domenica 1 giugno 2025

La Cisgiordania


Nessuno crede alla pace, l'obiettivo è il controllo
Ettore Sequi, La Stampa, 1 giugno 2025

...  il vero punto di rottura non è Gaza. È la Cisgiordania. Siamo di fronte a un nuovo paradigma che muta la natura geopolitica della questione israelo-palestinese. La decisione del governo israeliano di approvare 22 nuovi insediamenti - tra cui la legalizzazione di avamposti fino a ieri illegali - segna il passaggio da un’occupazione negoziabile a un’annessione de facto. È la più ampia espansione dai tempi di Oslo, ma oggi non viene più giustificata in nome della sicurezza: viene rivendicata in nome della sovranità. I ministri Katz e Smotrich lo hanno dichiarato esplicitamente. Il messaggio è chiaro: la soluzione dei due Stati è morta. E non per errore o inazione, ma per una scelta politica deliberata. In Cisgiordania, l’annessione non è più minacciata o camuffata. È realizzata per gradi e legittimata con atti di governo. La Cisgiordania viene trasformata in uno spazio a sovranità asimmetrica: oltre mezzo milione di coloni israeliani con protezione statale, milioni di palestinesi sotto un regime giuridico separato, con diritti sospesi e nessuna prospettiva statuale. La strategia israeliana rischia anche di colpire la conferenza Onu di giugno, promossa da Francia e Arabia Saudita per rilanciare l’idea di uno Stato palestinese.

E la comunità internazionale, pur criticando, tollera nella pratica questa trasformazione che ha implicazioni geopolitiche profonde. Mentre Israele amplia gli insediamenti e congela il negoziato, attori chiave come Arabia Saudita, Egitto e Giordania si trovano in difficoltà crescente. Come può Riad, divenuta il vero interlocutore globale degli Stati Uniti, firmare un’intesa con Israele mentre questo cancella ogni prospettiva per i palestinesi? Come può l’Egitto gestire Rafah con l’aumento dei profughi? L’instabilità generata dall’unilateralismo israeliano si riverbera sullo spazio arabo-sunnita, alimentando sfiducia, polarizzazione, radicalizzazione ed erodendo anche il sostegno occidentale.

Ma il segnale più grave è rivolto al sistema internazionale: il diritto vale solo per chi è troppo debole per violarlo. La Corte internazionale di giustizia ha dichiarato illegittima l’occupazione israeliana e chiesto l’immediata cessazione degli insediamenti. Israele ha risposto espandendoli. Il caso israelo-palestinese rischia di diventare un precedente: in Ucraina, nel Caucaso, in Asia orientale, in Africa. A ciò si aggiunge una frizione strategica tra Israele e Stati Uniti sull’Iran. Tel Aviv considera inevitabile un’azione contro il riarmo nucleare iraniano; Washington punta su un nuovo accordo, sostenuto anche da Arabia Saudita, Emirati e Qatar. È anche per questo che l’amministrazione Trump adotta su Gaza un approccio cauto, evitando pressioni dirette su Netanyahu, per non aggravare il dissenso sul dossier iraniano.

Il risultato è la normalizzazione di una guerra intermittente: tregue brevi e difficili da negoziare, pause umanitarie, poi nuove offensive. Una gestione temporanea, priva di orizzonte politico, che congela il conflitto senza risolverlo e impone costi umanitari insostenibili. Il rischio è che questa diventi la nuova stabilità: un conflitto amministrato, ma permanente.

Israele ha compiuto la sua scelta, pur mossa dalla ricerca di sicurezza: guerra gestita a Gaza, annessione progressiva della Cisgiordania. Se la comunità internazionale continuerà a reagire con ambiguità, non sarà solo la Palestina a sparire come soggetto politico. Si consoliderà l’idea che l’occupazione generi legittimità, che il diritto non valga per tutti, che l’autodeterminazione sia negoziabile. Così ogni tregua sarà solo un intervallo tra due crisi. E ogni mediazione, una gestione dell’instabilità, non la sua risoluzione. La vera domanda è quale disordine siamo disposti a considerare nuova normalità.

1 commento: