Visualizzazione post con etichetta astensione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta astensione. Mostra tutti i post

lunedì 30 giugno 2025

La democrazia senza la politica

Sabino Cassese
Ci sono più democrazie occidentali, ma sono più vuote

Il Sole 24ore, 29 giugno 2025

Aumenta il numero degli abitanti del pianeta che vive in regimi democratici, ma si svuotano le democrazie occidentali. La politica è spogliata di valore. Si registrano indifferenza e diffusione di sentimenti antipolitici. I segni di questa fase di passaggio delle democrazie sono molti e vanno dall’elettorato, ai partiti politici, alla prevalenza della democrazia costituzionale, all’europeizzazione.

I cittadini si allontanano dall’arena politica convenzionale, declinano la coesione elettorale e l’identità collettiva tra gli elettori. L’affluenza alle elezioni diminuisce, l’elettorato è volatile e imprevedibile. In secondo luogo, diminuiscono il numero degli iscritti ai partiti e il loro senso di appartenenza, aumenta la distanza tra partiti e elettori, sempre meno fedeli a causa del minore radicamento sociale dei partiti. I partiti sono sempre meno attenti all’integrazione, mobilitazione, aggregazione degli interessi e finiscono per rappresentare il governo nella società piuttosto che il contrario.

Tutto questo produce un aumento della componente costituzionale della democrazia (dei pesi e contrappesi), il ricorso a istituzioni non maggioritarie, un governo neo corporativo, in cui le politiche sono decise attraverso negoziati tra interessi e il coinvolgimento degli stakeholders, invece che con la partecipazione popolare. Contribuiscono a questo allontanamento dei partiti dalla società la disciplina legislativa dei partiti e il loro finanziamento pubblico. C’è, infine, una relazione tra l’integrazione europea e la crescente depoliticizzazione perché l’UE opera come una struttura in cui prevalgono le organizzazioni degli interessi e svolge una funzione di regolazione, piuttosto che di redistribuzione.

Quindi le democrazie sono sempre più alla ricerca di legittimità procedurali, registrano un disimpegno dell’élite, mentre perde peso la divisione tra destra e sinistra e si assiste a una presidenzializzazione della leadership politica.

Queste le conclusioni principali di una riflessione straordinariamente efficace, analitica, ben argomentata, fondata su un attento esame di tutti i dati disponibili, dello studioso irlandese Peter Mair, che è stato uno dei principali protagonisti della scienza politica contemporanea e ha insegnato all’università di Leiden e all’Istituto universitario europeo di Fiesole. Questo libro fornisce un contributo fondamentale alle trasformazioni in corso delle democrazie, certamente le più importanti da quando, nel 1835 e nel 1840, Alexis de Tocqueville analizzò la democrazia moderna e ne fissò i concetti principali. C’è ora da chiedersi se queste trasformazioni costituiscano soltanto una fase del ciclo di vita dei regimi democratici o, invece, rappresentino un segnale della sua definitiva obsolescenza.


Peter Mair

Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti

Rubbettino, pagg. 198, € 18

martedì 10 giugno 2025

Una sconfitta culturale


Massimo Franco
Una sconfitta culturale, ma l'astensione riguarda tutti
Corriere della Sera, 10 giugno 2025 

Il flop viene declinato in molti modi. Boomerang, sconfitta, disfatta. Avere toccato appena il 30 per cento dei votanti, venti punti lontani dal quorum, ha reso i cinque referendum proposti dalle opposizioni e dalla Cgil come un fallimento strategico. Ma sostenere che a uscirne frantumato è il cosiddetto «campo largo», ossia l’asse tra Pd e M5S, più addentellati della sinistra ecologista, potrebbe risultare riduttivo. E non perché non sia vero che senza le componenti moderate le sinistre e i Cinque Stelle non sfondano.

