martedì 8 ottobre 2024

Israele e Palestina, lo scoramento





LA SPERANZA SCOMPARSA

Medio Oriente A un anno dal 7 ottobre 2023 resta il silenzio come comune disarmo. Una guerra che ha polarizzato le opinioni

In questi dodici mesi sono stati conteggiati anche i silenzi. Chi si esprimeva e chi no, chi condannava e cosa, chi dava la propria solidarietà e in quali termini. Com’era forse prevedibile, la guerra scaturita dall’attacco del 7 ottobre 2023 ha polarizzato con una violenza senza precedenti l’opinione pubblica lontano dal Medio Oriente. Nulla di paragonabile alle opinioni striscianti attorno all’invasione dell’Ucraina. Dal primo istante, fra Israele e Palestina non c’è stato alcuno spazio non dico di neutralità — la neutralità è un progetto depravato in alcune circostanze — ma di possibile trasformazione. Come in una centrifuga impazzita, chi ha tentato di costruire opinioni più sfumate o mutevoli nel tempo, chi ha deciso da un certo punto in poi di non esprimersi affatto constatando la propria insufficienza, è stato schiacciato arbitrariamente contro questa o quella parete ideologica. Setacciare le parole non bastava, andavano pesate anche le omissioni.

È successo anche a me di ritrovarmi appiattito su questa o quella linea, in pubblico e in privato, per il solo fatto di scegliere di parlare di una cosa e non di un’altra. E perché, via via che il 7 ottobre si allontanava e le rivendicazioni pubbliche diventavano sempre più massicce e rumorose, sempre più sommarie, mi sono ritratto.

La logica «o con noi o contro di noi» ha prevalso ovunque, sfociando in atti anche simbolici di annientamento. L’ultimo: scegliere, dopo un anno di manifestazioni sacrosante per ottenere un cessate il fuoco a Gaza, di organizzare la più importante in corrispondenza dell’anniversario del 7 ottobre, come se la denuncia di una sofferenza dovesse passare necessariamente per la cancellazione di quella opposta. In un panorama corrotto a tal punto è più che legittimo, credo, chiamarsi fuori dalla discussione.

Ma non è mia abitudine liquidare facilmente le critiche. Ho preso l’accusa di reticenza molto sul serio, me la sono rigirata in testa per mesi, cercando di comprenderne l’origine profonda, se c’era, al di là della fatica. Solo di recente mi è sembrato di coglierla: la reticenza su questa guerra ha a che fare con la speranza. O meglio, con la sua assenza. Perché si può scrivere dall’interno della più cupa disperazione, e forse la migliore letteratura è stata prodotta così, ma non si può scrivere disperando. L’assenza di speranza ammutolisce, toglie senso all’azione stessa dello scrivere. Non vale per i giornalisti ovviamente, non vale per chi documenta giorno per giorno ciò che accade e prende la realtà per quel che è — compresi gli oltre cento giornalisti uccisi a Gaza —, ma vale per chi scrive con la pretesa irragionevole di completare la realtà con quel tanto d’anima che le manca: per tutti loro, me compreso, la speranza è un elemento indispensabile. Scrivere dell’invasione dell’Ucraina, continuare a farlo, è possibile perché dopo due anni la speranza è ancora lì, intatta – la vittoria sul campo, la fine dei bombardamenti, un paese di nuovo libero. Ma dal 7 ottobre non esiste più una speranza del genere per Israele e Palestina. Anche dopo la fine dei bombardamenti, dopo il ritiro delle truppe israeliane da Gaza, quando accadrà, le violenze proseguiranno. Sui figli, e sui figli dei figli. È già successo altrove, si dirà, è il principio di ogni escalation, si può arrestare. Ma chi lo pensa non si è forse avvicinato abbastanza, emotivamente, allo strazio che si consuma da un anno laggiù. Per decenni uomini e donne di buona volontà hanno portato avanti l’idea «debole», e proprio per questo straordinaria, dei due stati per i due popoli. Ebbene, dal 7 ottobre 2023 quelle persone hanno cambiato idea, in Israele e nei Territori. Anzi non hanno cambiato idea. L’idea si è dissolta, come un ologramma. Laddove, pur nel crimine prolungato dell’occupazione, esisteva il progetto di una convivenza raggiungibile, ci sono adesso due fantasie di annientamento reciproco: le mappe di Netanyahu in cui Gaza e la Cisgiordania non esistono, e la Palestina libera «dal fiume al mare». Sarà questo il lascito duraturo dell’operazione Al-Aqsa Flood, del «diluvio» del 7 ottobre, quando infine l’inondazione si ritirerà sul tappeto di morti. Su premesse così è impossibile immaginare, è impossibile pensare, è impossibile scrivere: resta solo da gridare, a chi sa farlo.

