giovedì 31 ottobre 2024

Pretese di grandezza nel mondo



Andrea Graziosi
, I Maga di tutto il mondo, Il Foglio, 31 ottobre 2024

... Il caso di Maga [Make America Great Again = pretesa di grandezza] più tragico e terribile, prima di tutto per gli altri, ma quasi sicuramente anche per la stessa Russia, è quello si sta sviluppando da circa vent’anni in una Mosca educata già ai tempi sovietici al culto della conquista di Berlino, Varsavia e Praga. Pur essendo dovuto a cause essenzialmente interne (ricordiamo che agli inizi degli anni Ottanta del Novecento l’attesa di vita dei maschi sovietici era di circa 15 anni inferiore a quella occidentale, e gli aborti superavano di diverse volte le nascite), il tracollo dell’Urss, infinitamente più drammatico del lento declino europeo e di quello relativo statunitense, ha nutrito il violento, velenoso e irrealistico desiderio di fare la Russia di nuovo grande di Vladimir Putin, anticipato in sedicesimo, e con differenze importanti, da quello del serbo Miloševic. Al di là delle strade aggressive e omicide da esso imboccate e delle sofferenze umane che ha già provocato (ricordiamo che la sola aggressione all’Ucraina ha fatto sinora circa un milione tra morti e feriti), il tentativo di rifare un “mondo russo” stride con il peso tecnologico e demografico di una Russia che ha un decimo della popolazione indiana o cinese e produce semilavorati e materie prime. Quel tentativo ha quindi tratti anche grotteschi, come lo furono quelli di altri nazionalismi dalle ambizioni smisurate (tra cui il nostro), ma non per questo meno tragici per gli altri, ceceni, georgiani e ucraini prima di tutti, ma anche noi europei e gli stessi russi. Diversi fattori rendono tuttavia difficile che il prezzo che Mosca sarà prima o poi chiamata a pagare venga presto esatto. Vi si oppongono l’arsenale nucleare russo, rafforzato nel 1993 dalla decisione di far consegnare a Mosca gli arsenali atomici ucraino e kazaco presa in una Washington che ragionava ancora, comprensibilmente ma ingenuamente, in termini bipolari, un arsenale la cui presenza basta a “calmierare” il sostegno militare statunitense e europeo all’Ucraina; l’appoggio cinese a Putin, a sua volta alimentato dalla attraente e realistica prospettiva di sottrarre al vecchio Occidente le straordinarie risorse naturali russe; e infine i proventi di queste stesse straordinarie risorse, soprattutto ma non solo energetiche, che rendono possibile alla Russia affrontare scosse economiche e sociali che scuoterebbero altri paesi.

Ma sono oggi all’opera nel mondo anche altri Maga, prima di tutto quello cinese e quello indiano che guardano a passati più lontani di quello della “grande” Europa padrona del pianeta, ma altrettanto gloriosi del suo. Malgrado le notevoli differenze che li separano, si tratta infatti degli altri due principali “fuochi” della civiltà umana (quello del Medio oriente è un caso più complesso e comunque legato al Mediterraneo e all’Europa). E se la Cina di Xi Jinping pensa di poter tornare a occupare il centro del mondo, una posizione che ritiene ingiustamente strappatagli dal mondo bianco nel XIX secolo, l’India prima che a una rivalsa su un “Occidente” che sa avergli dato molto oltre che imposto un pesante fardello, pensa prima di tutto a quella sui musulmani che la sottomisero secoli prima dell’arrivo degli europei.

L’ascesa di questi due nuovi giganti, che contano circa un miliardo e mezzo di abitanti ciascuno (anche se l’ex Raj britannico potrebbe essere coinvolto da nuove “partizioni” dopo quelle che hanno portano al distacco della Birmania, del Pakistan e infine del Bangladesh), ha fatto emergere con nettezza la forte, ancorché banale verità di quella che si potrebbe chiamare la “legge di Charles Henry Pearson”. Uno dei più acuti analisti britannici di fine XIX secolo, questi vide già allora con chiarezza che in un mondo dove istruzione, conoscenze e competenze si diffondevano in modo grosso modo uniforme, non c’era in futuro spazio per il dominio di piccoli paesi, come quelli europei, che dovevano la loro posizione al monopolio sulla rivoluzione scientifico-tecnologica.

E’ quindi lecito chiedersi cosa vuol dire oggi questo per la nostra Europa continentale “napoleonica”– che a questo è ridotta, speriamo non per sempre, l’Unione europea dopo aver perso Londra e Mosca. Per essa e i paesi che la compongono è difficile sognare e perseguire un ritorno alla grandezza perché il continente nel suo insieme e i suoi stati presi singolarmente vengono tutti, Francia compresa, da un secolo di sconfitte, certo mitigate dai “miracoli” del secondo dopoguerra. Tutte o quasi le loro capitali sono state occupate da uno o due eserciti invasori e la decolonizzazione ha poi fatto giustizia di un plurisecolare dominio sul mondo. Il fenomeno ha quindi preso finora fattezze peculiari: in Italia, per esempio, quelle innovatrici del Berlusconi che prometteva un nuovo, grande miracolo italiano. Ma, anche a voler escludere un Maga tedesco, che è difficile augurarsi, un grande passato chiuso da grandi sconfitte può anche nutrire stagioni di chiusura e depressione altrettanto autolesioniste, ancorché meno aggressive, dei tentativi di tornare potenti.

Vedere e accettare la realtà, cioè vivere al meglio per come si è, aprendosi al mondo e al futuro è l’unica risposta sensata, e proporre di diventare saggiamente “vecchi” non è la soluzione giusta, perché le popolazioni (un termine che preferisco a popoli) europee, e non solo loro, non sono super-individui con una sola età ma aggregati formati da milioni di persone diverse, tra cui oggi molti vecchi ma anche tanti giovani che hanno il diritto di essere e sentirsi tali. Piuttosto, nel mondo intravisto a fine XIX secolo da Pearson e che oggi è sotto i nostri occhi, un’Unione europea capace di farsi più stato è l’unica ragionevole priorità, che tutti sono in grado di capire, fosse solo per evidenti ragioni di scala e per i pericoli che si corrono a navigare su piccoli vascelli un mare popolato da giganti. La sua costruzione, anche ma non solo in campo militare, è quindi la vera, seria sfida per una rinascita lontana dai velenosi desideri di tornare grandi. Non è detto ci si riesca, perché farlo è molto più difficile che capirlo, e naturalmente, per tornare da dove abbiamo cominciato, un’eventuale vittoria di Trump renderebbe la cosa certo più urgente, ma ancora più difficile. Ma sarebbe fondamentale almeno provarci.



mercoledì 30 ottobre 2024

Pasolini com'era


 


Aldo Cazzullo  Roberta Scorranese, Io, Moravia e le voci che scrivesse per me
Corriere della Sera, 30 ottobre 2024
Intervista a Dacia Maraini 


«Per anni, in tanti hanno sostenuto che l’autrice dei miei libri non fossi io». Dacia Maraini si racconta. «Pasolini si ritraeva se una donna lo toccava. Vanoni una grande amica».


Lei scrive il suo romanzo d’esordio, «La vacanza», dopo la separazione da Pozzi e nel dolore per il figlio perduto.

«E con i pregiudizi che all’epoca accompagnavano una donna aspirante scrittrice. Finii La vacanza e cominciai a proporlo agli editori. I commenti erano sempre del tipo “bravina, ma perché non se ne sta a casa invece di scrivere?”. Solo l’editore Lerici rispose, ma pose una condizione: che la prefazione fosse firmata da uno scrittore famoso».

E il più famoso di tutti, Alberto Moravia, accettò.

«Stendhal diceva che ci si innamora delle persone che fanno bene il mestiere che ci appassiona. Fu questa la prima impressione che ebbi di Alberto. Serio, attento, generoso. Non ha aiutato soltanto me, ma molti altri giovani. Purtroppo per decenni in tanti hanno sostenuto che i libri me li scriveva lui».

Lei era bellissima, e questo forse con Moravia la aiutò.

«Non andò così, il primo approccio fu al contrario puramente letterario. Insomma, non ci provò».

Lei aveva poco più di vent’anni. Quando vinse il Premio Formentor, il Corriere scrisse che la somma del riconoscimento assegnato «alla bella esordiente a qualcuno sono parsi un riconoscimento eccessivo».

«Ma non erano solo gli uomini ad attaccarmi. Maria Bellonci, madre del Premio Strega, commentò: “Questa ragazza ne deve mangiare di minestre prima di diventare una scrittrice”. Ma io sentivo di vivere dentro una grande famiglia, fatta di scrittori, registi, poeti. Ci vedevamo a Roma da Rosati. Ci trovavi Garboli, Citati, Bassani. Si andava a cena con Fellini, lui mi chiamava Dacina. Tutti pensavamo che fosse solo lui a tradire Masina, ma poi più tardi abbiamo scoperto che anche lei ha avuto vari amori».

In effetti Valentina Cortese ha raccontato che suo marito la tradiva con Giulietta.

«Giulietta e Federico erano alla pari». 
Com'era la vita con Moravia?

«Aveva una vitalità inesauribile. Una volta andammo in Africa con Pasolini. Avevamo viaggiato tutto il giorno sulla jeep, arrivammo stanchissimi e impolverati in un villaggio. Alberto non volle sentire ragioni e ci trascinò a ballare».

Con Pasolini siete stati in Africa altre volte.

«Arrivammo in un luogo remoto, eravamo io, Alberto, Pier Paolo, Franco Citti, Ninetto Davoli. Si sparse la voce che in quel villaggio viveva una tribù di cannibali che si nutriva del cervello per appropriarsi dell’intelligenza. Eravamo tutti spaventati. A un certo punto Citti disse a Davoli: “A Nine’, prima se magneranno Moravia, Pasolini, Dacia. Arriveranno a noi che so’ sazi...”. Ridemmo molto».