Il tema è che anche quell’aggiunta non basterebbe; e che perdere grazie all’astensione massiccia conferma un sistema malato. Il problema è di linguaggio, di temi, e solo di riflesso di alleanze. Il deficit riguarda la cultura politica: un difetto che accomuna sia il Pd di Elly Schlein, sia il M5S di Giuseppe Conte, sia i moderati dem e i centristi di Azione e Iv. E ancora di più una Cgil il cui segretario, Maurizio Landini, alla vigilia additava il quorum come un risultato a portata di mano. «Non lo abbiamo raggiunto», ha dovuto ammettere ieri. Ma «oltre 14 milioni di persone hanno votato: un numero importante, di partenza». Si tratta di una lettura consolatoria, che rimuove alla radice qualunque riflessione autocritica. E tende dunque a non abbandonare lo schema che ha portato alla sconfitta. E costituisce un pessimo viatico per le elezioni politiche. L’analisi del leader della Cgil, vero regista della consultazione, finisce per coprire parzialmente le responsabilità politiche di Schlein e Conte. Ma in qualche misura tende a congelare qualunque discussione sulle prospettive delle opposizioni.


Se il risultato ottenuto è «un punto di partenza», [lo schema] non va cambiato. E dunque si tratterebbe soltanto di affinare [la trovata] del cosiddetto «campo largo», o «progressista»; insomma, della sommatoria tra le forze d’opposizione, senza cambiarne i contorni. Il flop viene declinato in molti modi. Boomerang, sconfitta, disfatta. Avere toccato appena il 30 per cento dei votanti, venti punti lontani dal quorum, ha reso i cinque referendum proposti dalle opposizioni e dalla Cgil come un fallimento strategico. Ma sostenere che a uscirne frantumato è il cosiddetto «campo largo», ossia l’asse tra Pd e M5S, più addentellati della sinistra ecologista, potrebbe risultare riduttivo. E non perché non sia vero che senza le componenti moderate le sinistre e i Cinque Stelle non sfondano.


Il tema è che anche quell’aggiunta non basterebbe; e che perdere grazie all’astensione massiccia conferma un sistema malato. Il problema è di linguaggio, di temi, e solo di riflesso di alleanze. Il deficit riguarda la cultura politica: un difetto che accomuna sia il Pd di Elly Schlein, sia il M5S di Giuseppe Conte, sia i moderati dem e i centristi di Azione e Iv. E ancora di più una Cgil il cui segretario, Maurizio Landini, alla vigilia additava il quorum come un risultato a portata di mano. «Non lo abbiamo raggiunto», ha dovuto ammettere ieri. Ma «oltre 14 milioni di persone hanno votato: un numero importante, di partenza». Si tratta di una lettura consolatoria, che rimuove alla radice qualunque riflessione autocritica. E tende dunque a non abbandonare lo schema che ha portato alla sconfitta. E costituisce un pessimo viatico per le elezioni politiche. L’analisi del leader della Cgil, vero regista della consultazione, finisce per coprire parzialmente le responsabilità politiche di Schlein e Conte. Ma in qualche misura tende a congelare qualunque discussione sulle prospettive delle opposizioni.

...


martedì 10 dicembre 2024

Occhetto, la svolta e Schlein



Marco Damilano
, Occhetto, il muro di Berlino e la svolta. Il ritorno al futuro della sinistra
Domani, 10 dicembre 2024

Quando si riaccendono le luci, Occhetto appare quello di sempre, un ragazzo di quasi 89 anni che non ha perso il senso dell’avventura in politica. Nuovista, svoltista, lo accusarono gli avversari e soprattutto i compagni, forse solo lui però poteva avere il coraggio di voltare pagina. «Ma il film smentisce la leggenda che io abbia agito in solitudine. È stata la più grande e appassionante discussione del secolo. La svolta non fu di Occhetto, ma dei compagni. Il sì vinse tra il popolo, tra gli operai più che tra i chierici».

