Alessandro Beltrami
La morte della compositrice. Addio a Sopfija Gubajdulina, la musica come preghiera, Avvenire, 14 marzo 2025
Quando Sofija Gubajdulina venne a Venezia per ricevere il Leone d’oro alla carriera, nel 2013, aveva 81 anni, la figura minuta e leggermente china, ma negli occhi una luce ardente. Parlava con parole di fuoco, con la stessa intensità con cui la sua musica sembrava respirare insieme al cosmo. «La musica senza religiosità non può sussistere», disse allora ad “Avvenire” in un’intervista che riassumeva la sua visione. «Le basi della musica sono date da una sostanza che vibra, da una vibrazione. È il risultato di una espansione e di una contrazione, le stesse per cui esiste il cosmo». E ancora: «La legge cosmica, il nascere della musica e la religione grazie alla quale questi obiettivi vengono raggiunti devono stare insieme». Gubajdulina se ne è andata all’età di 93 anni, lasciando un’eredità che è impossibile racchiudere solo nella sua produzione musicale. Perché la sua musica è stata un atto di resistenza, una forma di preghiera e una dichiarazione di libertà, in un tempo e in un luogo in cui il potere voleva silenziare tutto ciò che non fosse allineato. Nata il 24 ottobre 1931 a Cistopol’, nel Tatarstan, visse la sua infanzia a Kazan’, città multiculturale in cui convivevano russi, tartari, ucraini ed ebrei. Suo padre era tartaro, sua madre russa, e questa mescolanza di culture la segnò profondamente.
La musica arrivò presto, come una rivelazione. «Avevo cinque anni quando in casa arrivò un pianoforte a coda», ricordava sempre in quell’intervista del 2013. «Creava una sonorità che sembrava uscire dalla cornice del solito. Quella sonorità sacrale si unì alla sensazione interna di sacralità e da quel momento le due cose si sono fuse insieme». Il richiamo al sacro non veniva dalla sua famiglia, cresciuta nell’ateismo imposto dal regime. La sua conversione al cristianesimo arrivò solo a trent’anni, ma la sua musica era già percorsa da un’urgenza spirituale. Fondamentale fu l’incontro con la pianista Marija Judina, ebrea convertita al cristianesimo e grande interprete di Bach e Šostakovic, che divenne per lei una guida.
Dopo gli studi al conservatorio di Kazan’ e poi a Mosca con Nikolaj Pejko, assistente di Šostakovic, scelse la strada più difficile. Il grande compositore le disse che doveva «seguire la sua strada sbagliata», ovvero rimanere fedele alla propria ricerca interiore, anche se questo significava il rischio dell’emarginazione. Negli anni ’70, in Unione Sovietica, il suo nome era sulla lista nera. «Le mie partiture circolavano come uno samizdat», ci raccontava a Venezia. «All’estero venivano suonate senza che nemmeno io lo sapessi. Gidon Kremer ottenne la partitura di Offertorium in modo clandestino: lui non poteva possederla».
Il suo linguaggio musicale era innovativo e profondamente simbolico. L’opera per violino e orchestra Offertorium (1980), basata su un tema bachiano, rappresentava un atto di offerta musicale e spirituale. In croce (1979), per bajan e violoncello, evocava la crocifissione attraverso l’intreccio delle linee melodiche. Sette parole (1982) rifletteva sulle ultime parole di Cristo. E poi le grandi opere vocali degli anni Duemila, come la Johannes-Passion e il Johannes-Ostern, che rileggevano il Vangelo in una chiave musicale unica, unendo tradizione ortodossa e occidentale. Ma il suono, per Gubajdulina, non era solo vibrazione. Il silenzio aveva per lei un ruolo essenziale. «È il mezzo, ciò che può dare alla luce la vibrazione», spiegava. «Se si riesce ad arrivare a una concentrazione massima, all’interno del silenzio e dietro di esso si apre un mondo di terribili scontri». La sua musica sapeva scavare in quella dimensione nascosta, dove il silenzio diventa lo spazio dell’attesa, della rivelazione e, insieme, del conflitto.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica si trasferì in Germania, dove continuò a scrivere fino agli ultimi anni, ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo. Ma non dimenticò mai le sue radici. «Torno spesso a Kazan’», ci disse. «Dopo il ’90 l’economia è ripartita, i tartari hanno maggiore influenza, c’è una caratterizzazione nazionale. E devo dire che ne sono contenta. Ma non posso dimenticare cosa diceva Šostakovic, cioè che “bisogna innanzitutto essere fedeli a se stessi”». Essere fedeli a se stessi. È questa la lezione più grande che Sofija Gubajdulina ci lascia. In un’epoca di conformismo, la sua musica ha testimoniato una libertà interiore che nessuna censura ha mai potuto soffocare. E che continua a risuonare.
Nessun commento:
Posta un commento