Moravia e Pasolini.

«Alberto era tutta ragione, Pierpaolo tutta sensualità. Andammo in India. Al ritorno uno scrisse Un’idea dell’India, l’altro L’odore dell’india».

Pasolini.

«Affettuosissimo. Ma senza contatto fisico, perché lui si ritraeva davanti al tocco di una donna. Una volta, in osteria al ghetto, cadde a terra. Ulcera. Perdeva sangue. Lo presi tra le braccia e non dimenticherò mai il suo sguardo: era come se stesse guardando sua madre. Non è vero che non si sia mai innamorato delle donne. Ha amato Maria Callas, ma era un amore senza fuoco, di testa. Lei ne soffrì, avrebbe voluto di più. Però lui nel corpo femminile ritrovava sua madre».
Cercava i ragazzi.

«Ma per sedurli, non per usare violenza. Eravamo in Africa, io lui e Alberto. Pier Paolo uscì, cercava amore. Tornò che era tardi, sconsolato. Ci disse che un giovane lo aveva rifiutato quasi con terrore, facendosi il segno della croce, come per allontanare un demonio. Ne era rimasto colpito, non capiva perché altri vedessero violenza nella sua ricerca dell’altro. Lui, che era profondamente cristiano e mai avrebbe voluto fare del male a qualcuno».

Lei collaborò alla sceneggiatura de «Il fiore delle mille e una notte», il penultimo film di Pasolini.

«Sul set avevamo bisogno di un leone. L’animale arrivò con il domatore, ci assicurarono che era innocuo. Ma a un certo punto piantò le zampe sulle spalle di Ninetto Davoli, lo ferì in modo abbastanza serio. Ci prendemmo un grande spavento. Ninetto urlava. E il domatore: “Tranquilli, vuole solo giocare!”».

Dov’era quando le dissero che Pasolini era morto?

«A Rimini, a un incontro femminista. Non volevo crederci, aveva appena 53 anni, era sano, pieno di progetti. Non toccava alcol, beveva solo latte, anche a tavola: suo padre era diventato alcolista dopo essere stato in un campo di concentramento in Africa e usava violenza contro la moglie. L’amore di Pier Paolo per la madre nasce da questo».

Che idea si è fatta di quella notte del 2 novembre 1975, a Ostia?
«Se finora non è emersa una verità chiara, qualcosa dietro deve esserci. Un mistero più grande di noi».

...

Moravia ha influenzato la sua scrittura?
«No, semmai l’ha fatto mio padre. Moravia si rifiutava di rivedere i miei scritti, per me non voleva essere un maestro».

Lo sogna spesso?

«Sogno spesso Pasolini. Ed è sempre giovane e bello».






martedì 29 ottobre 2024

La sconfitta rituale




È andata com'è andata in Liguria. È andata come poteva andare. Il campo largo è un dato di fatto. Una nozione statica. Esiste uno schieramento formato da quanti si oppongono alla maggioranza di centrodestra e al governo Meloni. Un dato di fatto non è una proposta, non contiene una promessa, non implica neppure una azione comune. Può anche dar luogo a una avanzata in ordine sparso, senza una idea precisa dello scopo, se non quella di conseguire la vittoria. Il passaggio da una nozione statica a una nozione dinamica non è automatico, non sta nelle cose. Si attua se qualcuno elabora un progetto e lo promuove, riuscendo a coinvolgere un numero sempre più ampio di sostenitori. Un progetto implica l'assunzione di una iniziativa e anche l'apertura di uno scontro, se occorre. Chi si oppone va sconfitto, sconfitto sul campo e non al tavolo di un negoziato interminabile e sfibrante. Già, perché il negoziato non c'è neppure. Ci sono solo gli ultimatum, i veti e le accuse reciproche. Tutto questo perché qualcuno non ha ancora accettato di stare al gioco senza pretendere un trattamento speciale dovuto alla sua presunta autorevolezza o speciale dignità. Intanto il tempo passa, le sconfitte succedono alle sconfitte e la destra sempre più si sente investita di un naturale e duraturo diritto a governare. Da questo gioco affliggente e ripetitivo bisogna uscire ritrovando la strada della battaglia politica e del progetto audace da mettere alla prova. Basta tatticismi, è tempo di passare alle strategie. Senza trascurare la ricerca degli strateghi adatti, beninteso. 