Mentre assistevo al riarmo militare e al mio disarmo interiore, succedeva di tutto. Abbiamo ragazze portate via a bordo di motociclette e pick-up, come in una razzia medievale. Abbiamo visto che un paese che sente di combattere una guerra esistenziale non accetta alcun tipo di ammonimento da alleati, amici, potenze più potenti, corti internazionali di giustizia o quant’altro, nessuna riduzione a più miti consigli. Abbiamo visto, dalle riprese di un drone, centinaia di persone accalcarsi come insetti attorno ai camion degli aiuti umanitari e poi venire falcidiate. Abbiamo visto immagini di esodi su automobili debordanti e perfino su asini, ogni sorta di distruzione e mutilazione. Abbiamo visto bande di coloni esibirsi in spedizioni punitive contro persone inermi. Abbiamo visto l’intelligenza artificiale, anzi una intelligenza artificiale specifica di nome Lavender, all’opera nella selezione dei bersagli militari e nel calcolo disumano delle morti collaterali «accettabili». Abbiamo visto un’operazione di omicidi a distanza condotta attraverso la manipolazione di apparecchi elettronici, su una scala così vasta che ancora oggi, quando ci ripenso, vengo assalito dall’incredulità. 

L’Ucraina ci aveva ripiombato nella fanghiglia grigia delle guerre novecentesche, nelle macerie di Dresda, ma ciò che negli ultimi dodici mesi è successo nel territorio minuscolo che comprende Israele, Palestina e Libano ci ha mostrato qualcosa di ancora diverso: un combinato nuovo di guerra rudimentale e guerra ipertecnologica, di fini analisi geopolitiche e primitivismo religioso, che offre visioni poco rassicuranti sul futuro di tutti noi.

Tutti noi, già. C’è da chiedersi come ce la siamo cavata durante quest’anno. Forse abbiamo perso un po’ il controllo. Ma in che modo esattamente? La mia impressione è che ci siamo lasciati andare alle sineddochi. La sineddoche è quella figura retorica per la quale il tutto viene scambiato con una parte, o viceversa. Per esempio: parlare della destra estremista di Israele per parlare di tutto Israele; e poi parlare di Israele per parlare di tutti gli ebrei. O viceversa. Usare «sostenitore dell’occupazione», «sionista», «israeliano» e saltuariamente anche «ebreo» come se fossero sinonimi. La concatenazione delle sineddochi è uno dei meccanismi alla base dell’antisemitismo, come di qualsiasi odio etnico o religioso, e per quanta sorveglianza possiamo esercitare sui pensieri, la nostra mente opera sineddochi di continuo. Quindi, sebbene come osservazione possa disturbare la pretesa purezza di ragionamento di molti, il verdetto è: sì, dal 7 ottobre 2023 l’antisemitismo nel mondo è di nuovo in aumento. Ad agosto l’Auschwitz Memorial dichiarava di aver perso più di settemila follower su X. Non era mai successo.

E ovviamente le sineddochi si producono anche nel verso opposto: Hamas per dire Gaza, fino all’assurdità di dire arabi per dire palestinesi. Perfino gli scopi militari ufficiali di Israele, rimasti immutati oltre l’ostinazione, si basano su una sineddoche sanguinaria: l’eradicazione di Hamas, e ora di Hezbollah, che diventa all’atto pratico la devastazione totale della Striscia, l’assassinio di decine di migliaia di civili, l’aumento della pressione nella West Bank e adesso anche l’invasione del Libano. Sineddochi da tutte le parti, analogie sballate, sfruttate ad arte oppure inconsapevoli, là come qua.

Qualcuno può giudicare colpevole, perfino osceno, il senso di inesorabilità che le mie frasi trasmettono. È comprensibile. Suppongo che in situazioni come questa il rapporto con la speranza o l’inesorabilità dipenda molto dalla relazione personale che ognuno di noi ha con il trauma (non è il contesto per intraprendere questo tipo di esplorazione, sebbene la trovi centrale). A un anno dal 7 ottobre 2023 posso solo ammettere che invidio tutti coloro che mi hanno scaricato addosso le loro certezze. Li invidio sinceramente. Tutti quelli che hanno avuto, a ogni passo, commenti risoluti su questa guerra, frecce che collegavano un evento al successivo, cronologie eloquenti, invece di incartarsi, di ritrovarsi impigliati in ragionamenti contraddittori, senza apparente via d’uscita. Vi ho ascoltato attentamente, per lo più senza capirvi. E senza superare la convinzione — l’unica che ho — che chiunque voglia mantenersi in una posizione moralmente limpida all’interno di questo conflitto sta davvero omettendo qualcosa. Con tutte le altre persone, quelle che mi sembrano essersi addentrate più intimamente, e quindi con più pericolo nelle pieghe scomode di questo momento storico, non ho molto da dirmi invece. Ho l’impressione di aver già condiviso con loro, in silenzio, il nostro comune disarmo.


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