giovedì 26 giugno 2025

Iran, il ricambio possibile



La tregua in Iran. L'illusione del cambio di regime a Teheran. Ma una crepa c'è
Riccardo Redaelli, Avvenire, 26 giugno 2025

Sull’ottovolante impazzito della politica mediorientale, si è passati dal rischio della guerra totale a una tregua d’armi. Un accordo gracile e che molti vorrebbero soffocare nella culla, ma che rappresenta una flebile speranza per fermare i bombardamenti, almeno fra Israele e Iran, dato che i massacri di civili a Gaza continuano inarrestabili.

Ieri l’altro, il lancio puramente formale di missili iraniani contro la base in Qatar – miglior alleato di Teheran lungo la sponda araba del Golfo e negoziatore nucleare – faceva intuire che vi era un accordo di sostanza per salvare la faccia al regime e preparare la strada a un cessate il fuoco. Molto gradito alla Repubblica islamica (tranne alle sue frange estremiste), molto meno al governo Netanyahu, che infatti ieri ha irritato il presidente Trump con le sue azioni tese a far saltare un accordo che impedisce nuovi bombardamenti.

È difficile capire se dietro le piroette e i continui cambi di rotta politica del presidente statunitense vi sia una strategia finissima, o se sia solo un procedere ondivago a seconda degli umori del momento. Quel che è certo che si è passati dal cercare il regime change, ossia di abbattere il sistema di potere (il Nezam) creatosi in Iran dopo la rivoluzione islamica del 1979, al sostenere una tregua che lo protegge dai colpi continui dell’iper-potenza militare israeliana. Forse perché appare chiaro quanto non si è voluto vedere in questi giorni, ossia che il regime di Teheran, per quanto detestato dalla maggior parte della sua popolazione, è molto ramificato nel Paese.

La caduta della Repubblica Islamica è da decenni il sogno neppure segreto della destra statunitense e di Israele, ma mai realizzato, dato che l’Iran non è la Siria, non è la Libia o l’Iraq e il Nezam ha una solidità ben maggiore del regime di al-Assad a Damasco, crollato come un castello di carte non appena venuto meno il sostegno russo, degli hezbollah libanesi e iraniano. Per quanto la popolazione sia ostile a Khamenei e al suo sistema di potere, ciò non si è finora tradotto nella formazione di veri movimenti politici organizzati che potessero sfidarlo.

Né sono emerse leadership carismatiche attorno a cui polarizzare un progetto alternativo all’attuale sistema di potere. Anzi, le principali forme di “opposizione” al sistema sviluppatesi in Iran sono interne al sistema, come il movimento riformista, che ne voleva una sua radicale liberalizzazione, senza però chiederne lo smantellamento. All’estero rimangono figure come il figlio dell’ultimo shah, Reza Ciro Pahlavi, che si agita molto in questi giorni ma che è palesemente privo di un reale seguito nel Paese. O peggio, vi sono movimenti radicali come i Mujaheddin--e Khalq, da molti considerati un gruppo terrorista, e fermi a una ideologia islamo-socialista superata dalla storia.

E allo stesso modo, l’illusione di usare contro il sistema di potere di Teheran le minoranze etniche e religiose, dai baluci nel sud-est, ai kurdi, alla minoranza araba del sud-ovest, è velleitaria. Perché essi possono sì creare problemi di sicurezza e tensioni interne, ma certo fa sorridere l’idea di un Iran gestito dalle tribù baluce. La verità è che il regime può contare su un blocco sociale fatto dai ceti più disagiati, che beneficiano del clientelismo del regime, così come da una nuova borghesia legata al Nezam, in cui soldi e affari, si mischiano alla gestione del potere e degli strumenti repressivi. I pasdaran non sono delle forze armate arruolate a forza, come tanti eserciti dei dittatori mediorientali: essi beneficiano di questo sistema politico e sono quindi disposti a difenderlo, anche a costo di sparare sulla propria popolazione.

Paradossalmente, la decimazione dei loro vertici per opera di Israele, nel medio termine, rischia di rafforzarli; da tempo la nuova generazione di ufficiali dei pasdaran criticava la corruzione dei loro vertici, troppo intenti a rubare soldi, a gestire il potere e poco a curare gli aspetti propriamente militari.

La loro morte spiana la strada a nuovi comandanti più determinati e meno corrotti. Infine, Teheran può contare – anche se in modo limitato – su un certo sostegno internazionale. Poco dalla Russia, che sembrava quasi aver accettato uno scambio Ucraina/Iran con Trump; ma la Cina, per quanto prudente a non farsi coinvolgere nelle vicende militari, ha molti interessi in Iran e nel Golfo, e non farà mancare il suo prudente sostegno nelle fasi di ricostruzione economica (e probabilmente anche militare).

Quanto può infine rafforzare Teheran è imparare dai brucianti colpi ricevuti e scegliere di rinunciare alle sue ambiguità sul nucleare. Concedere a Trump di sbandierare un successo internazionale che non è finora riuscito a cogliere sarebbe la sua miglior garanzia. E permetterebbe forse una ripresa della fazione pragmatica e moderata rispetto all’oltranzismo radicale dei pasdaran.

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L'Iran è una bomba a orologeria, Serve una perestrojka come nell'Urss
Bernard Guetta, La Stampa, 26 giugno 2025

L'Iran è un Paese di 90 milioni di abitanti che confina con Iraq e Turchia a Ovest; le monarchie del Golfo a Sud; Armenia, Azerbaigian e Turkmenistan a Nord; Afghanistan e Pakistan a Est. Ricco di petrolio e costituito da minoranze etniche o religiose, l’Iran è quindi circondato da zone di conflitto, guerre aperte e stati sunniti con i quali questa culla dello sciismo è da sempre in competizione.