Augusto Minzolini, Il fallimento dello schema del 1994
Il Giornale, 29 ottobre 2024

È finita come tre decadi fa. Ma anche se avesse vinto Orlando per onestà intellettuale tutti dovrebbero ammettere che in un mese il centro-destra ha ribaltato la prospettiva di una sconfitta sicura (più o meno come nel '94 sfumò una vittoria che Occhetto pensava di avere in tasca) e già solo questo dimostra la fragilità e l'incompiutezza della strategia della sinistra. Se poi si coniuga la sconfitta di Orlando con il tonfo grillino emerge con clamore l'errore madornale commesso da chi ha accettato dentro il Pd i diktat di Giuseppe Conte. Una sconfitta per il presente e un monito per il futuro perché la vicenda ligure è di fatto la proiezione in piccolo degli equilibri a livello nazionale: il campo largo per essere competitivo, per poter aspirare a vincere, deve mettere insieme - basta leggere i dati dell'ultimo sondaggio «you trend» - tutte le sue anime compresa Italia Viva. E la ragione - come ho scritto e riscritto negli ultimi due mesi prevedendo la vittoria del centro-destra - non riguarda tanto il numero di voti che può portare Renzi, non è importante quel 2-3% che ha in dote, ma la funzione che può svolgere come ultima propaggine di una forza riformista collocata nell'area centrale della geografia politica di questo Paese. Più il campo largo con Schlein, Fratoianni, Bonelli e Conte ha il suo asse spostato a sinistra e più ha bisogno di una copertura, [di un bilanciamento magari anche non del tutto omogeneo] sul lato dell'area moderata. Una funzione che non può essere svolta dal solo «ectoplasma» Calenda, ma che ha bisogno di una presenza ben più pesante magari ingombrante. [...]

Il problema non è il Pd partito dello Ztl, oppure il duello Conte-Grillo. Queste sono puttanate. La questione è che in un sistema bipolare la caccia è all'ultimo voto e normalmente l'ultimo voto è quel pezzo di opinione pubblica che è al centro e che può spostarsi a favore di uno dei due schieramenti determinandone la vittoria. È quel pezzo di elettorato che farà vincere la Harris o Trump, che ha determinato il ritorno dei laburisti in Inghilterra, che ha impedito alla Le Pen di imporsi nelle elezioni politiche in Francia e che in passato in Italia ha premiato Berlusconi o ha permesso al moderato Prodi di battere il Cav per pochi voti.

Per questo parlo di «ebetismo politico» con la presunzione di avere ragione. Dopo trent'anni a sinistra ancora non hanno capito come va il mondo. Credono che gli basti un'inchiesta giudiziaria o un arresto, magari con il Ranucci di turno che prende il posto di Santoro, per assicurarsi la vittoria.


Federico Geremicca, Elly Schlein stecca la prova da leader. Centrosinistra a rischio irrilevanza politica, La Stampa, 29 ottobre 2024

Quante volte, anche noi osservatori, abbiamo liquidato le difficoltà di rapporto nel centrosinistra richiamando un evidente "problema di caratteri"? Figurarsi se non è vero: si fa oggettivamente fatica a immaginare Conte, Renzu e Calenda dalla stessa parte della barricata per più di mezz'ora. Prime donne. Egocentrici. Inaffidabili. L'errore, però, è nel chiuderla qui: circoscrivendo la questione ad un "problema di caratteri" per non vedere l'abisso culturale e programmatico che separa gli ex grillini dagli ex terzopolisti.
Ora arrivano Umbria ed Emilia-Romagna. In primavera toccherà ad altre e importanti regioni, dal Veneto alla Campania. Il tempo vola e di mezzo c'è anche il possibile voto su un paio di referendum. Se il campo largo era solo un miraggio, è venuto il momento di prenderne atto. Perché il rischio dell'irrilevanza politica incombe. Anche se la sconfitta è stata solo per un soffio. 

lunedì 28 ottobre 2024

Dove va la storia




Le Monde des livres pubblica questa settimana due schede su libri che hanno per tema il senso della storia. Qualcosa che sembra comportare il riferimento a una più generale filosofia della storia e che oggi viene per lo più vista come l'oggetto di una vana speculazione. Stando, infatti, a una ormai classica opera di Karl Löwith, la filosofia della storia in tutte le sue accezioni non si dà, non è in  grado di assumere una forma razionalmente accettabile. Naturalmente delle speculazioni in materia esistono e continuano a circolare dando alimento a previsioni tanto generose quanto stravaganti. I libri considerati nella rassegna non pretendono di riproporre chissà quale sviluppo destinato a compiersi in futuro. Il primo dei due ragiona al passato sulla caduta della fede nel progresso e non va molto oltre. Il secondo, di un filosofo che fu uno tra i seguaci di Althusser, assume la forma di un testo letterario e punta tutto sul mantenimento di un orizzonte, senza nulla promettere quanto all'approdo finale in un universo di redenzione o di salvezza. 

Florian Larminach, « Histoire de “la fin de l’histoire”. Une enquête philosophique »,
PUF, 298 p.
  