 La svolta era legata alla riforma del sistema politico bloccato, «un gioco che si ripete all’infinito senza una autentica speranza di alternativa», sosteneva il segretario del Pci nell’89. Ma poi l’alternativa è arrivata da destra. «È avvenuta una profonda trasformazione della società», dice Occhetto. «Ho visto una fotografia alla bellissima mostra su Berlinguer, c’è lui in cappotto in un cantiere deserto, da solo con due edili, senza altri intorno. Oggi non c’è più Berlinguer, ma non ci sono più nemmeno quegli operai, quella società. Le fabbriche della Fiat della Cosa di Moretti non ci sono più, da tempo. Con il neo-liberismo il mondo del lavoro si è spappolato, si è individualizzato.

In America vince Trump, in Italia ha vinto Berlusconi, e poi Renzi, anche se per altri motivi, va distinto da Berlusconi, e ora Giorgia Meloni. E il Pd è stato fagocitato dall’andazzo delle sinistre europee, che sono state subalterne al neo-liberismo e alla sua visione di globalizzazione. Abbiamo perso contatto con i settori popolari che ci appartenevano, si è creato un vuoto riempito dai populisti, ora dobbiamo rimontare una situazione difficile. Non si può rimproverare a Elly Schlein di non andare in mondi che non ci sono più, lei giustamente va a riprendere il contatto dove è sparito il voto».

Il non voto

All’epoca Occhetto chiedeva di rivolgersi alla «sinistra diffusa, una sinistra sommersa e scoraggiata». Significava uscire dal confine, dal recinto del Pci. Oggi l’Italia sommersa è quella che diserta le urne.

«Nel non voto ci sono gli illusi del populista di turno. I delusi da Grillo, i delusi da Salvini che si sta sbriciolando. La sinistra va cercata in forme diverse, nella società civile e nella partecipazione attiva. Il campo largo non è il campo delle sigle, prima devi fare l’unità della società e poi vengono le sigle. Serve un progetto che parli all’insieme della società. Non sono iscritto al Pd, mantengo la mia critica, doveva essere una nuova formazione fondata sulla contaminazione reale tra le culture, invece è stata una sovrapposizione a freddo di apparati. Ma sostengo l’azione di Elly Schlein per cambiarlo, il suo sforzo titanico, coraggioso, le auguro buon lavoro».

lunedì 13 marzo 2023

Si riapre una partita

 

 
 
