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lunedì 11 agosto 2025

La Madonna dell'Arco



Mimmo Grasso
Madonna dell'Arco e delle grazie: un racconto

il manifesto Alias, 10 agosto 2025

Sto nel chiostro del santuario della Madonna dell’Arco, nel comune vesuviano di Sant’Anastasia. «Anastasia» è «la risorta», che libera dai veleni, che intercede per la salute. È, altresì, una santa venerata dagli ortodossi e dai paesi dell’Est, portata qui dalle truppe bizantine di Narsete, generale di Giustiniano.

Nel santuario ha sede un importante Centro Studi di Religiosità Popolare. Questo il sottofondo, l’aura del territorio. È una giornata in cui lo scirocco trascina via dagli alberi l’arancione delle albicocche, il viola delle prugne, il rosso delle ciliegie, l’afrore delle viti. Mi accoglie Mimmo Granata che, col priore dei domenicani, Giampaolo Pagano, ha riorganizzato il museo degli ex voto e curato il volume I miracoli della Madonna dell’Arco (TURISA editrice, 2025).

Sono venuto qui per vedere questo libro di cui mi ha parlato Maddalena Venuso, creatrice del «Museo multimediale dell’acqua» (un miracolo, in questa zona di «lagni» dove scorreva il fiume scomparso di Napoli, il Sebbeto). Mentre mi informava, ho sentito frenesìa nei piedi; ho poi aperto il baule dove conservo, bianca-azzurra-rossa, la mia divisa da fuiente e, obbediente a un richiamo, l’ho indossata, ho percosso il tammurro e ho «dato la voce». Ed eccomi qui, fuiente solitario e imbambolato, pronto ad entrare nell’illo tempore del sacro. I fuiente sono pellegrini che, scalzi e di corsa, il lunedì in albis, in molte migliaia, da tutta la Campania si concentrano davanti alla chiesa dell’Arco ed eseguono riti millenari.

Le famiglie consacrano al ruolo di fuiente i propri figli fin da piccoli, li addestrano su come innalzare i labari al suono della tromba, come dondolare a passi avanti-indietro sotto pesanti altari di legno con l’effigie della Madonna tra file lunghissime di devoti con corone di fiori.

L’occhio esperto dei «capiparanza» giudica la fattura dei grandi stendardi. Mentre cammino per il museo, medito su un altro miracolo: ne Il tramonto dell’Occidente (Galimberti) si valuta come la tecnica, che non ha altro scopo che quello di funzionare sempre di più e meglio, ha assoggettato economia e politica; a Napoli persistono aree di valori collettivi e condivisi, gratuiti (la Grazia), che ti consentono di intercettare l’umano, il naturale, la «vita nuda» (Agamben) e, anzi, denudata, originata dal seme del grido di quando si nasce e che qui si trasforma in rami e foglie, canti a distesa.

Della Madonna dell’Arco (Napoli è fitta di archi e pensando all’arcobaleno si fa la cosa giusta) si sono interessati, con spirito di umiltà, Giovanni Paolo II e Papa Francesco. «Dare la voce» significa consegnarla fisicamente alla Vergine. Entrato nella galleria delle circa 6.000 tavolette votive ho pensato al fantastico di Borges ed ho avvertito un brusìo, un tremore sul pavimento, un m’m come se le preghiere cadessero per terra. Mi sono dovuto appoggiare a Mimmo. Gli antropologi hanno definito questo luogo come «santuario del dolore». Ogni ex voto reca la sigla VFGA (Voto Fatto Grazia Avuta).

Le origini di questo culto, le sue pratiche neuromotorie, sono riferibili al dionisismo un cui residuo è rintracciabile anche nel comune di Somma Vesuviana, durante la «festa delle pertiche». I pellegrini «entrano» in una trance, anche autoindotta, teatrale – ma ricordiamo che l’evento è fondamentalmente una festa – indagata da Lapassade e Rouget, ed è il momento in cui possono esibire e liberare il dolore, l’indigenza, la fatica, l’ossessione, sottoporsi talvolta a un esorcismo collettivo, anche sessuale come nell’ex voto di una donna che «sputa il rospo», «butta fuori il veleno». Le classi sociali dei devoti sono da anni diversificate ma il nucleo originario è costituito dai paria, quelli coi piedi impolverati, come in India, un sottoproletariato estremo che lotta corpo a corpo col proprio corpo, che si aggrappa ondeggiando alla balaustra dell’altare come a un salvagente. Fuori, decine di tammurrari eseguono in cerchio canti per la Grande Madre e danze che ricordano la pirrica greca (danza del fuoco).