La pubblicazione nel 1992 di La fine della storia e l'ultimo uomo, di Francis Fukuyama (Flammarion),
ebbe un tale impatto che molti attribuirono la paternità di questa espressione al ricercatore americano. 
Tuttavia con lui visse la sua “apoteosi”, scrive Florian Larminach, se non il canto del cigno, dopo due
secoli di teorizzazioni successive, da Kant a Fukuyama, passando per Marx, Comte e Kojève. È questo
lento viaggio che il filosofo ripercorre, ricordando che interessarsi alla “fine della storia” equivale a 
chiedersi cosa resta dell’idea che essa avrebbe un significato – altrimenti è difficile vedere come 
finirebbe per trovare la sua destinazione. Il che rende questo lavoro colto e preciso un'indagine sull'idea
di progresso, e sulla sua cancellazione, al centro di una storia che forse ora dovrà fare a meno di una 
fine, vale a dire di una meta. (Florent Georgesco)
Jacques Rancière, « Au loin la liberté. Essai sur Tchekhov », La Fabrique, 128 p.
Cosa può fare la letteratura di fronte alla questione del senso della storia? Non creando 
personaggi che fungessero da "portavoce" delle erudite profezie dello scrittore, dimostra
Jacques Rancière in questo breve e brillante saggio sulla politica della letteratura, basato
su un'attenta lettura dei racconti di Anton Cechov (1860 -1904). Dispiegata tra l'abolizione
della servitù della gleba e il periodo dei sollevamenti rivoluzionari, l'opera del russo funge
qui da spazio in cui leggere, anche nei movimenti contraddittori dei suoi personaggi, le 
condizioni di una libertà che non potrà mai essere promessa. Compito dello scrittore, scrive
Rancière, è quello di inserire “lo strappo della libertà lontana nel tempo della servitù”Prospettiva modesta ma preziosa, mostra il filosofo, perché riesce a mantenere il senso
di una libertà possibile, facendoci “tenere gli occhi aperti sulla sua presenza
in lontananza”. (David Zerbib)

Les nouvelles de Tchekhov présentent les multiples versions d’un simple scénario : quelque chose pourrait arriver. Un jour, au hasard, n’importe où, l’ordinaire du temps de la servitude a été troué par une apparition : la liberté est là, au loin, qui fait signe et indique qu’une autre vie est possible, où l’on sache pourquoi l’on vit. La plupart pourtant se dérobent à l’appel. Ils préfèrent que rien n’arrive. Mais Tchekhov, lui, ne renonce pas. Il s’entête à accompagner ses personnages sur ces bords où leur vie pourrait basculer. De récit en récit, il tisse ce temps mû par la machine implacable de la reproduction, mais qui, de pause en pause et d’accroc en accroc, se déchire et se dédouble en temps d’une liberté pressentie qui se refuse au point final mais reste une possibilité en suspens. On peut appeler cela une politique de la littérature. (presentazione editoriale)

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Karl Löwith, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia,
il Saggiatore, Milano 2010
L’esigenza di attribuire un significato ultimo all’incessante scorrere degli eventi ha condotto il pensiero moderno a individuare nella storia un progresso, uno sviluppo che potesse giustificarne ogni crisi, ogni male e ogni inevitabile dolore. Eppure, molto prima del metodo storiografico di Voltaire o della grande filosofia dello spirito di Hegel, gli storici dell’età classica Erodoto, Tucidide e Polibio avevano già rinunciato a questa monumentale prospettiva. Per il pensiero classico, infatti, le gesta degli uomini seguono il corso dell’eterna ciclicità del cosmo; non il corso della rivoluzione sociale, ma della rivoluzione immutabile degli astri. Fra queste due visioni antitetiche della storia si colloca, secondo Karl Löwith, la prospettiva giudaico-cristiana, che opera una rottura fondamentale: tanto per il credente quanto per il filosofo della storia, il senso degli eventi non è racchiuso nel passato, ma in un futuro escatologico sempre a venire, capace di determinare ogni fatto alla luce di una storia della salvezza, al cui termine è attesa la redenzione. Ma se il primo è in grado di portare la croce, il secondo secolarizza la speranza religiosa nell’incondizionata fede nel progresso, tanto «cristiana nella sua origine» quanto «anti-cristiana nelle sue conseguenze». Accolto fin dalla pubblicazione nel 1949 come un classico della filosofia contemporanea, e riproposto dal Saggiatore per la sua limpida attualità, Significato e fine della storia è l’avvincente archeologia dei presupposti teologici che operano in ogni filosofia della storia, decretandone drammaticamente il fallimento. Uno smascheramento – dall’ebraismo di Marx fino alla lettura storica della Bibbia – che non ha rinunciato a evidenziare quelle rare e amate eccezioni, come Burckhardt e Vico, capaci di mantenere sotto il peso dell’eredità storica una prospettiva più umana, e che porta a una tesi di sconcertante radicalità: l’impossibilità della filosofia della storia. (presentazione editoriale)




domenica 27 ottobre 2024

Lacan ribelle e prepotente: un genio clinico



Elisabeth Roudinesco, Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero, Raffaello Cortina editore, Milano 2019

