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mercoledì 3 settembre 2025

De Sanctis innamorato


Lezioni di scrittura : lettere a Virginia Basco (1855-83) / Francesco De Sanctis ; a cura di Fabiana Cacciapuoti. - Roma : Donzelli, 2001!. - XXX, 145 p. 

Le lettere che Francesco De Sanctis inviò a Virginia Basco fra il 1856 e il 1883 non sono soltanto la testimonianza di un intenso e sofferto scambio affettivo, di un amore mai fino in fondo dichiarato, che si protende lungo un arco pluridecennale, e resiste alla differenza d'età. L'asimmetria di quella relazione si esprime anche e soprattutto attraverso un rapporto di natura pedagogica. De Sanctis, il professore, l'insigne storico della letteratura italiana, elegge Virginia a sua allieva prediletta. Le scrive con l'intento dichiarato di insegnarle il bello scrivere; si fa promotore, presso di lei, di una vera e propria iniziazione alla scrittura letteraria. Pubblicate per la prima volta da Benedetto Croce nel 1917, e qui riproposte con l'aggiunta degli inediti e restituite alla lezione originaria che il ritrovamento degli autografi ha consentito, le lettere rivelano l'intensità del progetto che legava il professore alla sua allieva. Come in un romanzo di formazione, De Sanctis trasmette alla sua giovane corrispondente l'idea di una letteratura che sia soprattutto passione e strumento di conoscenza, nello stesso momento in cui, per insegnarle la tecnica della scrittura, le indica gli autori e le opere con cui confrontarsi. E dunque, vere lezioni di scrittura sono quelle che si leggono in queste pagine: la struttura della novella, del racconto epistolare, la costruzione dei personaggi ideati a partire dal dato reale, la descrizione dei tipi, la scelta della situazione, la differenza fra tragedia e dramma, la composizione poetica. E su ogni suggerimento prevale l'attenzione a una letteratura che non sia cosa morta, ma contrasto di opposti in cui si riproduca la vita. (presentazione editoriale)

Carla Piro Mander
Corriere Torino, 2 settembre 2025

«La tua ultima lettera mi perseguita, Virginia; se scrivo o se cammino, è una voce ostinata che mi distrae o mi sussurra all’orecchio: Quant’Ella è buona, caro Professore! “A che pensi?”, mi dicono all’intorno. Io non rispondo, ma dico in me stesso: “Quant’ Ella è buona, caro Professore!”. Oggi, facendo lezione, mi parea che quella voce mi venisse dalla finestra e talora vedeva in mezzo a’ giovani i tuoi occhi che mi guardavano».

È il 17 giugno 1856 e Francesco De Sanctis, professore di letteratura italiana, scrive da Zurigo, dove insegna. Ha 39 anni e da poco ha ottenuto una cattedra presso il Politecnico di quella città. Il suo è un nome noto. Avellinese, umanista e critico letterario, ha già avuto tra i suoi allievi alcuni di quelli che sarebbero poi diventati tra i principali nomi della cultura italiana: Giustino Fortunato, Pasquale Villari, Angelo Camillo De Meis, Luigi La Vista.

Gli scritti della prima parte della sua vita, ispirati a una sensibilità romantica, hanno lasciato spazio a una naturale tendenza progressista, a nuove concezioni liberali. Si è avvicinato alla politica, a maggio del ‘48, convinto sostenitore delle richieste di libertà unità e diritti costituzionali, è salito sulle barricate delle rivoluzioni che stanno moltiplicandosi in Europa. Ha preso parte ai moti insurrezionali della Primavera dei popoli e per questo nel novembre dello stesso anno è stato sospeso dall’insegnamento. Si è rifugiato in Calabria ma nel 1850 è stato arrestato e recluso a Napoli, dove è rimasto fino al 1853 quando, espulso dal Regno dalle autorità borboniche e fatto imbarcare per l’America, ha potuto fermarsi a Malta e quindi a rifugiarsi a Torino.

Quando scrive la lettera a Virginia è un critico affermato, una delle figure più importanti del Risorgimento italiano, a cui Croce Gentile e Gramsci, divisi su molte cose, guarderanno come a un maestro ideale. Lei è Virginia Basco, vent’anni meno di lui, vive tra Torino e Mazzè e discende da una facoltosa dinastia radicata in canavese. Francesco l’ha conosciuta nel periodo in cui — scrive Croce — «esule in Torino, insegnava nell’istituto femminile della signora Elliot». All’ottenimento della cattedra svizzera però, ha dovuto lasciare il Piemonte, senza dimenticare la giovane allieva che forse ha corrisposto ai suoi sentimenti. Per lei — scrive Croce — De Sanctis accarezza un sogno di amore fino a sperare di farne «la sua sposa». Ma le cose vanno diversamente.

«Mia cara Virginia — è l’ottobre del ‘56 — entravo nella mia stanza e mi parve sì brutta. Qui, dicevo tra me, dovrò rimanere incarcerato per tanto tempo, e qui non vedrò alcun volto d’amico, non un sorriso benevolo. [...] Così passeggiavo in lungo e in largo, ricordando tristamente la mia stanza di Torino, quando la mia brutta camera mi parve che s’illuminasse di un tratto, reggendo sul mio tavolino una lettera di Virginia. Guardai due o tre volte; temevo d’ingannarmi. Ma riconoscerei tra mille il tuo carattere, che mi ha tante volte destate sì grandi commozioni. Per quale miracolo una tua lettera si trovava prima di me a Zurigo? Sorrisi della mia credulità e compressi amaramente la mia commozione [...] Cominciai a leggere e mi pareva di trasognare. Mio Dio! È proprio una tua lettera che tu indirizzavi a Belgirate, e che i miei pietosi amici mi hanno mandata a Zurigo. Ho passato un’ora con la tua lettera in mano; ne ho commentata ogni parola. Mi è sembrato come un lungo e doloroso addio. Purtroppo è vero, mia Virginia. Il cielo non avea destinato che noi vivessimo insieme, e mi ha lanciato lontano da te e da tutti i miei cari».

Virginia infatti è andata sposa al conte Enrico Riccardi di Lantosca, ma la devota corrispondenza di De Sanctis continua, qualche volta anche nonostante il silenzio di lei. A dicembre: «E chiuderei dunque questa lettera, senza parlare un po’ con te, Virginia? Ti ho scritto, ed attendo risposta. [...] Una tua lettera, Virginia, e non passerò male questi giorni; leggendo le lettere che ricevo, mi parrà di stare in mezzo ai miei cari, di conversar con loro; non sentirò di esser solo. Teresa mi ha scritto, e son contento ora. Ma tu pure mi scriverai, n’è vero? Perché anche tu vuoi bene al professore ed egli ha tanto bisogno di sentirsi amato!».

Le risposte di Virginia si faranno sempre più rare, sposata e dimentica del suo professore. Che invece non la dimenticherà mai e che ancora qualche mese prima di morire, nel maggio 1883, le scriverà: «Cara Virginia, dopo tre anni di lotte e di travagli finalmente ho acquistato l’uso degli occhi. Tu mi hai dimenticato e mi hai lasciato solo in mezzo ai miei mali. Ma che fare? Sei sempre Virginia, dagli occhi dolci e dal sorriso intelligente e mi ricordo di te e ti chiamo. Lunedì sarò a Roma. Chi sa che non ci possiamo vedere. Sarà per me una gioia. Sempre tuo amico F. De Sanctis».