Ezio Mauro
Il consenso e il mandato, la Repubblica, 12 marzo 2023

È una strana creatura, finalmente uscita dal Novecento e liberata dalle ruggini ideologiche sopravvissute alla lezione del secolo, questo Pd che ieri si è affacciato alla post-modernità nello scenario della “Nuvola”, col disegno del tempo sospeso. Presentato come agonizzante dopo la vittoria elettorale della destra estrema guidata da Giorgia Meloni, accompagnato da preci che chiedevano il suo scioglimento per adempiere alla falsa profezia secondo cui l’antitesi destra-sinistra non riusciva più a interpretare le contraddizioni del nuovo mondo, di colpo con la vittoria di Elly Schlein il Pd ha risolto il problema capitale del primum vivere . Adesso bisogna inventare una filosofia del nostro tempo, in grado di risolvere l’incertezza del Paese e persino di governarla recuperando un rapporto di fiducia nella società, partendo da quel deposito di energia democratica che non si vedeva a occhio nudo e che le primarie hanno svelato.
Come in tutte le fasi di crisi, che radicalizzano i problemi rendendo evidenti le vie di fuga, quanto è accaduto ha una lettura semplice: il sistema politico è talmente stremato che l’ultima speranza viene riposta soltanto nel cambiamento. Persino Giorgia Meloni, ministro di Berlusconi già nel 2008 — quindici anni fa — è stata scambiata per una novità, privilegiando la sua provenienza dall’altromondo piuttosto che il suo curriculum castale di lungo corso.
Questo sentimento generale da tempo si è incanalato per gran parte nella palude civica dell’astensione, arrivata ormai a una quota del 40 per cento che contrasta col principio costituzionale del voto come dovere civico verso il Paese: nella convinzione per cui la posta in gioco è così bassa, e le differenze sono così irrilevanti, che non vale la pena alzarsi dal divano per esprimere una preferenza. Ma c’è evidentemente una riserva d’impegno civile, convinta al contrario che il diritto di cittadinanza si esprime proprio nella capacità di distinguere comunque e nel dovere di scegliere in ogni caso, prendendo parte. A sinistra, nonostante le delusioni e le frustrazioni accumulate, questa disponibilità democratica ha continuato a covare sotto la cenere governista, nell’illusione ministeriale che intanto viveva artificialmente e contronatura, separando il voto dall’esercizio del potere.
Radicali e spettacolari, concentrate sui leader trasformati in personaggi piuttosto che sulle idee tradotte in programmi, le primarie sono diventate insieme la valvola di sfogo e il mezzo d’espressione di questa energia repubblicana compressa, arrabbiata, delusa ma comunque viva, addirittura irriducibile.
Perforando gli incomprensibili rituali di partito e il viluppo di regole trasformate in ossessione procedurale, hanno aperto uno spiraglio di democrazia diretta, senza la ritualità maestosa di un congresso ma con l’irruzione della sovranità di base, quando il potere di scelta si sposta dalla nomenklatura agli elettori. Per un giorno il partito — unico in Italia — si apre, si espone al giudizio, e diventa contendibile. Anzi di più: scalabile. Questa è la vera chiave di interpretazione dell’uso politico delle primarie, perché unisce il testardo senso di appartenenza con il decisivo istinto di sopravvivenza, testimoniando l’urgenza vitale del cambiamento come ultima spiaggia. E dunque premia chi dà l’assalto al quartier generale rispetto a chi amministra lo status quo, con un pregiudizio di massa a favore della scalata, versione riformista, si potrebbe dire, della spallata d’altri tempi.
La partecipazione e il consenso sono quindi un’arma a doppia lama: perché contengono il senso della speranza residuale e il rifiuto della pratica politica attuale, l’adesione e la repulsione, l’attaccamento e il distacco. In questo senso gli elettori delle primarie hanno votato soprattutto per se stessi, cioè per confermare una loro personale fedeltà a un’idea e a un’identità, anche se non le sentono rappresentate. Poi naturalmente Schlein si è presentata all’incrocio tra questi due sentimenti politici come la figura piùpronta a impersonarli entrambi, sommandoli nella promessa di azzardo e di sfida. Ma anche lei, tra gli applausi che ieri hanno salutato l’incoronazione, deve sapere che la sua vittoria è fatta più di un mandato che di un consenso: èla magnifica condanna a cambiare, partendo dalla necessità di interpretare l’identità incompiuta della sinistra di fine secolo, finalmente risolta, non ideologica, europea, occidentale, radicale nei principi, liberale nel metodo.
Conciliare l’unità del partito (senza farsi ricattare dall’eterna minaccia di scissione) con la necessità continua del rinnovamento non è semplice: ma è il ballo che la nuova segretaria deve ballare, ad ogni costo. Insieme con l’impegno a difendere e sviluppare i diritti senza fare soltanto una collezione di minoranze, ma innestandoli sul grande albero di una moderna cultura del lavoro, tenendo insieme l’emancipazione dal bisogno e l’innovazione del sistema: per combattere le ingiustizie soprattutto quando diventano esclusioni, puntando a costruire una forza sociale e non solo politica interessata a un Paese più giusto e più libero, anche dalle sue ossessioni ideologiche tardive. La disumanità mostrata dal governo a Cutro apre addirittura uno squarcio di civiltà alternativa, la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri: su cui si può sfidare fino in fondo questa destra immemore.