Qui il divino è semplice, accessibile, tradizionale. Perché il riferimento all’India? nel ’500- 600 i gesuiti decisero di far addestrare nel Sud Italia, Las Indias de por acà, i novizi da inviare poi nelle Indias de por allà (Asia, America latina). La documentazione su magia e religione nel Sud è cospicua e riguarda anche pratiche bestiali come la «fanorchia» dei pastori calabresi. Il comportamento era recidivo tant’è che Sant’Alfonso creò, duecento anni dopo i gesuiti, la Congregazione dei Redentoristi con la missione di evangelizzare i selvatici. Il fenomeno non riguardava solo il Sud Italia.

Negli archivi dell’Inquisizione del Nord sono custoditi gli atti sui processi nei confronti dei «benandanti», guaritori, stregoni, custodi delle messi, studiati da Carlo Ginzburg (Storia notturna). Gli ex voto, ospitati anche alla Biennale di Venezia, riguardano sempre un pericolo scampato, il sentirsi «risorti», la sofferenza fisica per un’esistenza tenuta insieme con lo sputo, agita-agitata da sentimenti «irrevocabili» in cui si incontrano il corpo e la storia (Foucault), incontro codificato da una scenografia standard e da uno stile orale, dialettale: l’ammalato sul letto, i parenti in ginocchio (per lo più donne), il quadro della Madonna in alto, il mare con navigli periclitanti, coltelli a serramanico che hanno abbandonato la violenza, siringhe di ex tossici, memento di guerra. I nobili partecipavano, in forma anonima, con paramenti sacri e gioielli.

La più alta elaborazione formale della misericordia partenopea è di Caravaggio (Le sette opere di misericordia corporale) il cui schema (in alto la Madonna Incoronata e trasportata da angeli, in basso l’usta del corpo, il suo squarquoio) è quello di questi quadretti in cui la Regina abbassa lo sguardo, clemente, verso la fragilità del fedele ed è a questo sguardo che si dice «grazie». Le associazioni della Madonna dell’Arco a Napoli sono numerose e non c’è segno di pietà più grande che collocare nelle edicole votive, tra le fiamme del purgatorio, le foto dei parenti morti. Mimmo mi sussurra: «Il bene più prezioso di una persona è destinato a diventare ex voto». Obbedisco. Ecco il mio: «Signora dei cimbali e degli archi, ti porto come ex voto il mio silenzio – VFGA».

venerdì 11 aprile 2025

Amore senza mistero

 


Il mensile studentesco Aleteia nel suo numero 3 del giugno 1965 pubblicò ancora due canti cilentani. Si può supporre che il curatore dei testi fosse Gerardo Spira, ma il suo nome non figura accanto ai testi. I due canti sono assai diversi l'uno dall'altro. Il primo, che si trova a pagina 10, è di una grande freschezza e semplicità. Consiste in una serie di variazioni sul tema degli occhi. L'incantesimo dell'amore svelato attraverso lo sguardo:

Dall'uocchi va e dall'uocchi pruvene
dall'uocchi s'accumenza a fà l'ammore

e sono l'uocchi che fanno lu male
e lu core ,nge piglia passione:

e si l'uocchi putessero parlare
sarebbero li primi a fà l'ammore

E mò ca l'uocchi nu 'zanno parlare
tu bella capisci l'intenzione.


Dagli occhi va e dagli occhi proviene
dagli occhi si comincia a far l'amore

e sono gli occhi che fanno il male
e il cuore ci si appassiona:

e se gli occhi potessero parlare
sarebbero i primi a far l'amore

E ora che gli occhi non sanno parlare
tu bella capisci [quale può essere] l'intenzione.


Il secondo canto figura alla pagina successiva e ci trasporta in un contesto di feroce crudeltà e durezza di cuore. Letto con il senno di poi rimanda alla logica del femminicidio che così spesso ricorre nella cronaca italiana attuale. E' una pura esplosione del dispetto che si agita nell'animo dell'innamorato respinto. Da notare che la maledizione era un messaggio ricorrente nei litigi che si svolgevano in dialetto: una persona che era stata maltrattata poteva benissimo bollare il suo persecutore con l'auspicio: "che tu possa gettare il sangue", morire dissanguato, "ca tu puozzi iettà u sangu".  

Quantu sì brutta ca puozz' esse accisa
mancu nu ciuccio te darìa nu vase

Sì stata cotta ind'a nà pignata
n'atu vullu ce vole e po sì ghiuta

Tu iere chera tant'avantata
ca vulive fa uerra e nun hai pututo

Tutti li cose t'aggiu preparato,
lu fuossu, li campane e lu tauto.