Virginia e Francesco non si vedranno più. Sarà Benedetto Croce, anni dopo, nel 1917, volendo celebrare il centenario della nascita di De Sanctis, a farlo raccontando la storia dell’amore delicato, quasi inconfessato, che aveva legato Francesco e Virginia, e — recuperate da quest’ultima ormai settantottenne, le missive originali — pubblicherà Lettere a Virginia che ancora custodisce l’intero epistolario.

«… Di questa finezza ed amabilità io ebbi a sentire gli estremi raggi quando, nei 1914, fattole pervenire per mezzo di una comune amica il mio desiderio di ottenere copia delle lettere del De Sanctis che ella serbava, fui invitato nel settembre alla sua villa di Mazzè Canavese, e ricevetti da lei premurosa accoglienza. E subito ella cavò da una cassetta e mi porse le lettere del suo maestro, legate con nastrini di seta celeste scoloriti dagli anni; e parecchie ne leggemmo insieme, sottolineate durante la lettura dal suo sorriso (particolarmente nei luoghi in cui si toccava di sue ambizioni letterarie); e tutte mi permise di portare con me, per copiarle a mio agio per la pubblicazione che preparavo».

domenica 24 agosto 2025

Il destino della coppia


Chiara Saraceno e altri
La coppia è liquida
a cura di Jessica Chia
Corriere della Sera La Lettura, 24 agosto 2025

Oggi l’espressione «per sempre» ci sta stretta. Fino a quarant’anni fa, in Italia, c’erano alcuni punti fermi nella vita delle persone che davano una sicurezza a cui aspirare: l’acquisto di una casa, per esempio, una scelta che ci avrebbe accompagnato per tutta la vita. La conquista del «posto fisso», che avrebbe garantito una stabilità economica fino alla pensione (anche quella, sicura). La ricerca della persona giusta con cui costruire una coppia stabile, finché morte non vi separi.

Oggi continuiamo a stipulare mutui (sempre più tardi) sapendo che probabilmente la prima casa non sarà eterna. Veniamo ancora assunti (sempre più tardi), ma cambiamo lavoro quando non ci sentiamo soddisfatti o se l’ambiente ci risulta malsano (tra i motivi che hanno portato al boom delle Grandi dimissioni). Stiamo ancora in coppia, ma in modo più labile e selettivo, aperto a diverse possibilità, senza aspirare «naturalmente» al matrimonio. Le relazioni sono diventate più liquide, per prendere in prestito la metafora che Zygmunt Bauman (1925-2017) usò per descrivere la nostra società. In un mondo sempre più «a termine», anche le relazioni sono diventate a tempo determinato.

Su «la Lettura» #697 del 6 aprile, in occasione di un’intervista insieme al regista Emanuele Aldrovandi, lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini, parlando del suo libro Chiamami adulto (Raffaello Cortina) in cui esplora la relazione tra l’adulto e l’adolescente, ha detto: «Non ci sarà a breve nessun motivo per cui convenga mettersi in coppia, nel senso tradizionale (...). Abbiamo detto ai bambini e alle bambine di essere indipendenti e autonomi; abbiamo alimentato l’idea che se rinunci a qualcosa per la manutenzione della coppia non va bene perché non realizzi più la tua identità. La coppia non ha vinto».

«La Lettura» è tornata sul tema per capire se la cosiddetta coppia tradizionale — quella che si intendeva formata da un uomo e da una donna che si univano in matrimonio — è finita e quali nuove forme e possibilità (o quali retaggi) si porta dietro l’idea di coppia nelle nuove generazioni. Oltre a Lancini, hanno preso parte alla conversazione: Annalisa Ambrosio, laureata in Filosofia e autrice de L’amore è cambiato (Einaudi); il demografo, saggista e docente all’Università Cattolica di Milano, Alessandro Rosina; la sociologa Chiara Saraceno (in libreria con La famiglia naturale non esiste, Laterza).

La coppia è in crisi?

MATTEO LANCINI — A breve la coppia non esisterà più. Nel senso tradizionale già non esiste da tempo. L’incontro quotidiano con adolescenti e giovani adulti testimonia i cambiamenti avvenuti, sono figli di un’educazione, di una cultura affettiva e relazionale del tutto diverse. Prima abbiamo assistito al passaggio dall’amore romantico all’amore narcisistico; cioè dal sacrificio in nome della coppia, a una coppia che rispecchia il sé, dove il progetto individuale non deve essere messo in discussione dalla coppia stessa. Fino ad arrivare a un’epoca che definisco post-narcisistica, dove la terza fase sarà quella della fine del rapporto di coppia, nel senso che si potrà stare benissimo da soli. Infatti, da tempo, si parla di famiglia unipersonale.

Come vivono in coppia gli adolescenti?

MATTEO LANCINI — In questi anni i ragazzi hanno promosso nuovi legami, come i friends with benefit, gli «amici con benefici» (una relazione di amicizia all’interno della quale si hanno rapporti sessuali senza stare insieme, ndr). La spinta educativa familiare e sociale, sin dall’infanzia, è in direzione dell’autonomia, che rischia di trasformarsi in individualismo «a tutti i costi». Sempre più spesso le coppie di giovani adulti si lasciano perché sostengono di vivere un amore tossico, nonostante stiano ancora bene insieme. Abbiamo invaso la mente di queste generazioni con il tema delle dipendenze affettive e dell’amore tossico. Oggi bisogna anteporre il sé al sé di coppia e quindi la coppia diventa sempre più spesso un ostacolo. È in atto un cambiamento enorme. Estremizzando, dico che la coppia è talmente in crisi, che non esisterà più nel giro di pochi anni.

ANNALISA AMBROSIO — La mia posizione è forse un po’ più moderata. Penso che sì, la coppia sia in crisi e se la stia vedendo dura, ma non perché stia finendo la possibilità della coppia, dal momento che a quella se ne affiancano tante altre, e che c’è un’idea meno univoca di che cosa si intenda per realizzazione amorosa, o relazionale, di un individuo. C’è una biodiversità maggiore rispetto a quello che intendiamo come realizzazione dell’amore. La coppia tradizionale nel nostro mondo è entrata in crisi con l’introduzione della legge sul divorzio (1970): l’amore poteva non essere più per sempre ma poteva avere una «data di scadenza». Poi sono d’accordo sul fatto che ci siano nuove prospettive di vita, che stanno capitando soprattutto ai più giovani, e che prima erano più elitarie o riservate a meno persone. Come parlare più lingue, andare più facilmente all’estero; o, al negativo, la precarietà lavorativa e l’idea che si possa disegnare il proprio futuro tenendo conto che si potrà cambiare più volte il proprio mestiere. Queste variabili rendono più complesso il fatto di essere disposti a una progettazione comune. Rispetto al tema dell’individualismo e del narcisismo, io però vedo una possibilità positiva nel superamento della coppia, che è quella del non avere come orizzonte di riferimento «un solo altro», ma «degli altri». Ovviamente, questo va accompagnato da un movimento intellettuale, culturale, politico anche, perché è un ritorno all’orizzonte della comunità.

CHIARA SARACENO — La riflessione su com’è cambiata la coppia risale almeno agli anni Settanta; pensiamo al sociologo Anthony Giddens e al suo La trasformazione dell’intimità (il Mulino, 1995), che non parlava della fine della coppia, ma diceva che l’amore romantico era finito da un pezzo. E l’amore romantico era inteso come amore fusionale, ma era per lo più la donna a fondersi negli interessi dell’uomo. Quando si parla di individualismo, bisogna pensare ai cambiamenti che hanno riguardato le donne nella coppia tradizionale, che per molti funziona ancora, soprattutto in certe classi sociali. È stato il cambiamento delle donne a mettere nel rapporto di coppia «un altro individuo»; non a caso Giddens parlava della coppia negoziale, in cui bisogna discutere e bilanciare di più. Non era più, dunque, il principio costituzionale che dice che nel matrimonio si è uguali, fatta salva l’unità della famiglia, in cui si dava per scontato che uno dei due, che poi era la donna, subordinava la propria uguaglianza all’interesse dell’accordo.

E oggi che cosa succede?

CHIARA SARACENO — Sul fatto che i giovani non abbiano più tanto interesse per la coppia, a me verrebbe da osservare il contrario; c’è quasi una pressione a mettersi in coppia già da bambini. Questo prendersi e lasciarsi così facilmente è dovuto al fatto che si sperimenta, si cresce. Nell’analisi di questo fenomeno non c’è solo l’arrivo del divorzio, che non ha decretato la fine dell’amore, ma la fine del matrimonio, che non necessariamente è fondato sull’amore. C’è anche il femminismo che ha cambiato le regole della coppia, le aspettative delle donne rispetto alla coppia, e quindi la necessità per gli uomini di tenere conto dei loro desideri e opportunità. E poi oggi c’è il fatto che la coppia non è più solo un modello di vita adulta, ma è diventato un modello non normativo in senso legale, ma nella cultura, per i genitori: per esempio, quando ci si riferisce al fidanzatino della figlia di sei anni, questa è una formulazione dentro un modello di coppia delle relazioni tra bambini, che nella mia generazione era totalmente censurata, ma che adesso trova una cornice «normativa».

Quale fotografia dell’Italia ci danno oggi i dati, per esempio, di single e divorziati?

ALESSANDRO ROSINA — È vero che all’interno delle famiglie sta aumentando la fetta di quelle che vengono chiamate famiglie unipersonali, cioè chi vive da solo. Ed è una crescita speculare alla discesa delle coppie con figli, cioè della famiglia tradizionale. Le famiglie unipersonali, che erano arrivate a essere oltre il 25% all’inizio di questo secolo, ora sono più di una su tre. Tra i motivi di questa crescita: l’aumento della popolazione anziana che resta senza coniuge; nelle età centrali c’è l’effetto dello scioglimento delle coppie; la crescita dei single tra i giovani, come conseguenza del fatto che si lascia la famiglia d’origine per cercare opportunità di lavoro. È anche vero che il mercato si adatta sempre più alle persone che vivono come single, oggi c’è un’accettazione sociale che legittima la tua scelta; per esempio non esistono più le «zitelle». Poi ci sono cambiamenti di tipo organizzativo: si diffondono i Lat, Living apart together, due persone che vivono in abitazioni diverse e che si percepiscono in una in relazione sentimentale. Questo fa capire anche quanto siamo in una fase in cui la statistica ha difficoltà a misurare quello che accade se continua a utilizzare categorie superate. Infine, ci sono cambiamenti culturali che riguardano gli atteggiamenti e le preferenze: l’aumento dell’individualismo, la riduzione dell’importanza delle norme sociali; l’orientamento a fare scelte in autonomia per la propria realizzazione; l’atteggiamento critico verso la qualità della coppia. Non c’è più un’accettazione incondizionata. E sta succedendo qualcosa di inedito anche nelle nuove generazioni, dai Millennial (i nati tra il 1982 e il 1996, ndr) in avanti, che sta cambiando ancora con la Gen Z (o Generazione Z, 1997-2012, ndr): ciò che nelle generazioni precedenti si voleva conquistare, cioè che l’unione matrimoniale potesse essere sciolta, che l’autonomia femminile potesse portare a scelte di realizzazione personale, che la valutazione della coppia di qualità, e l’essere single, fosse qualcosa di accettato — è diventato la normalità.

Quindi oggi che cos’è la norma?

ALESSANDRO ROSINA — Non è più una coppia che dura per sempre, ma una coppia che può sciogliersi. In Italia il cambiamento rispetto al divorzio è avvenuto anche in tempi più lenti rispetto agli altri Paesi: prima ci volevano 5 anni di separazione per arrivare al divorzio, ora vanno a coincidere. Oggi l’instabilità coniugale si sta avvicinando a quella di altri Paesi: oltre un matrimonio su tre si scioglie e la maggioranza delle coppie si forma con un’unione informale. E oltre il 40% dei figli nasce fuori dal matrimonio. Tutti cambiamenti da aggiungere all’aumento naturale della longevità. Poi, a partire dalla Gen Z, c’è tutto l’impatto di internet, dei social, del web 2.0, di Tinder (tra le più celebri App di dating, le App di incontri con cui trovare partner romantici o sessuali, ndr), e l’idea dei legami fluidi, la possibilità di formare relazioni basate su criteri con cui confronti varie opzioni di partner su cui fare la tua scelta, sperimenti... E arriviamo ai giovani che si confidano con ChatGPT.

MATTEO LANCINI — Vorrei fare una precisazione: non metterei il tema della coppia e dell’amore insieme. Il tema dell’amore è più complesso. Stiamo parlando della costruzione della coppia, quella che ha in sé un'idea di progetto, di stabilità. Si rischia di dare per scontato che due persone che siano in coppia si amino; non sempre è così. La coppia potrebbe diventare come il mio rapporto di psicoterapia con i ragazzi: una relazione profonda, ma senza un vincolo, ci si incontra se si vuole, decidendolo di settimana in settimana. Se la coppia non si fonda su un progetto generativo o di stabilità futura, in che senso parliamo di coppia? Che cos'è oggi una coppia? Quella che ci raccontano molti giovani: "Stiamo insieme fino a quando ne abbiamo voglia". La chiamiamo coppia ma è un'altra cosa e a me non dispiace.
La monogamia è in crisi? Oggi molti giovani adulti dichiarano sempre più apertamente di essere all'interno di "coppie aperte", o di utilizzare App di dating anche solo per incontrare partner sessuali.

MATTEO LANCINI — Non credo che molti ragazzi siano favorevoli alla coppia aperta. Se mai abbiamo una tendenza crescente, quella del controllo reciproco delle App, sia da parte di maschi che di femmine, che secondo me non riguarda vecchi modelli di controllo, ma nuove insicurezze maschili e femminili. Ci sono nuove forme, chiamiamole di gelosia, che originano da fragilità che a loro volta provengono dal non riconoscimento dei propri bisogni e delle emozioni, in infanzia e in adolescenza, da parte degli adulti. Credo che la vera prevenzione sia considerare la coppia in senso nuovo, cioè il «non essere una coppia». E allora, come la intendiamo? Essere due amici, due che si frequentano, due che stanno assieme? Chiediamo di non rinunciare al proprio progetto individuale, ma siamo arrivati a negare i loro bisogni e qualsiasi emozione ci disturbi, soprattutto paura, tristezza e rabbia. Quindi il mio è un tentativo di ritornare all’evidenza, cioè che l’essere umano nasce con dipendenze affettive, che ormai neghiamo dalla nascita. Il bisogno proprio e dell’altro va rimesso al centro.

