Federico Fubini
Una potenza enorme (e vulnerabile)
Corriere della Sera, 11 marzo 2025
Un’immagine rimane, mentre l’Occidente cambia sotto i colpi di Donald Trump: i presidenti americani ancora in vita ai funerali di Jimmy Carter il 9 gennaio scorso. Quegli uomini hanno presieduto su un quarto di secolo agrodolce per l’America. Il suo prodotto interno lordo è tornato ad allargarsi come quota dell’economia mondiale, oggi sopra al 26%. Ma non tutto è andato liscio.
Il valore azionario creato nello S&P500 di Wall Street in un quarto di secolo supera i 40 mila miliardi di dollari e sette aziende innovative ne presidiano da sole un terzo. Eppure si può guardare all’America anche attraverso le sue vulnerabilità, perché nell’ultimo quarto di secolo la superpotenza ha vissuto una fioritura ambigua. È di gran lunga la più innovativa; ma dal 1999 il debito pubblico sale 54% al 122% del Pil e viaggia in parallelo agli arretramenti del Paese nel mondo. L’ultima operazione riuscita fu proprio nel 1999, in Kosovo. L’amministrazione di Bill Clinton, colpendo dal cielo, fermò i massacri serbi sugli albanesi tamponando una catastrofe.
Il deficit corre
Fu una delle ultime volte. Due anni dopo l’11 settembre segna una vittoria di Al Qaeda, il fallimento dell’intelligence e innesca la più grave sbandata degli Stati Uniti dal Vietnam. La guerra in Iraq, lanciata sulla base di prove false, costa la vita a 4.400 americani, 200 mila iracheni e 2.000 miliardi di dollari al bilancio federale, senza stabilizzare il Paese. L’attacco all’Afghanistan aveva ragioni più solide, perché i talebani avevano coperto Al Qaeda; ma dopo vent’anni, 2.400 statunitensi e 47 mila afgani uccisi, oltre a 2.300 miliardi spesi dall’America, prima Donald Trump e poi Joe Biden negoziano una ritirata che riconsegna il Paese ai talebani stessi. È l’estate del 2021. Quella fuga convince Vladimir Putin che si poteva soggiogare l’ucraina, perché l’America non si sarebbe opposta a lungo.
Solo Iraq e Afghanistan sarebbero costati venti volte il deficit degli Stati Uniti di ciascuno dei primi anni del secolo. Poi la Grande recessione, la detassazione dei ricchi e delle imprese (sotto Trump), il Covid, e piani industriali (sotto Biden) avrebbero affossato il bilancio ancora di più.
E le umiliazioni in politica estera si susseguono. Vladimir Putin, accolto nel G7 (divenuto G8), invade la Georgia nel 2008. Dal 2011 falliscono poi le strategie di Barack Obama sulle «primavere arabe». Neppure una di esse produrrà una democrazia stabile, mentre Obama sbaglia tragicamente intervenendo in Libia e rifiutandosi di farlo — malgrado le promesse — dopo l’uso di armi chimiche in Siria. In entrambi i casi, spalanca le porte ai russi. Ma le ingenuità di Obama riguardano anche Mosca, cui propone un «reset» al quale Putin risponde con l’aggressione alla Crimea e al Donbass del 2014. Per la prima volta dal 1945 i confini in Europa sono spostati con la forza, ma Occidente reagisce con sanzioni senza sostanza.
Paradossalmente, il maggiore successo americano all’estero dal 1999 è proprio il sostegno a Kiev nell’ultimo triennio. Non solo Biden tiene in piedi un’ucraina democratica e indipendente; fa anche sì che la scommessa di Putin vada male. Oggi il Cremlino occupa meno territorio in Ucraina di quanto ne controllasse nell’aprile di tre anni fa (circa il 19% oggi, contro il 22% allora). Intanto la Russia ha perso oltre 200 mila uomini, con 600 mila feriti, ha subito la fuga all’estero di 700 mila giovani, bruciato 200 miliardi di dollari, e ha un’economia che funziona solo per produrre mezzi di guerra ma può reggere così forse solo un altro anno. È il bilancio di un disastro di Putin. Solo Trump poteva offrirgli una trionfale via d’uscita proprio ora.
Il ruolo dei dazi
Proprio qui è il paradosso americano. La superpotenza che colleziona trionfi tecnologici, ma umiliazioni nel mondo, sarebbe tentata di ritrarsi. Ma non può. Il grafico in pagina mostra il fabbisogno di nuovi prestiti supplementari del Tesoro americano, anno per anno dal 1999 al 2024, in proporzione alla crescita nominale mondiale. Per esempio, l’economia mondiale nel 1999 ha generato poco più di mille miliardi di crescita (inflazione inclusa) e il Tesoro americano ha avuto bisogno di 121 miliardi di prestiti in più: appena l’11% della crescita mondiale — America inclusa — bastava a finanziare il governo degli Stati Uniti a rendimenti bassi e sostenibili. Ma negli ultimi anni questa proporzione è cresciuta sopra ben al 50%. L’America ha bisogno di aspirare sempre più soldi dal resto del mondo per tamponare i propri squilibri. Il problema di Trump, cui l’amministrazione guarda con ansia, è di cooptare con l’intimidazione dei dazi gli altri Paesi per finanziare a costi accettabili il Tesoro Usa. La superpotenza è vulnerabile. E lo sa.
Perciò l’America prima o poi si sarebbe ritirata comunque dai suoi impegni in Europa, anche se Trump lo fa in modo traumatico. E perciò l’Europa comunque non ha altra strada se non quella di costruire la propria sovranità politica e di difesa. Parte dell’opposizione in Italia si illude raccontandosi che la spesa militare in fondo non serve. E Giorgia Meloni si illude di continuare con i diritti di veto in politica estera comune e restare sospesa fra Washington e Bruxelles. Ma ora vanno ricostruite le fondamenta dell’Europa e per l’Italia è il tempo di scegliere: se non ci saremo, o ci saremo ambiguamente, non saremo più con la stessa credibilità fra i Paesi fondatori.
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