Quanto sei brutta, che tu possa essere uccisa 
neppure un asino ti darebbe un bacio

Sei stata cotta in una pignata
un altro bollo ci vuole, e poi sei andata

Tu eri quella tanto piena di vanto
che volevi fare guerra e non hai potuto

Tutte le cose ti ho preparato,
la fossa, le campane e la bara. 


Vera Gheno 
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mercoledì 9 aprile 2025

Amore, croce e delizia


Navigando su Internet scopro che Liberato Messano ha messo in rete la riproduzione di una rivista che era stata pubblicata a metà degli anni Sessanta ad Agropoli da un gruppo di giovani universitari, Alèteia. Nel secondo numero di questo periodico dalla vita breve Gerardo Spira si era occupato di canti cilentani. Aveva anche fornito alcuni elementi utili per un inquadramento storico dei brani da lui presentati a titolo di esempio. Spiegava che l'origine della canzone cilentana andava individuata nello strambotto, una ottava in genere, sei o otto versi endecasillabi rimati alternativamente (AB, AB, AB, AB). L'accompagnamento musicale previsto era affidato a a una chitarra battente, un violino e una mandola, accordati sui due toni: re maggiore e la minore. Quanto alla lingua utilizzata si trattava secondo lui di un idioma misto, in parte dialetto locale, in parte italiano nazionale. C'era anche una modalità di esecuzione: "Chi innalzava la cantata da solo intonava tutto il primo e il secondo verso, poi col coro si ripeteva l'ultima parola del primo verso e tutto il secondo". La presenza del concertino si addice particolarmente al canto in forma di serenata. Ce n'erano anche di altro genere, ma non per questo le precisazioni in proposito perdono di interesse. Nel caso della serenata, allora si trattava di un testo composto dall'innamorato, con una replica possibile da parte della bella destinataria. In un caso la serenata a dispetto si rivolgeva alla madre di lei in termini aspri e vendicativi. Qui interveniva anche il ricorso al bacio come modo per guastare la reputazione della ragazza:

O faccia re na mèrula arraggiata
mi vuoi rare a figlita, che dici?
E si nun me la vuò rà io te la vaso
e doppo vasata che ne facite?
Tu la corte vai e io la corte traso
cu li rinari miei accordo l'amici,
Tu te ne vai cu figlita vasata
io me ne vavu contentu e felice. 

Da notare il passaggio dalla d latina alla r, da una consonante dentale a una liquida (vibrante) con un leggero spostamento della lingua nella bocca; rare, rà stanno per dare e dà. Anche dinari (denari) si converte in rinari. Mèrula è il merlo. Arraggiata vale arrabbiata. Figlita è composta dalla parola figlia seguita dal possessivo tua (ta). Vaso, vasata anche in napoletano sostituiscono bacio e baciata. Traso (da trasire) significa entro. 

O faccia di merlo arrabbiato
mi vuoi dare tua figlia, che dici?
E se non me la vuoi dare io te la bacio
e dopo baciate cosa fate?
Tu in cortile vai e io in cortile entro
con i miei soldi tengo buoni gli amici.
Tu te ne vai con tua figlia baciata
io me ne vado contento e felice. 

E' frequente nei canti il richiamo alla natura, al cielo, al sole e alla luna.

Vogliu parà nu lazzo a ciel sereno
pe 'ncappà li stelle a una a una; 
la prima sera ca 'nge lu parai
pe male sciorta 'nge 'ncappai la luna,
poi ,nge ncappai la stella riana
Appriesse se se ne vener' a una a una;
poi 'nge 'ncappai a nenna mia r'amore
o Dio re lu cielu che fortuna.
 

Voglio lanciare un laccio a ciel sereno
per afferrare le stelle ad una ad una
la prima sera che lo lanciai
per mala sorte ci afferrai la luna,
poi ci afferrai la Stella Diana [Venere, la stella del mattino]
Dietro di lei se ne vennero ad una ad una,
poi ci afferrai la bimba mia d'amore
o dio del cielo che fortuna. 

Il sole, la luna e le stelle appartengono tra l'altro al repertorio degli inni religiosi. "Tu scendi dalle stelle" (canto natalizio), "Bella tu sei qual sole, / bianca più della luna, / e le stelle, le stelle le più belle / non son belle al pari di te" (inno mariano). 

Quanno nascisti tu bella figliola
di grazie e di bellezza ti aspettavo
Nascisti ind'a li rose e ind'a fiuri
lu sole voleva uscir e si vergognava,
la luna si fermò un quarto d'ora
ri caminar con lei non si firava
Quanta fece bella la tua gnora
brunetta, sapurita dolce e cara.
   