ANNALISA AMBROSIO — Rispetto al tema della monogamia, penso che siamo in un momento di esplorazione retorica dell’argomento «fine della coppia». Mi domando se questa esplorazione sia l’esito del fatto che qualcosa è cambiato, oppure sia l’espressione di un desiderio di cambiamento. A causa della negazione dei bisogni di cui parlava Lancini, forse viene spontaneo pensare che l’alternativa, rispetto a un legame molto stretto con una sola persona, sia l’opposto, cioè un legame più o meno lasco con diverse persone. Credo però che siamo ben distanti dal condividere il modello, per esempio, del poliamore, che io trovo interessante perché ha a che fare anche con i sistemi politici: la negazione di una gerarchia nei rapporti. Ma lo vedo lontano dal realizzarsi in opposizione alla monogamia, almeno in questo momento.

CHIARA SARACENO — Il termine monogamia andrebbe qualificato, perché storicamente e culturalmente è molto circoscritto. La monogamia pura forse è stata imposta alle donne, in certe epoche, ma non porrei in contrapposizione la fine della coppia con la fine della monogamia. Parlerei della fine della monogamia come status ufficiale di una coppia, come norma «imposta». Penso invece che il poliamore sia un discorso interessante, ma ancora marginale. Non vorrei sopravvalutare fenomeni che sono interessanti, ma che riguardano una minoranza. Nella maggioranza delle persone forse è tutto fin troppo tradizionale, prosegue un modello asimmetrico nella divisione del lavoro e delle responsabilità tra uomini e donne. Sono d’accordo con Lancini sul fatto che quando c’è una coppia ci dovrebbe essere un investimento, fare una coppia è un lavoro. Non userei la parola sacrificio perché oggi la coppia è idealmente basata su un’idea di parità, c’è soprattutto una negoziazione che riconosce i bisogni dell’altro. Un rapporto basato sul sacrificio, anche nei confronti dei figli, diventa pericoloso, se uno dei due si sente sacrificato. La questione è che forse le generazioni più vecchie non sono state capaci di trasmettere insieme l’idea dell’importanza dell’individuo, del fatto che il tuo destino non deve dipendere da un altro, e la cura che i rapporti richiedono.

Lancini, la negoziazione di cui parla Saraceno esiste nelle coppie tra i più giovani?

MATTEO LANCINI — La negoziazione è il riconoscimento del valore dell'altro e della coppia, una mediazione tra i propri bisogni e quelli dell'altro. Questo pone la questione della differenza tra autonomia individuale e realizzazione di sé al di là dell’altro, tra non dipendere da nessuno e non sacrificare nulla. La società in cui viviamo è andata ben oltre il narcisismo. Rispetto all’idea di famiglia, dentro una cultura che sta cambiando, diciamo alle bambine in primis, ma pure ai maschi, anche se in questo caso esistono ancora stereotipi di genere, che tutto deve essere fatto in nome della realizzazione di sé.

ALESSANDRO ROSINA — La coppia tradizionale è messa in discussione, ma non per essere superata tout court da una nuova tipologia che si imporrà, e che sarà una non-coppia. Si crea piuttosto un’eterogeneità, una maggiore possibilità di vivere le relazioni, e al contempo ci si perde anche nelle scelte possibili, e ci si ritrova in una condizione di incertezza. Ognuno deve trovare i propri equilibri o disequilibri dinamici; non si vuole rinunciare all’investimento su di sé e alla propria crescita personale, ma al contempo diventa un impoverimento dover rinunciare ai progetti di relazione. Ed è la questione su cui le nuove generazioni rischiano di essere spiazzate e di perdersi. Ma al di là della relazione affettiva esclusiva, legata alla monogamia, c’è una condizione di relazione affettiva privilegiata che nessuno vuole perdere; cioè il sentirsi esseri speciali nei confronti di altre persone è valore. Come bene ha espresso Franco Battiato nella canzone La cura.

Ci sono dati che illustrano questa condizione di incertezza nelle relazioni giovanili?

ALESSANDRO ROSINA — I dati del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo che abbiamo appena raccolto, fanno capire come questa condizione della relazione affettiva esclusiva, che si fa fatica a tenere assieme, ma che si vorrebbe costruire, vada a ripescare atteggiamenti tradizionalisti. Quando chiediamo ai più giovani, tra i 18 e i 34 anni, se considerano accettabili alcuni comportamenti (l’indagine completa è raccolta nel grafico alle pagine 6-7, ndr), vediamo che gli stereotipi di genere alla fine permangono proprio per la difficoltà di riuscire a declinare in maniera nuova le relazioni. Quindi: controllare abitualmente il cellulare e l’attività sui social network del o della partner, dicono che non è mai accettabile il 47,7% dei maschi e il 61% delle femmine; geolocalizzare e controllare la posizione del o della partner non è mai accettabile per il 49,6% dei maschi e il 60,5% delle femmine; vietare al o alla partner di vestirsi in un certo modo è inaccettabile per il 43,5% dei maschi e per il 73,7% delle femmine; vietare al o alla partner di uscire con chi vuole, lo considerano mai accettabile il 47,1% dei maschi e il 68,9% delle femmine. Continuano a essere presenti forti differenze di genere che vanno ad adottare modelli tradizionali per la difficoltà di trovare nuovi codici per vivere positivamente la coppia e sentirsi soggetto privilegiato nella relazione, senza voler sentire l’altro come ricondotto alle proprie esigenze e a dar sicurezza a sé stesso.

CHIARA SARACENO — Sono dati ancora peggiori rispetto all’indagine Istat sugli stereotipi di genere di qualche anno fa, che mostravano la stessa asimmetria: i maschi più tradizionalisti, e per me questo è legato al vecchio maschilismo, comunque a una volontà di controllo e di possesso. Colpiscono anche le risposte delle ragazze perché prosegue quell’idea che essere controllate sia apparentemente segno di essere amate.

ALESSANDRO ROSINA — C’è anche un forte legame con il titolo di studio: più è alto, più le donne si sentono autonome e pretendono di essere indipendenti.

CHIARA SARACENO — Molti di questi fenomeni sono legati all’eterogeneità di classe sociale e di livello culturale, che probabilmente c’è sempre stata, ma oggi è ancora più accentuata o è più visibile. Il problema è che l’eterogeneità non è solo tra gruppi o classi sociali, ma a volte c’è dentro la coppia stessa; cioè le aspettative rispetto alla coppia possono essere diverse. Questo dato non è in miglioramento, ma è sempre in accentuazione il divario di genere, anche tra i giovani. Conta l’istruzione, anche se a volte quelli più istruiti sono soltanto un po’ più abili a rispondere.