La storia di Jacques Lacan è la storia di un pensiero che, per la prima volta dopo Freud, ha voluto strappare l’uomo all’universo della religione, dell’occulto, del sogno, accettando il rischio di rivelare in ciò l’impotenza della ragione, dei lumi, della “verità”. 
Discendente di una famiglia cattolica permeata degli ideali della Francia benpensante, Lacan avvertì precocemente l’urgenza di criticare i valori tradizionali: quelli dei suoi antenati, fabbricanti di aceto, e quelli dei custodi della legittimità psicoanalitica. Certo di essere superiore ai suoi stessi maestri, sorretto da una feroce volontà di riuscire e di sottrarsi all’ambiente di origine, impegnò l’intera vita in questo sforzo.
Al centro del libro, oltre alle figure affascinanti dei massimi protagonisti della cultura del Novecento – Koyré, Kojève, Heidegger, Sartre, Althusser, Lévi-Strauss, Jakobson, le cui posizioni filosofiche sono delineate con straordinaria chiarezza –, innumerevoli aneddoti ed episodi raccontano le passioni dell’uomo, ribelle e anticonformista: padroneggiare il tempo, frequentare i grandi della sua epoca, collezionare oggetti, sedurre le donne. Ma, soprattutto, domina queste pagine il genio clinico che ha sovvertito la pratica psicoanalitica: la potenza teorica, la libertà e lucidità di un uomo fuori del comune che è riuscito a costruire, nel confronto con le più diverse tradizioni intellettuali e scientifiche, un sistema di pensiero fondato sulla determinazione del soggetto attraverso il linguaggio; la sapienza e l’acume di un maestro che ha analizzato con impareggiabile sottigliezza le trasformazioni della famiglia occidentale, il declino della funzione paterna, le contraddizioni dell’amore, le illusioni della rivoluzione, la logica della follia. (presentazione editoriale)

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François Angelier
Le Monde des livres, 26 octobre 2024

S’engager, sans carte et en tenue de ville, n’étant ni disciple ni initié, dans les 700 pages d’une « esquisse » biographique de Jacques Lacan (1901-1981), « histoire [polémique] d’un système de pensée » qu’on imagine barbelée de schémas et tailladée de figures, peut sembler une idée loufoque, une gageure absurde. Cependant, loin de nous égarer dans un dédale théorique en expansion, Elisabeth Roudinesco (collaboratrice du « Monde des livres ») nous convie à partager une épopée intime, une furia intellectuelle et une « passion française (et) balzacienne » rebondissante. Car, en Jacques-Marie Lacan, psychanalyste freudien, confluent les démons de Max Linder et de Casanova, de Brummel et du docteur Mabuse.

C’est en tout cas le sentiment qui emporte vite un lecteur appelé à filocher ce dandy du divan, du collège Stanislas à la Sorbonne, en passant par Sainte-Anne, Normale-Sup et Vincennes, du cabanon de grand-papa à la Cause freudienne. Un parcours qui ne donne pas le sentiment de remonter un corridor hospitalier, mais de funambuler pendant un séisme, car Lacan n’a de cesse de soumettre la vieille psychiatrie puis la jeune psychanalyse a des crash-tests. Il la confronte à Maurras, Bloy et aux pratiques surréalistes, aux philosophies de Spinoza, Hegel et Heidegger, aux visions sacrificielles et à la consumation selon Bataille, aux toiles de Picasso, Dali et Masson, sans exclure quelques cas emblématiques, comme Aimée ou les sœurs Papin. Une pensée portée par une écriture devenue mythique, car jamais prise en défaut de clarté et de lisibilité. Si Lacan fut déclaré par son confrère Rudolph Loewenstein difficilement analysable, il est en revanche totalement biographiable, vivant aux yeux de tous, pensant la vie sur terre à hue et à dia.


I colori del cielo



Claude Monet

Riccardo Falcinelli
, Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Einaudi, Torino 2017

... Eppure il cielo non ha un colore preciso e meno che mai blu: è bianco all'alba, rosso al tramonto, grigio d'inverno  e celeste chiaro in una bella giornata di sole. Il cielo per sua natura cambia di continuo, e in pittura lo si è dipinto in svariati modi: per esempio nelle icone bizantine è rosso, qualche volta nero e più spesso d'oro, per significare con un materiale scintillante la grandezza luminosa dell'universo, esplicitando l'equivalenza tra Dio e la luce.

Edvard Munch



John Constable





Caspar David Friedrich



Gustave Courbet






sabato 26 ottobre 2024

L'amica geniale. Alba Rohrwacher e Lenù



Valerio Cappelli, "Lenù mi ha cambiata", Corriere della Sera, 26 ottobre 2024

ROMA Ci sono ruoli che possono cambiare una persona, e questo è successo ora ad Alba Rohrwacher. Dalla primavera dell’adolescenza all’autunno della vita adulta, si conclude forse la serie tv più celebre. Un viaggio dentro la scrittura di Elena Ferrante, misterioso come l’identità della sua autrice. L’amica geniale arriva all’epilogo in modo epico ma con passo naturale, poggiata sul fluire delle cose. La quarta serie, tratta da Storia della bambina perduta, in dieci episodi su cinque serate, va dall’11 novembre su Rai1, e ora in anteprima alla Festa del cinema.