Quando nascesti tu bella figliola
di grazia e di bellezza ti aspettavo
Nascesti tra le rose e tra i fiori
il sole voleva uscire e si vergognava,
la luna si fermò un quarto d'ora
di camminare con lei non si sentiva
Quanto ti fece bella la tua dama
brunetta, saporita dolce e cara. 

Anche tra i canti della raccolta torchiarese (Torchiara. Canti e tradizioni, a cura di Silvana Pepe e Giovanni Pico, Salerno, Tipografia Europa 1978), c'è un omaggio alla fanciulla amata che chiama in causa la luna e il sole:

Iddio nun ti putia cchiù bella fari
e tu ca ruormi cu su cor cuntento
La luna è bianca e vui brunetta siti
quella ha l'argento e vui l'oro purtati
La luna nun ha fiamme e vui l'aviti
quella s'ecclissa e vui nun v'ecclissate
Ordunque se la luna voi vincete
Il sole non la luna vi chiamate. 

Torniamo all'articolo di Gerardo Spira. Un altro modo per esaltare la bellezza della donna amata consiste nel moltiplicare i riferimenti possibili e anche, alla fine, i baci a lei spediti.

Ti voglio tanto bene bene nenna mia
quanti parole se scriveno l'anno,
pe quanti cristiani ce sò a la fera
e quanti ne sò nati e nasceranno,
pe quanti fiuri caccia primavera
e quanti uccelli [aucielli] rormene 'n campapagna
pe quanti lumi ardeno la sera
tanti vasi nenna mia te manno.

Ti voglio tanto bene bimba mia
per quante parole si scrivono all'anno,
per quanta gente c'è alla fiera,
e quanti sono nati e nasceranno,
per quanti fiori genera la primavera
e quanti uccelli dormono in campagna
per quanti lumi ardono la sera
tanti baci bimba mia ti mando. 

Ci sono infine i lamenti, lo sdegno e le commiserazioni. Qui forse si può immaginare una scena diversa dal balcone o dalla finestra della donna amata. Questi sembrano se mai canti da intonare in piazza, la sera, o a un angolo di strada stando tra amici. 

Nu iuorno, nenna mia mentre scrivevo 
l'alma dal petto mio si distaccava,
io davo na pennata e pò piangevo
la carta colle lacrime abbagnava,
il braccio a poco poco discendeva
la penna dalle mani mi cascava;
e pensa, bella mia, che pena aveo
pensavo a toia bellezza e lacrimavo. 

Sopra lu sdegnu io starò sdegnato
ca nun te pozzo proprio reverere,
si te veressi ra li cani mangià
pure lu cane mio t'aggrissaria,
lu miereco te pozza urdenare
la sputazzella mia per medicina,
voless sta cient'anni a lu spetale
apposta bella pe te fa murire. 

Sullo sdegno mio sarò sdegnato
perché proprio non ti posso rivedere,
se ti vedessi mangiata dai cani
ti scaglierei contro anche il mio cane,
che il medico ti possa ordinare
il mio sputo come medicina,
vorrei stare cento anni in ospedale
apposta, bella, per farti morire.

Se ne viddi la fortuna a mari
sopra nu nero scoglio che piangeva,
e tantu lu piangere e lacrimare
che anche li pisci sospirar facea,
ietti io pe l'addommannare
invece di rispondere più piangeva,
poi si vutau cu nu piantu amari
sei nato sfortunato mi diceva.

Mi toccò vedere al mare la fortuna  
che piangeva sopra un nero scoglio
e tanto il piangere e il lacrimare 
da far sospirare anche i pesci,
andai a interrogarla
e invece di rispondere piangeva ancora di più,
poi si voltò con un pianto amaro:
Sei nato sfortunato, mi diceva. 

Terra triste il Cilento, dove non tutti i salmi finiscono in gloria. La rabbia come l'amore si intreccia con l'esistenza materiale, con la presenza degli animali, con i pesci, con il cane, con gli umori del corpo, con lo sputo addirittura. Forse la poesia non arriva a prendere il volo appesantita da tanta concretezza. Ma certo l'universo quotidiano del contadino e del pescatore si mescola all'espressione dei sentimenti. Dal sole e dalle stelle fino alla terra, allo scoglio del mare, ai pesci e al cane feroce.  