Quello che cambia tra le generazioni è il riconoscimento — in teoria — che le differenze di genere andrebbero superate. Però poi, in concreto, nei dati, tornano a emergere.

CHIARA SARACENO — Secondo me è un riconoscimento che ha più a che fare con il lavoro e non con ciò che riguarda la coppia. Cioè è un’uguaglianza che riguarda l’esterno della coppia, non l’interno.

ALESSANDRO ROSINA — Sul fatto che ogni cosa che può fare un maschio dovrebbe poterla fare una femmina, c’è un riconoscimento. Ma sul piano della coppia c’è qualcosa che poi non funziona e schiaccia in difesa rispetto alle proprie paure e timori e rispetto al poter perdere il legame che fa sentire unici.

ANNALISA AMBROSIO — Penso che questo abbia a che fare con la medicalizzazione della società: c’è una minore disposizione a soffrire senza preoccuparsi subito dell’antidoto alla sofferenza. Lo stare in una relazione che comporta quel lavoro di cura che dicevamo, ti costringe a fare i conti con l’idea che l’altro non sia in tuo possesso esclusivo e quindi con momenti di dolore e di gestione di un panico, di un bisogno. Trovo che ci sia un divario enorme tra la retorica in circolo, e poi la disponibilità individuale a mediare, a negoziare. Cioè: io ho dei valori, ma la loro messa in pratica mi risulta molto difficile. Forse perché, come diceva Rosina, abbiamo interiorizzato dei modelli, ma stiamo ancora cercando di ricombinarli. E poi secondo me c’è una difficoltà nel distinguere tra dolore e fatica. Nelle relazioni è necessario fare fatica, ma non necessariamente deve comportare un dolore. Altrimenti occorre domandarsi se la relazione è giusto che prosegua o no.

MATTEO LANCINI — I dati vanno sempre letti qualitativamente. Chi incontra i ragazzi e li ascolta ha presente quali sono le motivazioni e le rappresentazioni alla base di queste affermazioni, che non sono ascrivibili esclusivamente a vecchi modelli culturali ma vanno interpretate alla luce dei nuovi funzionamenti generazionali. Si tratta di vissuti legati a nuove forme di insicurezza. Sappiamo che esistono espressioni manifeste di crisi del maschile, e molti psicoterapeuti, oltre me, ne scrivono da anni. È un controllo figlio di queste fragilità e insicurezze, nell’epoca della geolocalizzazione. Le dinamiche affettive sono diverse; in un certo senso anche più drammatiche perché riguardano l’assenza dell’altro, il non sentirsi pensato, che ha promosso un vuoto profondo nelle nuove generazioni. C’è maggiore ricerca di certezze, di una presenza costante dell’altro che noi adulti non garantiamo ai nostri figli. E quindi c’è una cultura affettiva da tenere in considerazione. Faccio il paragone con il fumo degli spinelli; oggi si consumano come trent’anni fa, solo che in passato il consumo era trasgressivo-oppositivo, oggi è lenitivo-antidolorifico. Quando entriamo in classe a effettuare interventi di prevenzione della violenza di genere ascoltiamo i ragazzi per comprendere i motivi per cui tra di loro fanno un patto in cui la coppia può esistere, ognuno può fare quello che vuole, ma a condizione che ci sia sempre una presenza costante. La password condivisa come atto di fiducia, accedere al telefonino è come dire: fammi entrare nella tua vita, non tagliarmi fuori. Allora bisogna stare molto attenti a leggere questi dati come vecchie forme di possesso e di controllo. Il tema è fondamentale perché purtroppo si attivano interventi di prevenzione della violenza di genere sulla base degli stereotipi di chi li progetta e li realizza. Certo che c’è un bisogno esagerato di controllo, che poi uno chiama tossicità, ma è un problema di bisogni non riconosciuti, perché non si tollera la distanza percepita come assenza.

L’Istat ha previsto che nel 2050 il 41% delle famiglie sarà composto da single. Verso quale direzione sta andando la famiglia?

CHIARA SARACENO — Questi dati hanno a che fare con il ciclo della vita e con l’invecchiamento della popolazione. Mio marito è morto dieci anni fa, e io da allora sono single. Ma non è che sono stata single tutta la vita. Queste strutture familiari che appaiono scritte nella pietra, oggi hanno significati diversi. Un conto è come appaiono dal punto di vista della residenza e della anagrafica, un altro dal punto di vista dell’esperienza delle persone. Quindi su questo bisogna stare attenti; e comunque la prevalenza delle famiglie anagraficamente monopersonali è dovuta all’invecchiamento; segue il divorzio o l'instabilità della coppia residenziale. In altri paesi c'è una quota molto più numerosa dovuta ai giovani che escono di casa senza essere ancora in coppia; è normale per uno di 25 anni non stare più con i propri genitori, cosa che in Italia non lo è per motivi diversi, non solo economici ma anche culturali. L'Istat dice che aumenteranno i single, certo, perché abbiamo fatto pochi figli, e questi prima o poi escono di casa. Ma questo non significa che non siamo più necessariamente in coppia o che non lo siamo mai stati o che non lo saremo di nuovo.

...


venerdì 15 agosto 2025

Infermieri del 118


Federico Gottardo 
I soccorritori: “Il nostro amore nato in ambulanza salvando vite tra mille rischi e pochi soldi”
La Repubblica Torino, 14 agosto 2025

«Noi infermieri siamo al fondo di ogni classifica, abbiamo responsabilità enormi a fronte di stipendi bassi e aggressioni continue. E gli autisti soccorritori non stanno meglio: per lo Stato sono classificati come operai».

A parlare sono Chiara Mina e Fabio Ferrarotti: infermiera lei, autista di ambulanza lui. E volontari del 118 nel tempo libero. Si sono conosciuti salvando vite e lo scorso settembre hanno comprato casa insieme a Poirino, con i loro colleghi che li prendono in giro e hanno coniato la definizione “due cuori e un’ambulanza”: «Ormai la nostra vita è diventata di dominio pubblico – sorridono Mina, 25 anni, infermiera al pronto soccorso del Maria Vittoria, e Ferrarotti, di 27, assunto in un’azienda che produce ambulanze dopo essere stato dipendente della Croce Verde di Villastellone – Noi scherziamo (parafrasando Beautiful) che la nostra associazione è “Verdiful”».

Vi siete conosciuti lì in Croce Verde?

«Sì, eravamo colleghi ma avevamo entrambi altre vite. Poi, a forza di vederci in ospedale e in sede, abbiamo iniziato a uscire insieme all’inizio del 2023».

Com’è scoccata la scintilla?

«Abbiamo iniziato a parlare dei pazienti quando ci incrociavamo al Maria Vittoria, scrivendoci per condividere quanto successo. Poi abbiamo capito che c’era qualcosa di più, abbiamo chiuso entrambi la relazione precedente e ci siamo avvicinati piano piano».

Lavorare insieme, così a stretto contatto sulle ambulanze, aiuta o complica una relazione?

«Per scelta noi cerchiamo di fare servizio insieme: il fatto di vivere emozioni così forti, dalla nascita di un bambino a un soccorso delicato, ci ha legati. E l’affiatamento aiuta: ci conosciamo così bene che sappiamo cosa fare senza neanche parlare, ci basta uno sguardo per capirci e intervenire. D’altro canto sarebbe difficile lavorare tutti i giorni uno accanto all’altra. In ogni caso, il bello è che facciamo lavori simili e quindi capiamo bene le rispettive difficoltà».

Ultimamente le difficoltà per chi lavora sulle ambulanze sono sempre di più. Voi come la vivete?

«Purtroppo è calato tanto il volontariato perché meno persone hanno l’interesse e il tempo da dedicare a questa esperienza. In generale, manca la vocazione del sentirsi utili agli altri, con un ritorno in “soddisfazione” più che economico: un’anziana che ti ringrazia perché la porti in ospedale e ritorno vale più di qualunque stipendio. Poi viviamo un contesto storico difficile, in cui la sanità viene raccontata soprattutto in negativo».

Quali sono i problemi?

«Il nostro è un bel lavoro ma è molto difficile, a partire dalla gestione del tempo agli stipendi. Per quello diciamo che siamo in fondo a ogni classifica, soprattutto se si confronta con i rischi, le responsabilità e le aggressioni che subiamo quotidianamente. Sarebbe ora che venisse valorizzato. Ci sono delle lacune enormi e il risultato è che mancano medici e infermieri che vogliono salire sulle ambulanze o lavorare nei pronto soccorso. E gli autisti soccorritori hanno i contratti Anpas ma lo Stato non li riconosce».

mercoledì 6 agosto 2025

Storia di Léa


Isaure Gillet 
La nostra vita senza sesso: "Lei si avvicina a me e dice: 'Voglio baciarti'"
Libération, 6 agosto 2025

 “A marzo 2021, quando sono arrivata alla scuola guida dove lavorava Elo, avevo una relazione da quasi due anni con un ragazzo, Louis (1). Vivevamo insieme, tutto andava bene tra noi, tanto che parlavamo di bambini e fidanzamenti. Per me, era un fatto compiuto che avrei concluso la mia vita con lui.

"Ma quando vedo Elo per la prima volta – entra nella scuola guida – sento come se qualcosa stesse accadendo dentro di me. Non oso rispondere quando mi parla, mi vengono i brividi quando mi passa dietro... Ho una cotta. Nella mia testa, nel mio cuore, tutto si capovolge. Col tempo, iniziamo a chiacchierare, ci conosciamo. Mi dice che fa un po' di streaming su Twitch, ci rendiamo conto che ad entrambi piace l'elettronica, quindi ci suoniamo a vicenda qualche suono.

“Con il mio ragazzo ho un vero e proprio blocco: non oso più fare sesso con lui o guardarlo negli occhi. Elo nota che non sto bene, quindi mi manda un messaggio per chiedermi se sto bene. Le dico, senza dirlo apertamente, che ho la sensazione di innamorarmi di un'altra, di una ragazza. Lei mi chiede se è lei. Vado a casa sua quella sera e le confido quello che provo. Elo mi dice che non sono la prima ragazza etero che si è innamorata di lei e che mi passerà. Da parte sua, è finita perché lavoriamo insieme, ho una relazione, abbiamo dieci anni di differenza. E lei non vuole tornare in una relazione.

"Non è qualcosa che possiamo controllare."

Poi è il turno di Louis di rendersi conto che le cose non stanno andando bene. Gli spiego che non so a che punto sono i miei sentimenti, ma non gli dico subito che mi sono innamorata di qualcuno, non mi assumo davvero la responsabilità. Lui non sospetta nulla: sa che sto parlando con Elo, che ci vediamo, ma pensa che sia solo una collega di lavoro. Si crea una freddezza tra noi, perché lui cerca di capire e io non sono sincera con lui.

(Sandra Fastre/Libération)

"Durante una festa a casa di amici dei miei genitori, parlo di nascosto con Elo e Louis se ne accorge. Il giorno dopo, cerca il mio account Instagram e si imbatte nei messaggi. Mi sta attaccando. Non capisce perché gli ho mentito; è un po' una forma di inganno, anche se non è ancora successo nulla tra me ed Elo. Nonostante tutto, ho la sensazione che stia ancora cercando di capirmi."

"Passo la notte a casa della mia sorellastra e il giorno dopo torno a casa a prendere le mie cose e porre fine alla relazione. Dico a Louis che mi sono innamorata di Elo, che non posso fare altro perché non è qualcosa che puoi controllare. Mi dispiace di averlo ferito; è una persona adorabile che non ha mai fatto niente di male. Poi vado a casa di Elo, che accetta di ospitarmi.

“Nel mio corpo è un’esplosione.”

"Per una settimana abbiamo dormito separate, lei sul divano e io nella sua stanza. Sono ancora un po' turbata dalla situazione. È travolgente innamorarsi di una donna per la prima volta. Sono sempre stata attratta dagli uomini.

Ci baciamo per la prima volta, all'ingresso della sua stanza. Mi sembra che stiamo cambiando, e dopo un po' si avvicina a me e dice: "Voglio baciarti". Allora le prendo le guance e la bacio. Nel mio corpo è un'esplosione, sento come se ci fossero tanti fiori che crescono ovunque, non saprei spiegarlo. Poi ridiamo, perché è divertente, è un po' come il bacio di un bambino. È l'inizio della nostra relazione, il 14 agosto 2021. Non ho mai lasciato casa sua, è diventata la nostra casa.

giovedì 24 luglio 2025

Le donne di Casanova

Manon Balletti (1740-1776)

RACCOLTA DI EPISTOLE. “Giacomo Casanova. Corrispondenza femminile (1757-1796)”

È la storia di una triplice resurrezione. Nel 1925, il libraio e stampatore Constantin Castéra fondò una casa editrice che chiamò A l'enseigne du pot cassé (Il segno del vaso rotto), in omaggio al suo collega del XVI secolo Geoffroy Tory, incisore e stampatore del re, che operava sotto questo marchio; vi pubblicò classici fino al 1950.

Un secolo dopo, l'accademico Jean-Luc Nardone fa rivivere la casa che ha fatto rivivere questo marchio rinascimentale, ed è a una riscoperta definitiva che invita con il primo titolo pubblicato – su carta vergata e corredato di incisioni, come per i suoi predecessori: quello delle lettere d'amore, ma non solo, indirizzate da donne a Giacomo Casanova (1725-1798), che l'avventuriero veneziano conservò per tutta la vita. La maggior parte delle sue, tuttavia, è andata perduta.

Dunque, le donne hanno voce in capitolo, di fronte a un uomo ridotto al rango di "agente di conversazione" , come nota nell'introduzione Jean-Christophe Igalens, grande specialista dell'autore di Histoire de ma vie , che sottolinea la libertà di queste "voci singolari" a loro volta salvate dall'oblio. Florent Georgesco

https://www.lemonde.fr/livres/article/2025/07/24/notre-selection-de-livres-cette-semaine-un-voyage-en-or-remy-de-gourmont-comment-ecrivent-les-ecrivains_6623276_3260.html

Casanova incontrò Manon, figlia di Silvia e Mario Balletti, nel gennaio del 1757. All'epoca aveva diciassette anni. Conosciamo Manon Balletti dalle lettere che scrisse a Casanova, che egli non distrusse. Queste lettere sono scritte in uno stile perfetto e affascinante, difficile da trovare nelle lettere di giovani ragazze di oggi. È quasi certo che Manon non ebbe una relazione carnale con Casanova, il quale era essenzialmente impegnato ad assicurarsi una posizione nell'alta società parigina. Secondo Casanova, fu Manon a interrompere il loro rapporto epistolare, delusa dalla sua indifferenza.

https://le-petit-casanoviste.fr/les-femmes.html

sabato 19 luglio 2025

Michelle Vian, l'altra


Simone de BeauvoirLa forza delle cose, traduzione di Bianca Garufi, Einaudi, Torino 1966 [1963]

In marzo [Boris Vian] diede un party; quando arrivai tutti avevano già bevuto parecchio; Michelle, sua moglie, con i lunghi capelli biondi lisci come seta sulle spalle, non faceva che sorridere (p. 64)
[Nelson Algren] Aveva una grande affezione per Michelle Vian che chiamava Zazou e che gli faceva coscienziosamente da interprete anche quando il calore della conversazione ci trascinava. (p. 178)
Era primavera, la sua allegria mi conquistò. Ce ne andammo in macchina, nel Mezzogiorno, Sartre, Bost, Michelle ed io. Michelle si era separata da Boris e Sartre, che l'aveva sempre trovata molto attraente, si era legato intimamente con lei. Io le volevo bene, tutti le volevano bene, perché non era invadente. Gaia e un po' misteriosa, discreta e sempre presente, era una compagna deliziosa. (p. 251)
Ripartii poco dopo. Sartre era in Italia per tre settimane con Michelle, e ci andai anch'io con Olga e Bost (p. 252)
 

Massimo De Feo, Boris Vian, il manifesto, Alias, 10dicembre 2016

Nel suo romanzo La schiuma dei giorni (1947) dedicato a Michelle Léglise, Vian prende bonariamente in giro Sartre chiamandolo Jean-Sol Partre e cambiando titoli ai suoi libri, come La nausea che diventa Il vomito. Sartre pare non se la prese, anzi fu tra i primi a riconoscere le qualita’ letterarie di Vian, ma i rapporti tra i due si fecero piu’ rari dal momento in cui, nel 1949, il matrimonio di Vian ando’ a rotoli e Michelle Léglise divenne l’amante di Sartre. Vian ebbe una seconda moglie, Ursula Kübler, una ballerina svizzera nelle compagnie di Maurice Béjart e Roland Petit, conosciuta nel 1950 a un cocktail da Gallimard e sposata nel 1954.

Michelle Léglise Vian

13 dicembre 2017
12 giugno 1920, Bordeaux (Gironda) - 13 dicembre 2017, Parigi
Jazz Hot n°682, Inverno 2017-2018

Boris Vian e suo marito "Bébé" da uno schizzo pubblicato sul settimanale parigino La Bataille, n°238 del 14 luglio 1949 © Collezione François Roulmann, per gentile concessione

Michelle Léglise Vian è morta mercoledì 13 dicembre 2017 a Parigi, all'età di 97 anni. Giornalista, traduttrice e attivista femminista, era la prima moglie di Boris Vian.

Nata nel 1920 (lo stesso anno di Boris), cresciuta rigorosamente da genitori ex insegnanti e molto attaccati al decoro, Michelle Léglise fu educata al Lycée Lamartine (Parigi (XI), di fronte all'appartamento di famiglia al 98 di rue du Faubourg Poissonnière. Nel luglio del 1940, la famiglia Léglise fuggì da Parigi e finì a Capbreton. Fu in questa piccola città delle Landes che Michelle incontrò i fratelli Vian, che si erano rifugiati anche lì . Insieme a "Le Major", alias Jacques Loustalot - immortalato da Boris Vian in diversi scritti - perlustrarono le feste a sorpresa del luogo. Alain, il fratello minore di Boris, era molto popolare con Michelle, ma all'inizio dell'anno scolastico a settembre, fu Boris che trovò a Parigi, nel quartiere degli Champs-Élysées. Boris continuò i suoi studi di ingegneria all'Ecole Centrale des Arts et Manufactures, situata ad Angoulême. La giovane donna era affatto Le feste a sorpresa organizzate dai Vian a Ville-d'Avray. I due giovani si sposarono il 3 luglio 1941 a Saint-Vincent de Paul, a Parigi. Il loro primo figlio, Patrick, nacque il 12 aprile 1942.

Nella Parigi occupata, la piccola famiglia Vian viveva nell'appartamento dei suoceri in rue du Faubourg-Poissonnière e si recava a Ville d'Avray quasi ogni fine settimana. Boris si guadagnava da vivere – troppo poco per i suoi gusti – come ingegnere all'Afnor. Michelle lavorava come freelance per diverse cifre in un'ampia gamma di pubblicazioni. Entrambi appassionati di jazz, lingua inglese e cultura americana, rovistavano tra i librai di seconda mano alla ricerca di romanzi americani di prima edizione e assistevano a numerosi concerti. Dopo la Liberazione, divennero dei veri e propri "tour operator" per soldati americani e musicisti americani desiderosi di scoprire Parigi. Fu Michelle a fornire a Boris Vian il suo primo lavoro freelance, nel 1945, per una newsletter dal titolo sobrio Les Amis des Arts. Fu anche lei a battere a macchina i suoi primi scritti, Trouble dans les Andains , Vercoquin et le Plancton e, naturalmente, L'Ecume des jours . Fu anche con i loro due nomi che pubblicarono le loro prime traduzioni per la "Série Noire" di Gallimard nella primavera del 1948: La signora del lago e Il grande sonno di Chandler. Boris gli deve una solida conoscenza dell'inglese, grazie al romanzo "ABC Murder"  di Agatha Christie il lettore non ha un dizionario, ma deve dedurre il significato di una parola incrociando le diverse occorrenze).

Michelle ha altre aspirazioni oltre a essere una casalinga. Assiste a concerti jazz, si presenta alle inaugurazioni, dibatte con il team di Les Temps Modernes , posa per il cartellonista Brénot, presta i suoi lunghi capelli a una pubblicità L'Oréal, pubblica recensioni cinematografiche ed è coinvolta in tutte le avventure di Saint-Germain-des-Prés. I coniugi Vian invitano a cena a casa loro in diverse occasioni Sartre, Beauvoir, Camus, Merleau-Ponty, Pontalis, Astruc, Queneau, ecc.

Il 16 aprile 1948 nacque Carole, la secondogenita della coppia, mentre la separazione si stava gradualmente disgregando. L'anno successivo, Michelle divenne l'amante di Jean-Paul Sartre, di cui rimase amica intima e collaboratrice fino alla morte, avvenuta nel 1980.

Nonostante le crescenti difficoltà coniugali, Michelle e Boris continuarono a vedersi e a scriversi, in parte perché avevano due figli e anche perché erano profondamente legati sul lavoro. Si scambiavano informazioni sulla vita parigina quando uno dei due era rifugiato a Saint-Tropez, si correggevano reciprocamente i testi e le traduzioni e si davano consigli professionali.

Quando Boris Vian lasciò la casa di Rue du Faubourg Poissonnière, portò con sé dischi jazz e i suoi libri di Queneau e Aymé, ma le lasciò quasi tutti i suoi manoscritti. Il divorzio fu finalizzato nel settembre del 1952. Boris ora viveva con la ballerina Ursula Kübler, che sposò nel 1954. Michelle continuò le sue pubblicazioni, in particolare su Les Temps Modernes , dattilografò i testi di Sartre e divenne politicamente attiva all'ombra del filosofo.

Negli anni '60 e '70, è coinvolta in tutte le battaglie al fianco di Sartre e Simone de Beauvoir: scende in piazza e tiene comizi per difendere i prigionieri politici, i poveri e gli svantaggiati, sostiene il popolo irlandese, i lavoratori migranti spagnoli, i lavoratori della Renault, gli ebrei dell'URSS... Le telecamere li filmano mentre vendono  La Cause du peuple ai lavoratori della Renault a Billancourt, un giornale della sinistra proletaria di cui Sartre aveva appena assunto la direzione nel maggio 1970. Michelle è stata anche una delle 343 firmatarie del Manifesto per l'aborto, scritto da Simone de Beauvoir e pubblicato su Le Nouvel Observateur il 5 aprile 1971 (anche Ursula Vian-Kübler è stata una delle firmatarie).

Nel 1993, vendette il manoscritto de L'Ecume des jours alla BNF, il cui acquisto fu finanziato dalla vendita delle raccolte di Apostrophe di Bernard Pivot. Ancora oggi, la maggior parte dei manoscritti del primo periodo di vita di Boris Vian è conservata alla BNF perché erano stati conservati da Michelle.

Negli ultimi anni, siamo stati indotti a fare appello alla sua favolosa memoria per chiarire alcuni dettagli che ci erano sfuggiti nella stesura delle note per l'edizione Vian della Pléiade. Così, ci ha recitato per esteso la poesia Les Djinns di Victor Hugo quando le abbiamo chiesto il significato di "il gin Funèbre Fils (di Tréport)", la giocosa riscrittura di Vian di "Djinns funèbres / Fils du trépas" nel suo primo romanzo pubblicato, Vercoquin et le plancton. Michelle era presente alla festa di presentazione dei romanzi di Vian nella collezione de La Pléiade, nell'ottobre 2010; uscendo, ci ha confessato di essersi divertita molto, ma che era stata comunque meno divertente di una serata con Duke Ellington...

venerdì 18 luglio 2025

Claude Lanzmann, l'altro


Claude Lanzmann Regista francese (Parigi 1925- ivi 2018). Partigiano, ha ricevuto una medaglia della Resistenza. Docente all'Università di Berlino durante il blocco, amico di J.-P. Sartre e S. de Beauvoir, anticolonialista, fedele a Israele, ha per decenni collaborato alla rivista Les Temps Modernes. Dal 1970 si è dedicato al cinema e nel 1973 ha realizzato il documentario Pourquoi Israël, che ha ottenuto un notevole successo di pubblico. L. è celebre sopratutto per il film documentario su cui ha lavorato per oltre un decennio Shoah  (1985), sullo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale della durata di nove ore e mezza, opera monumentale importante sia dal punto di vista storico che cinematografico, che ha ricevuto diversi riconoscimenti. Del 1994 è Tsahal che chiude la trilogia. Nel 2009 ha pubblicato il libro di memorie Le lièvre de Patagonie ed è del 2013 Le Dernier des Injustes, documentario sul rabbino di Vienna B. Murmelstein. Cavaliere della Legion d'Onore e Cavaliere dell'Ordine Nazionale del Merito, nel 2013 il Festival di Berlino gli ha conferito l'Orso d'Oro alla carriera. (Treccani)

Simone de BeauvoirLa forza delle cose, traduzione di Bianca Garufi, Einaudi, Torino 1966 [1963]

Era la fine di luglio. Dovevo partire in macchina per Milano, dove Sartre mi avrebbe raggiunta in treno; avremmo proseguito insieme e viaggiato per due mesi attraverso l'Italia. Nel frattempo Bost e Camus, che avevano l'incarico di preparare una Guida per l'editore Nagel, si preparavano allegramente a spiccare il volo per il Brasile. Si erano comprati lo smoking bianco e Bost ci invitò a festeggiare la loro partenza attorno a un aïoli. Gli suggerii di invitare anche Claude Lanzmann. La serata si protrasse fino a tardi, bevemmo. Al mattino squillò il telefono: "Vorrei portarla al cinema", mi disse Lanzmann. "Al cinema? A vedere?" "Non ha importanza..." Esitai: avevo un mucchio di cose da fare, ma sapevo che non dovevo rifiutare. Prendemmo un appuntamento. Con mia grande sorpresa, quando riattaccai il ricevitore scoppiai a piangere.
Cinque giorni dopo lasciai Parigi; dritto sul bordo del marciapiede Lanzmann agitava la mano mentre la macchina si metteva in moto. Era successo qualcosa; qualcosa, ne ero certa, cominciava. Avevo ritrovato un corpo. Turbata dall'emozione dell'addio, uscendo di città mi perdetti in periferia, poi imboccai la Nazionale 7, felice di avere davanti a me quel lungo nastro di chilometri per ricordare e fantasticare. 
Sognavo ancora quando, due giorni dopo di mattina uscii da Domodossola dove mi ero fermata per dormire; adesso avevo preso in macchina due ragazze inglesi che andavano da Calais a Venezia in autostop con in tasca un biglietto d'aereo Monaco-Londra per il ritorno. 

Durante queste vacanze, Lanzmann aveva fatto un viaggio in Israele; ci eravamo scritti. Tornò a Parigi due settimane dopo di me e i nostri corpi si ritrovarono nella gioia. 

Ebreo e primogenito, le responsabilità di cui era stato investito fin dall'infanzia l'avevano precocemente maturato; a volte sembrava persino che portasse sulle spalle il peso di una esperienza ancestrale: non pensavo mai, parlandogli, che era più giovane di me. Eppure sapevamo che fra noi c'erano diciassette anni di differenza: questi anni non ci spaventavano. Quanto a me, avevo bisogno di distanza per impegnare il mio cuore dato che non intendevo minimamente venir meno alla mia intesa con Sartre. Algren apparteneva a un altro continente, Lanzmann a un'altra generazione: era anche questo un disorientamento che equilibrava i nostri rapporti. La sua età mi destinava a essere solo un momento della sua vita; e questo giustificava ai miei occhi il fatto di non dargli nulla della mia. Del resto non me lo chiedeva: mi accettava in blocco, con il mio passato e con il mio presente. Tuttavia il nostro accordo non si cocluse in un istante. In dicembre passammo alcuni giorni in Olanda; lungo i canali gelati, nelle caverne dalle tende accuratamente tirate, parlammo a lungo di noi. Le vacanze che ogni anno passavo con Sartre ci ponevano un problema: non volevo rinunziarvi, ma una separazione di due mesi sarebbe stata penosa per tutti e due. Decidemmo che ogni estate Lanzmann avrebbe passato una decina di giorni con Sartre e con me. Nel corso delle conversazioni successive altre inquietudini e gli ultimi dubbi si dissiparono. Al ritorno a Parigi decidemmo di vivere insieme. Avevo amato la mia solitudine, ma non la rimpiangevo.