La nuova regista è Laura Bispuri che pur mantenendo il suo stile fatto di dettagli impressionisti entra «in punta di piedi, al servizio della serie, nelle relazioni vere, sincere, autentiche tra i personaggi». La vita adulta, dagli anni 80 a oggi, impone un nuovo cast. Irene Maiorino è Lila, Elena (Lenù) è Alba Rohrwacher, e il suo amante Nino, «uomo ridicolo con patologie narcisiste», ambiguo come Jago benché con minore evidenza diabolica, è Fabrizio Gifuni.

Alba, la sua Elena antepone alle figlie la necessità di avere accanto l’uomo che ama.

«È una scelta difficile, scomoda, soprattutto in un’epoca poco conforme al ruolo che una donna doveva rivestire in famiglia. Questo era uno degli aspetti più interessanti da portare in scena. Dall’altra parte si parla di emancipazione femminile e di una donna autonoma e indipendente che si infila in una relazione tossica. È piena di sfaccettature, si tratta di riuscire a far coincidere i suoi ideali femministi con la vita che ha scelto».

Cosa chiederebbe a Elena Ferrante?

«Non lo so, perché è come se lei mi abbia detto tutto. La sua scrittura, attraverso personaggi sbagliati, pericolosi, che inciampano e si rialzano, portano a riflettere su noi stessi. Lei ha questo potere di farci guardare dentro. Ma posso dire che l’ho sognata. Io entravo in una casa sconosciuta e c’era una donna semi nascosta che dietro una libreria mi guardava. Era lei. Osservando me, mi oltrepassava guardando dietro una finestra. Allora io mi giravo e vedevo casa mia. Sì, i suoi libri ci portano a guardare dentro di noi».

Questa serie è stato lungo viaggio per lei.

«È cominciato sei anni fa, come voce narrante. Non mi capiterà mai più di conoscere in modo così assoluto un personaggio, e di portarmelo nella vita. L’incontro tra la mia voce e il mio volto è stato liberatorio. Lenù mi ha cambiata. Da lei ho imparato la capacità di stare senza agire, di registrare quello che mi succede intorno senza intervenire. Ho imparato l’acquiescenza, la morbidezza anche negli scatti di rabbia. Sono profondamente grata agli sceneggiatori, Francesco Piccolo, Laura Paolucci, Saverio Costanzo, e a Elena Ferrante, lo spirito guida che ci ha permesso di ritrovare la strada, capace di intercettare l’archetipo dell’amicizia in cui tutto il mondo si riconosce».

Alcuni episodi li diresse sua sorella Alice. Quale suo lato le piacerebbe che Alice raccontasse?

«In realtà mi piacerebbe interpretare lei stessa, Alice; o che magari mi mettesse in una commedia, che frequento poco. La nostra sorellanza è un legame d’amore».

E la sua amica del cuore, la sua Lila, chi è stata?

«Nei primi anni, quando abitavo in campagna, ho avuto un modello estremo, una ragazza che ha bruciato tutte le tappe, molto diversa da me, anche lei non veniva da quel paese. Nell’adolescenza il cinema era lontano da me, ricordo da bambina mio padre che guardava Novecento di Bertolucci in tv. Ero troppo piccola per capire, ma avvertivo la fascinazione, ero turbata dal fascista Attila impersonato da Donald Sutherland: entrava nel mio inconscio, lo sognavo la notte; poi ricordo il bambino con le rane sul cappello; la natura, quel mondo contadino per me erano casa. Poi ci fu la scoperta di E.T. La campagna è il luogo da cui sono scappata e ora cerco di tornare, come fa Elena con Napoli, è uno dei pochi luoghi dove sono in pace».

Alba, cos’ha davvero in comune con Elena-Lenù?

«Con le dovute distanze, io ho sempre saputo del mio istinto ad andarmene. Ho fatto quello che ha fatto lei. Ha preso le distanze dal suo rione, ha ripulito il suo dialetto, ha tagliato i ponti con tutti. E tornando al rione riesce a scrivere il suo libro. Si inverte l’equilibro tra lei e Lila, che la poneva in avvisaglia sui suoi errori e ora invece Lila scoprirà un lato di fragilità che la sgretolerà. Ho cercato di dare continuità al lavoro di Margherita Mazzucco che era Lenù da piccola, mi ha dato una mano nella fase di ricerca e anche nel modo di parlare di Elena, avendo poi la possibilità di staccarmi, perché l’età è diversa».

L'attacco aereo all'Iran

 


Israele annuncia di aver colpito l'arsenale missilistico iraniano, Teheran afferma di aver subito "danni limitati" (AFP)


https://www.lemonde.fr/international/article/2024/10/26/israel-annonce-avoir-frappe-l-arsenal-de-missiles-iranien-teheran-assure-avoir-subi-des-dommages-limites_6360132_3210.html

L’esercito israeliano ha affermato di aver effettuato attacchi “precisi e mirati” contro l’Iran nella notte tra venerdì 25 e sabato 26 ottobre, come rappresaglia per l'attacco iraniani contro Israele del 1° ottobre. Gli aerei militari “hanno colpito i siti di produzione di missili (…) che l’Iran lancia da un anno contro lo Stato di Israele. Questi missili rappresentano una minaccia diretta e immediata per i cittadini di Israele ”, si legge in una nota. L'esercito ha anche effettuato attacchi contro "batterie di missili terra-aria e altri sistemi aerei che avevano lo scopo di limitare la libertà di Israele di operare in Iran ".