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lunedì 18 novembre 2024

Il volo dell'Angelo

 


Si può pensare che una rappresentazione sacra, sempre uguale, appassioni sempre meno il suo pubblico da un anno all’altro. Il Palio di Siena è preceduto dal corteo storico che si ripete identico ad ogni ricorrenza della festa. Al rito immobile segue la corsa che ha di volta in volta un andamento diverso. Dopo l’eterno ritorno, la novità. Eppure, la rappresentazione sacra pur ripetuta in forma identica di anno in anno non determina assuefazione e rigetto. Ci sono almeno due ordini di spiegazioni per questo. Prima di tutto la monotonia del rito rassicura gli spettatori, ribadisce la loro appartenenza a un certo mondo, alla zona ma soprattutto al paese di origine, o alla dimora. In secondo luogo la rappresentazione stessa ha un contenuto che va oltre la fede religiosa e che si riassume nel trionfo del bene. La vita procede diversamente in molti casi, ma è consolante sapere che, da qualche parte, la giustizia prevale sull’abuso.
Nel Cilento il volo dell’Angelo si ritrova in tutta una serie di paesi diversi, Rutino, Prignano, Camella, Vatolla e Eredita.. Tanta popolarità ha ancora un’altra spiegazione possibile. Il volo equivale a una metafora del miracolo. Nel giorno della rappresentazione si festeggia un santo patrono e il volo riflette la virtù soprannaturale del protettore celeste.
A Eredita, il taumaturgo è San Giovanni Battista. La rappresentazione sacra riguarda un episodio che si sarebbe verificato al tempo delle incursioni saracene. Il condottiero nemico ha già assaltato le popolazioni della piana sottostante quando rivolge la sua attenzione al villaggio di Eredita sulla collina. Medita un assalto ma non riesce ad attuare rapidamente il suo proposito, perché sbaglia strada per colpa di un pastore al quale aveva chiesto indicazioni sul percorso più breve da seguire. Così gli abitanti di Eredita hanno modo di rifugiarsi tra la mura della chiesa. Molte ore dopo il condottiero, giunto infine al paese, riconosce il pastore nell’effigie del Battista. Allora desiste dal suo proposito e invita i fedeli a ringraziare il santo. In segno di riverenza fa poi dono al patrono della sua tracolla.
A ben vedere il racconto somiglia molto a quello di Cappuccetto rosso e ha una altrettanto efficace funzione catartica. Comporta l’apparizione di un mostro che è fonte di spavento. Per un breve tempo, la minaccia sembra prendere corpo, se non che alla fine le vittime innocenti escono indenni dalla prova. Gli spettatori possono tirare un sospiro di sollievo. Alla fine dello spettacolo un bambino sospeso per aria fa la parte di un angelo e recita antichi versi dedicati al Battista.
La più famosa e popolare di queste rappresentazioni sacre è quella che si svolge ogni anno a Rutino nella seconda domenica di maggio. Secondo una voce diffusa, trarrebbe la sua ispirazione dal Paradiso perduto di Milton. A Rutino il santo patrono è un angelo, anzi un arcangelo, san Michele, che ha come nemico Lucifero in persona. È impersonato sulla scena da un bambino. Si presenta vestito di azzurro con ricami d’oro e con una scritta sul petto: Qui ut Deus, “Chi è come Dio?”, significato del nome Michele. Indossa un elmo, è munito di scudo e spada e indossa una parrucca bionda. Notoriamente il giallo è il colore della luce solare, dell’oro, della santità. “Chi è come Dio?” è peraltro il grido dell’Angelo nella battaglia con Lucifero. La rappresentazione si svolge in due tempi, al mattino e al pomeriggio. All’inizio il bambino parte dalla loggia della casa canonica imbragato ad una carrucola che scorre su una corda a dieci metri da terra. Viene fatto avanzare lentamente fino a posizionarsi sopra il palco che rappresenta l'Inferno. Lucifero appare poco dopo, accompagnato da altri diavoli. Indossa una tuta rossa con tracce marginali di nero sul volto e sui bordi della stoffa. Neri sono anche i suoi guanti. L'Angelo mette Lucifero sotto accusa per la ribellione a Dio e gli annuncia che la disobbedienza gli sarebbe costata molto cara. Il diavolo si dichiara pronto alla battaglia e sfida l'Angelo, che accompagnato da scrosci di applausi raggiunge il lato opposto della piazza. Intanto la statua di San Michele, in processione riprende il suo percorso lungo le vie del paese. Al ritorno del corteo in piazza, l'Angelo si fa avanti di nuovo ed affronta  Lucifero. Dopo un simbolico duello, sconfigge il suo nemico spedendolo a terra. Umiliato e confuso Lucifero si dichiara sconfitto e scompare imprecando a testa in giù, tra il fumo e i botti. Sprofonda e ritorna all’inferno. L'Angelo nel riprendere tra gli applausi il volo di ritorno canta:

Inneggiate dal cielo eccelsi cori

O Serafini al tron del sommo Iddio

Cadde d’abisso nei profondi orrori

dei ribelli lo stuolo iniquo e rio.