La Persia di un tempo, contro la quale Maometto aveva unificato la penisola araba nella nuova fede dell’Islam, è diventata dunque una bomba a orologeria. Ci sono tutte le ragioni per temere che il crollo del suo regime possa provocare a breve forti scosse interne, tali da ripercuotersi nell’intera regione. Il pericolo è enorme e per gli iraniani l’unico modo per scongiurarlo sarebbe quello di riuscire a predisporre una transizione politica tra la teocrazia moribonda e il regime delle libertà al quale aspirano in massa.

Così accadde in Spagna tra la fine del franchismo e l’instaurazione della democrazia. L’Europa di allora, naturalmente, non aveva nulla a che vedere con il Medio Oriente di oggi. La Spagna era in pace, mentre l’Iran non lo è ma, con uno scarto di mezzo secolo, gli iraniani oggi beneficiano del medesimo punto di forza degli spagnoli dell’epoca. Come in quel caso, all’interno della loro dittatura si è andato sviluppando un gruppo di persone in rottura con l’ortodossia del sistema istituito, composta da riformatori che auspicano cambiamenti concreti o che sono abbastanza lucidi da vederne l’esigenza. In Spagna furono perlopiù tecnocrati formatisi negli Stati Uniti o nelle capitali europee. In Iran, invece, tutti quegli uomini, e anche tutte quelle donne, hanno creduto nella rivoluzione islamica che, nel caso di alcuni, hanno difeso fino a prendere parte alle repressioni di massa, ma di cui non sopportavano più la corruzione, la cecità e l’avventurismo regionale. Molti hanno segnalato con discrezione il loro dissenso sui banchi del parlamento, sulla stampa, in ambito culturale o perfino ai gradini più alti dell’apparato. Altri di fatto hanno rotto con l’establishment teocratico, presentandosi esplicitamente come riformatori e candidandosi per funzioni elettive, come quella di sindaco, deputato o presidente della repubblica. Di conseguenza, coloro le cui candidature non sono state silurate da istanze teocratiche sono diventati oppositori dall’interno del regime, sono stati subito emarginati, completamente paralizzati come Mohammad Khatami, il riformatore eletto alla presidenza nel 1997 e nel 2002, oppure sono stati messi agli arresti domiciliari come Mir Hossein Moussavi, candidato alle presidenziali del 2009 contro l’ultraconservatore uscente Mahmoud Ahmadinejad a favore del quale furono riempite le urne.

Esistono dunque in Iran molteplici battaglioni di quadri riformatori, dichiarati o velati. Il loro numero varia in modo considerevole a seconda delle amministrazioni, ma se ne trovano perfino nel clero. La situazione in Iran è molto simile a quella che in Unione Sovietica fece emergere la perestroika di Mikhail Gorbaciov e queste persone a un certo punto – così si spera, perlomeno, incrociamo le dita – potrebbero rivestire quella funzione di successione che di norma dovrebbe spettare alle forze organizzate di opposizione che non esistono più ormai da tempo. In questo Paese in passato così politicizzato, i partiti e anche le correnti politiche sono state spazzate via da arresti, esecuzioni e assassinii di massa perpetrati da questa teocrazia spietata. Se si escludono i riformatori usciti dal regime, per il momento non vi sono forze pronte a subentrare al potere, ma questo non significa che in Iran non vi siano oppositori.

Artisti, avvocati o scrittori: l’Iran conta numerose figure ammirate per il coraggio con il quale si sono opposte ai mullah. In futuro, nei dibattiti e nelle discussioni a venire, questi dissidenti avranno il loro peso, ma oltretutto le battaglie con le quali non hanno mai smesso di sfidare la Repubblica islamica da trent’anni a questa parte hanno dato vita anche a numerosissimi combattenti per la libertà. I più anziani di loro, perlomeno cinquantenni, iniziarono a mobilitarsi per l’elezione e la rielezione di Mohammad Khatami. I più giovani sono scesi in piazza nel 2022 dopo la morte di una giovane donna assassinata dai miliziani del regime per non essersi ricoperta convenientemente con il velo. Il movimento “Donna, vita, libertà” è andato crescendo e, prima ancora, c’è stata la “Rivoluzione verde” del 2009, con le immense manifestazioni di protesta contro la rielezione manipolata di Mahmoud Ahmadinejad.

Ogni volta, il potere ha saputo riprendere il controllo ed effettuare una repressione più feroce della precedente. Soltanto l’anno scorso, i mullah hanno ordinato più di 500 condanne capitali. Questa lotta tra Paese reale e Paese legale che si rinnova incessantemente ha fatto però dell’Iran un paradosso assoluto. Mentre la dittatura è crudele e le istituzioni repubblicane sono manovrate interamente dalle istituzioni religiose incarnate dalla Guida suprema, in nessun altro Paese al mondo si trovano altrettanti cittadini e altrettante cittadine con un’esperienza politica simile.

L’Iran è per eccellenza il Paese dei cittadini informati. Per scongiurare il caos, che ben presto potrebbe farsi cruento, basterebbe che i riformatori e i dissidenti più apprezzati caldeggiassero tutti insieme una transizione pacifica che permetta di creare uno scacchiere politico e di organizzare libere elezioni. Il tempo incalza. È questione di giorni.


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