L'Iran spiega da parte sua che gli attacchi israeliani hanno preso di mira le basi militari nelle province di Ilam, Khuzestan e Teheran, provocando "danni limitati" .

L’Iran pagherà “un prezzo elevato” in caso di una nuova escalation, ha avvertito sabato l’esercito israeliano dopo questa operazione. "Se il regime iraniano commettesse l'errore di avviare un nuovo ciclo di escalation, saremmo obbligati a reagire ", ha assicurato il suo portavoce. "Il nostro messaggio è chiaro: tutti coloro che minacciano lo Stato di Israele e tentano di trascinare la regione in un'escalation più ampia pagheranno un prezzo elevato ", ha continuato il contrammiraglio Daniel Hagari.

“Legittima difesa”, secondo la Casa Bianca

Gli attacchi israeliani in Iran sono “autodifesa ”, ha affermato la Casa Bianca. Gli Stati Uniti sono stati informati in anticipo dall'alleato israeliano di questi attacchi, ma Washington non è stata coinvolta in questa operazione, ha detto un funzionario della difesa americano.

Questi attentati avvengono in un contesto di tensioni regionali esacerbate da un anno dalla guerra a Gaza tra Israele e Hamas palestinese, e dalla sua estensione nel vicino Libano, dove l’esercito israeliano affronta Hezbollah. Questi due movimenti islamici sono alleati dell’Iran che li arma e li finanzia.

Il 1° ottobre Teheran ha lanciato circa 200 missili su Israele, tra cui per la prima volta diversi missili ipersonici Israele aveva promesso di farla pagare all’Iran per questo attacco. “Il regime iraniano e i suoi alleati nella regione hanno continuato ad attaccare Israele dal 7 ottobre – su sette fronti – compresi attacchi dal suolo iraniano (…) . Lo Stato di Israele ha il diritto e il dovere di rispondere. Le nostre capacità difensive e offensive sono pienamente mobilitate ”, ha assicurato l’esercito israeliano mentre le esplosioni risuonavano nel cielo sopra Teheran.

Le prime detonazioni sono avvenute intorno alle 2:15 ora locale, principalmente a ovest di Teheran, secondo l'agenzia di stampa ufficiale IRNA. Dopo una serie di sei detonazioni riportate nella notte dalla televisione di Stato, i giornalisti dell'AFP hanno sentito e visto continue detonazioni accompagnate da scie luminose dal centro di Teheran. Teheran ha annunciato la sospensione fino a nuovo avviso di tutti i voli nel suo spazio aereo.

https://www.theguardian.com/world/2024/oct/26/iran-israel-shadow-war-out-in-open

venerdì 25 ottobre 2024

Degrelle dal fascismo al nazismo

 



Mariolina Bertini 

"Nel 1937 Magritte crea un manifesto dal titolo: Il vero volto di Rex. In primo piano c'è Léon Degrelle, ritratto di profilo. In mano ha uno specchio che occupa la parte superiore del disegno e lo specchio raffigura il volto di Hitler con il ciuffo, i baffetti e uno sguardo cupo. Non si poteva riassumere meglio l'intera storia del movimento rexista dal 1933 al 1945. Il Belgio francofono ha avuto in sorte non uno ma due movimenti fascisti. In apparenza all'inizio c'era un raggruppamento parafascista di estrema destra. Molto presto è comparso anche il suo doppio, con una natura prima fascista poi nazista sempre più netta. Alla fine, l'immagine più o meno nascosta ha preso il posto della realtà".
È interessante scoprire con Giovanni Carpinelli i due volti del leader belga Degrelle (1906-1994). Scrive nella prefazione Claudio Vercelli che la carriera di Degrelle merita di essere studiata "come risposta alla crisi delle democrazie europee degli anni Trenta", ma anche "come espressione della mitologia superomistica contrapposta alla fragilità dell' "individualismo liberale". E soprattutto "come apologia del sé individuale, ducesco, di contro allo sgretolamento della coesione sociale e della solidarietà". 
Il libro è bello e molto utile è la prefazione di Claudio Vercelli per capire sia l'importanza delle mitologie di destra studiate a suo tempo da Furio Jesi, sia l'urgenza di studiarle nel momento attuale. Non certo per polemica spicciola con gli avversari politici, ma per comprendere veramente i doppi fondi di un immaginario collettivo in continua trasformazione. 

Giovanni Carpinelli, Nascita e destino di un piccolo Hitler. Léon Degrelle e il rexismo,
4 Punte edizioni, Roma 2023