Lorenzo Kamel, La Nakba 2.0 e l'oblio dei palestinesi, il manifesto, 26 marzo 2025
Secondo un articolo del Financial Times che cita funzionari israeliani, le autorità di Tel Aviv hanno definito un piano per rioccupare completamente Gaza e per concretizzare «la partenza volontaria verso paesi terzi». Ciò contraddice quanto dichiarato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in data 10 gennaio 2014 («Israele non ha alcuna intenzione di occupare permanentemente Gaza o di sfollare la sua popolazione civile»), ma è in sintonia con alcuni obiettivi più volte emersi in Israele negli ultimi decenni.
Ed è in sintonia con i primi passi politici intrapresi dalla seconda amministrazione Trump.
Più nello specifico, lo scorso 25 gennaio, su un volo dell’Air Force One da Las Vegas a Miami, il presidente statunitense ha reso pubblico un piano per «ripulire» Gaza. «Stiamo parlando di un milione e mezzo di persone, e noi ripuliamo tutto», ha chiarito Trump ai giornalisti, aggiungendo che la mossa potrebbe essere «temporanea» oppure «a lungo termine».
Al re giordano Abdallah e al presidente egiziano al-Sisi – due autocrati che dipendono dai finanziamenti di Washington per la propria sopravvivenza – è stato chiesto, con scarso successo, di farsi carico di larga parte della popolazione palestinese, sebbene ciò rappresenti una chiara violazione del diritto internazionale, che proibisce i «trasferimenti forzati, in massa o individuali, come pure le deportazioni di persone protette, fuori del territorio occupato».
Va chiarito che l’obiettivo di completare l’espulsione dei palestinesi facendo affidamento sui «paesi arabi» era già stata proposto dall’ex segretario di stato Antony Blinken alla fine del 2023, quando si rivolse ad al-Sisi, promettendo ulteriori finanziamenti in cambio dell’«assorbimento» dei palestinesi. Esso è in ultima analisi radicato nell’idea che i palestinesi siano semplicemente «arabi» e che dunque possano essere facilmente ricollocati in altri «paesi arabi»: una tesi smentita dalla storia e da un ampio numero di fonti primarie.
Senza scomodare fonti vecchie di un millennio e restando alle più recenti, negli anni Settanta dell’Ottocento i termini «Palestinians» e «Palästinenser» furono utilizzati, in esplicito riferimento agli arabi di Palestina, anche da numerosi osservatori occidentali, compreso il console britannico a Gerusalemme James Finn (1806-72) e il missionario protestante tedesco Ludwig Schneller (1858-1953). Questi pochi esempi, tra molti altri, sono lì a ricordarci che, sebbene tutte le identità rappresentino il prodotto di «costruzioni», esistono contesti in cui le fonti disponibili confermano peculiari retroterra troppo spesso omessi o misconosciuti. Chiamare tutti, da Gibilterra allo Stretto di Hormuz, «arabi» equivale a riferirsi a nordamericani, sudafricani, australiani, neozelandesi, irlandesi e britannici – quale che sia la loro origine – con il termine di «inglesi», o «angli».
Un ampio numero di intellettuali palestinesi ha più volte sottolineato l’esigenza di non normalizzare i diffusi tentativi volti a cancellare la loro identità e storia, indipendentemente dal fatto che un palestinese abbia o meno una cittadinanza israeliana. Ciò appare ancora più necessario alla luce dell’enorme prezzo che i palestinesi hanno pagato affinché le aspirazioni della controparte israeliana potessero realizzarsi.
Nel corso della guerra del 1947-8 furono depopolati 418 villaggi palestinesi. Molti vennero rasi al suolo, altri furono rinominati e ripopolati. Ad esempio, il villaggio palestinese di Bayt Dajan (Dagan era un’antica divinità babilonese/cananea, menzionata tre volte nella Bibbia come divinità principale dei filistei) divenne la città israeliana di Beit Dagan, il kibbutz Sasa venne costruito sulle ceneri del villaggio palestinese di Sa’sa’, Amka’ sulla terra dell’insediamento palestinese di Amqa, Elanit (albero in ebraico) sulla terra di al-Shajara (albero in arabo).
Fatto salvo un numero contenuto di municipalità create per concentrare la popolazione beduina presente nel Negev, nessun nuovo centro urbano o villaggio palestinese è stato fondato dal 1948 ad oggi all’interno dei confini dello Stato d’Israele. Per contro, all’interno di quegli stessi confini sono stati inaugurati oltre 600 nuovi centri a maggioranza ebraica.
Poco meno della metà dei villaggi palestinesi (182 su 418) depopolati al tempo sono oggi inclusi all’interno di siti turistici e ricreativi, come foreste, parchi, e riserve naturali. La popolazione palestinese rimasta dopo il 1948 nei confini dello Stato d’Israele include anche circa 25mila rifugiati interni, ovvero palestinesi che furono sradicati dai loro villaggi nel 1948 e che trovarono rifugio all’interno dei confini d’Israele.
Chiamarli palestinesi – e non semplicemente «arabi» – è il minimo che si possa fare per riconoscere la loro storia e le cicatrici che la sottendono. Molti tra quanti chiamano i palestinesi semplicemente «arabi» misconoscono la loro storia e cultura. Sovente ciò avviene a causa di una scarsa conoscenza, ma, non di rado, anche per via di forme più o meno marcate di razzismo e anti-palestininismo. Antisemitismo e anti-palestininismo rappresentano due facce della stessa medaglia: entrambi sono radicati in una profonda ignoranza e in un viscerale odio verso «l’altro».
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