Gloria al Signor del Ciel tra gli splendori.

Sia pace in terra all’uomo umile e pio.

A te del Creator campion fedele

onore eterno Arcangelo Michele.

Francesco Maria Piave avrebbe forse prodotto un testo migliore. L’inno è solenne e vuoto come un cattivo libretto d’opera. Serve tuttavia a celebrare la vittoria del bene sul male. Che è poi, in poche parole, il senso della rappresentazione rituale.

https://machiave.blogspot.com/2017/04/lopera-dei-turchi-prignano.html

venerdì 1 novembre 2024

Canti cilentani

 


Franco Antonicelli, nel suo racconto del confino, parla delle ottave cilentane. Esistono ormai diverse raccolte di canti popolari pubblicate da editori improbabili che sembrano inventati per l’occasione: Assessorato al Turismo della Regione Campania, Urania, A. Testaferrata, Poligraf art grafiche, Edizioni di storia e folklore del Cilento, Thyrus, Centro di promozione culturale per il Cilento.

Ecco i testi principali:

Guido Gugliucci, Canti e itinerari cilentani, 1954;

Giuseppe Stifano, Canti popolari cilentani, 1973;

Giovanni Rizzo, Raccolta di canti popolari cilentani, 1977;

Giuseppe Stifano, Canti sociali e politici del Cilento, 1978;

Giuseppe Mollo Antonio Orlando, Strambotti: canti e proverbi cilentani, 1990;

Enrico Renna, Carmina Cilenti, 1995;

Canti cilentani di Caterina Scarpa, con il patrocinio del Comune di Ogliastro Cilento, 2010.

Nessuno di questi libri è presente in una biblioteca dell’Italia settentrionale. Tre si trovano alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: Gugliucci, Strambotti di Mollo e Orlando e i Canti cilentani di Caterina Scarpa. C’è da sperare che vi sia un giorno un etnomusicologo disposto a riprendere questi materiali per fare il punto e pubblicare un testo più largamente accessibile. Nel 1978, Silvana Pepe e Giovanni Pico pubblicarono un volumetto dal titolo: Torchiara: canti e tradizioni (Tipografia Europa, Salerno). Contiene una cinquantina di pezzi che spaziano dal tema dell’amore variamente declinato alla devozione religiosa. Uno riecheggia Fenesta ca lucive, ma fa rimpiangere l’originale napoletano.  

Rispetto alla canzone napoletana, una differenza salta all’occhio. La canzone napoletana sembra appartenere a un mondo in cui le differenze sociali non contano. Era de maggio, O' sole mio, ‘E spingule francese, Comme facette mammeta, ‘O surdato nnammurato esaltano la meraviglia dell’esistenza femminile di fronte al desiderio del maschio. Lui corteggia, lei si lascia corteggiare.

Nei canti cilentani, invece, prevale la semplice esibizione del desiderio, con qualche accenno ogni tanto ai problemi posti dalla differenza sociale o lavorativa.

Tu saresti ricca, ma io non è per questo che ti amo.

Bella nun t’amo pe denari
manco si n’avissi nu trasoro
t’amo pe stu genio ca me rai

Trasoro vale tesoro. Genio è “desiderio”. Nun tengo genio sta per non ho voglia. “Non ti amo per soldi, nemmeno se avessi un tesoro” [e non è detto che tu ce l’abbia, questo tesoro]. Ti amo per questa voglia che mi ispiri”.

Ora è la ragazza a parlare: non voglio sposare un contadino ma un pastore, per sfuggire al lavoro nei campi e avere la garanzia del cibo. Questo dicono con un’altra eleganza le metafore del testo.

Mamma nu lu voglio lu ualano
vogliu nu pasturiello ca me cummene
lu ualanu me porta a zappare
lu pasturiello a la seggia me tene
vene nu iuorno ca nun tene pane
na ricuttella fresca me mantene.

Ualano sta per “galano”, gualano [voce dei dial. merid., dal provenz. galan «giovane, garzone»]: nell’Italia meridionale, lavoratore agricolo a contratto annuo, addetto alla custodia di terre o alla cura e al governo di animali (equini e bovini) che impiega nei lavori di trasporto o di aratura (Treccani). Cummene = conviene. Seggia = sedia. Iuorno, giorno.

Non sposare uno di Cicerale, faresti una brutta fine.

Bella figliola te voglio avvertire
a Cicerale nun te maritare
Lu primo iuorno vai cu li scarpuni
e lu sicondo li puorci a guardare
te rano a mangià pane e vezzuni
chistu è lu pane si lu buò mangià
n’anti voglio esse cuonzo re allina
e nu a Cicerale me maritare
.

Negli ultimi versi cambia il soggetto. “Questo è il pane se lo vuoi mangiare” simula una ingiunzione rivolta alla donna dal marito o dalla famiglia di lui. Poi è la donna a prendere la parola: “piuttosto voglio essere una scodella di gallina, e non sposarmi a Cicerale”. Te rano a mangià pane e vezzuni, “ti danno da mangiare pane e fave”.
Lui appartiene a “sangue gentile” e lei è una ragazza di “bassa mano”.

Uocchi neurielli chiù de n’auliva,
ccu bui nun me pozzo apparentare
Mamma toa m’a mannato a dice
ca lu figlio suo nun m vole rare.
Vui pruveniti ra sango gentile
e io puverella da la bassa mano.
N' segretezza t lu mannu a dice
mamma nu bole e nui n'amamo.

Occhi morettini più di un’oliva, con voi non mi posso imparentare. Tua madre mi ha mandato a dire che non mi vuole dare [in sposo] suo figlio”. Ciò nonostante, la ragazza alla fine conclude: “Mamma non vuole e noi ci amiamo”.

Apriamo una parentesi. Tra i canti che Franco Antonicelli trascrive per Anita Rho, mentre si trova al confino ad Agropoli, uno ha ugualmente per protagonista una donna che si tira indietro, vuole essere presa per morta, in quanto è stata considerata dalla madre del suo innamorato socialmente indegna di aspirare a un matrimonio con il figlio. Il testo si trova in una lettera del 22 agosto 1935:

Scòrdate de me, dolce figliolo,
scordatìnne come fossi morta
La vostra mamma m'ha mandato a dire
ca nun era j' la para vostra.

J' non son nata per la signoria
nemmeno per venire in casa vosta;
e r' na cosa ringrazio Dio,
so piccerella e nun me manca sorta. 

 

Scordati di me, dolce figliolo,
scordatene come se fossi morta
La vostra mamma mi ha mandato a dire
che non sarei la vostra pari.

Non sono nata io per la signoria
nemmeno per venire a casa vostra:
sono piccolina e non mi manca la (buona) fortuna. 

Torniamo alla raccolta torchiarese. C’è perfino una serenata in cui la fanciulla amata viene vista “morta di freddo e insonnolita” e allora viene invitata a chiudere la finestra. La premura suggerisce tenerezza e aggiunge verità al gesto galante.

Tutto stanotte voglio ì cantanno
mo ca lu lietto mio nun pozzo rorme
a la funestra me stai aspettanno
morta re friddo e sceccata r suonno
T preo bella mia trasitenne
nu boglio ca p me pierdi lu suonno
Io t’aggio amato iuorni, misi e anni
e mo t’avessa perde p nu iuorno.

Tutta questa notte voglio andare cantando, ora che nel mio letto non posso dormire. Mi stai tutta infreddolita e morta di sonno aspettando alla finestra. Ti prego, bella mia, rientra, non voglio che tu per me perda il sonno. Ti ho amata per giorni, mesi e anni non ti voglio perdere ora per un  giorno (solo). 

Nel campo della morale sessuale, è interessante la soluzione offerta dal sogno al problema del contatto fisico: l’innamorato riesce a contemplare il corpo nudo della ragazza, ma resta prudente nelle mosse successive.

Sera passai e tu bella rurmivi
tutto lu tuovo ciardino caminai
E te truvai a lietto ca rurmivi
ieri a la nura e te cummegliai
Truvai roie labbra gentili
e pe crianza mia nun le vasai
Ngera lu fuoco
e nun me cagliendai.

Per una volta l’idillio prende forma, emerge una dolce sollecitudine che si esprime in un piccolo gesto e in un atto di muta contemplazione. La chiusura lascia trasparire una certa delusione: c’era il fuoco e non mi scaldai. Rurmivi, dormivi. A la nura: nuda. Cummegliai, coprii. Roie, due. Crianza, creanza, educazione, rispetto delle buone maniere. Vasai, baciai. Ngera, c'era. 

