomo non accetta questo limite, questo aiuto, la sua stessa magnanimità finirà col perderlo.

È questa la scelta fatta da Dante nella Commedia dove, dal primo canto all'ultimo, egli si fa condurre; ed è ciò che gli permette di arrivare al fine di tutt'i disii. Ma la scelta è drammatica, come sempre quando l'uomo rinuncia a se stesso. Il grande mito di Ulisse – una delle più alte pagine dell'umana poesia – ne resta testimonianza. E noi pensiamo che proprio la stretta identificazione tra il poeta e il suo personaggio abbia portato alla preferenza data a un eroe mitico per coprire questo ruolo: un contemporaneo, o comunque qualcuno storicamente determinato, avrebbe impedito alle due figure di sovrapporsi, come l'indeterminata lontananza permette. La stessa pena nasconde alla vista quell'uomo lontano più di un millennio. Ulisse non si vede, non dialoga con Dante e Virgilio. Egli è il più distaccato dal suo sfondo di tutti i grandi personaggi dell'Inferno, quasi racchiuso, come nella fiamma, nel suo grande racconto. Francesca, Farinata, Brunetto parlano della loro pena, e sono consapevoli della loro colpa; per non dire di Ugolino, la cui vicenda terrena fa tutt'uno col suo gesto presente. La storia di Ulisse è come un fuori campo. Egli ignora i suoi due interlocutori, la sua pena, la sua colpa. Attacca con il Quando, l'inizio della sua tragica avventura, e finisce con il mare che lo ricopre. È una «voce recitante», di nient'altro consapevole che di ciò che narra, e non ha alcun appiglio con la realtà presente, della bolgia dove si trova e dei due poeti che lo interrogano.

Questo singolare carattere, oltre a quello, già osservato, della sua identità non storica ma mitica, contribuisce a distinguere Ulisse tra tutte le altre figure infernali. Qualunque determinazione, quella storica come quella dialogica, avrebbe stabilito una differenza. Ma quella sorta di canto fuori scena narra la storia stessa di colui che scrive. E la storia infatti non finisce qui. Essa riaffiora all'inizio delle altre due cantiche: nel Purgatorio, quando Dante toccherà la spiaggia dove non arrivò Ulisse (e più di una parola del testo sarà chiaro rimando al tragico viaggio infernale, come si vedrà); nel Paradiso, quando proponendo il tema Dante presenterà la nuova e intentata impresa della sua fantasia come una navigazione su un mare mai percorso da alcuno: L'acqua ch'io prendo già mai non si corse. La nave che naufragò nel XXVI dell'Inferno riappare sicura a varcare le acque del regno divino. È questo uno dei tanti rimandi interni che ritroveremo nella Commedia: da Francesca a Piccarda, da Pier delle Vigne a Romeo, da Brunetto a Cacciaguida, da Guido a Buonconte da Montefeltro. Ma in questo caso la storia appare privilegiata: su di essa infatti Dante ha incardinato il poema, come dicono i chiari riferimenti all'inizio stesso delle tre cantiche (per il I dell'Inferno, si vedano le note a folle volo e ad alto passo, nel commento). Tutto il poema è infatti un viaggio, o meglio un ritorno, verso quell'infinito che Ulisse presunse di conquistare con i suoi deboli remi, e che Dante raggiunge per altra via, o meglio con altri mezzi, infinitamente più potenti, e dati gratuitamente, purché – e questo è il prezzo che Dante accetta di pagare – richiesti (si cfr. I 130-3 e Par. XXXIII 25-7).

testo

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;87

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: "Quando90

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,93

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,96

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;99

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.102

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.105

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi108

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.111

"O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia114

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.117

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
".120

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;123

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.126

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.129

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo
,132

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.135

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.138

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

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