Si capisce che quella cilentana è una società dominata dall’assillo della sussistenza e dall’attenzione per lo svolgimento quotidiano della vita. Francesco Volpe, nel suo libro sul Cilento nel secolo 17 (Ferraro, Napoli 1981), fa notare la grande importanza che viene attribuita nella mentalità locale al possesso della roba, della proprietà e dei beni materiali.



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lunedì 17 aprile 2017

L'opera dei Turchi a Prignano




Roba da Medioevo, si direbbe. E non è una tradizione riscoperta da qualche anno. No, no, lo spettacolo pubblico che si inscena a Prignano Cilento (Salerno) si ripete da sempre a memoria d'uomo ogni anno il lunedì dopo Pasqua. Il luogo esatto è la piazza davanti alla Chiesa di San Nicola, tra il giardino di palazzo Cardone e i campi. Il travestimento degli attori è approssimativo, rinvia a un mondo che si vuole lontano, i turchi a tavola mangiano spaghetti in modo selvaggio. Di fronte al miracolo, nel primo dei due episodi messi in scena, restano con gli spaghetti pendenti dalla bocca.
Perché lo spettacolo sopravvive? In parte per l'attaccamento alla tradizione, in parte per la rispondenza a un bisogno elementare di giustizia. Il malfattore è in qualche misura una sorta di alieno. Le repliche sono codificate, tornano uguali nelle parole e perfino nel tono. Gli attori improvvisati recitano a voce alta per farsi sentire dalla piccola folla raccolta sulla piazza. La lingua della recita è l'italiano, un italiano che non sempre arriva a nascondere il fondo dialettale sottostante ("Diodato! Vieni mangia"): la lingua della legge e del destino inesorabile.

Nel primo atto viene ricordato il miracoloso salvataggio di Diodato, un adolescente cristiano rapito dai Saraceni. La scena si apre con una tavola imbandita, dove un gruppo di Saraceni (chiamati genericamente “i Turchi”) si accinge a consumare un lauto pasto. A servirli è appunto lo sfortunato Diodato. In più occasioni il “Capoturco” lo provoca, invitandolo ad abiurare la sua religione e ad unirsi all’allegra compagnia. Diodato, però, rifiuta sdegnosamente l’invito, perché intende celebrare con il digiuno la festa di San Nicola di Bari, a cui è molto devoto. All’ennesimo rifiuto, il temibile Saraceno apostrofa duramente il giovane servo : “Ah, sciocco, sciocco! Se San Nicola fosse realmente un Santo miracoloso, verrebbe qui a liberarti dalla nostra schiavitù!”. A questo punto si compie il primo miracolo. Intenerito dalle esortazioni del fanciullo, il Santo invia un angelo a salvarlo, perché lo porti via, volando, lontano dalla schiavitù dei Saraceni, sbigottiti ed increduli per quanto avviene di fronte ai loro occhi. Questo è uno dei momenti centrali della rappresentazione. Un bambino vestito di bianco, appeso con un robusto gancio ad una carrucola che scorre su una fune, vola cantando dall'albero sotto il  campanile della Chiesa madre fino al palco dove si trova la tavolata dei Turchi. Diodato si aggrappa all’angelo e viene portato via. È questo il “volo dell’angelo”, che riempie di angoscia e stupore gli astanti, fin quando i due non approdano di nuovo all'albero, con le campane che suonano a festa.
La seconda scena racconta invece un episodio della vita del Santo, quando era ancora vescovo di Myra. Nicola desidera rifocillarsi dopo un lungo viaggio e si ferma in un’osteria. L’oste è un uomo malvagio e senza scrupoli, che non esita a dare in pasto ai suoi avventori tenera carne di bambino, spacciata per “tonnina”. Nicola, però, consapevole del turpe inganno, ordina all’oste di mostrargli il tino dove viene conservata la carne. Non appena la botte viene scoperchiata, quattro bambini escono fuori, vivi e vegeti, ringraziando il vescovo Nicola, che li aveva resuscitati con la forza della preghiera. Scoperto il terribile segreto, l’oste non può evitare la punizione capitale. Viene così condotto da una guardia nel fortilizio della città, per essere bruciato vivo. La scena dell’esecuzione viene riprodotta con una esplosione di petardi, alla quale segue un lungo applauso liberatorio degli spettatori. L’uccisione dell’oste, al tempo stesso barbara e simulata, ristabilisce l'equilibrio a danno di un personaggio disumano. Di fatto, i muri della prigione patibolo sono costituiti da canne che disfatte dall'esplosivo vanno subito in pezzi. L'oste che è persona nota al pubblico fugge dalla prigione patibolo tra gli scoppi dei petardi. L'applauso che segue festeggia tutto, la punizione e la libertà.

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