Aldo Cazzullo Roberta Scorranese, Io, Moravia e le voci che scrivesse per me
Corriere della Sera, 30 ottobre 2024
Intervista a Dacia Maraini
«Per anni, in tanti hanno sostenuto che l’autrice dei miei libri non fossi io». Dacia Maraini si racconta. «Pasolini si ritraeva se una donna lo toccava. Vanoni una grande amica».
Lei scrive il suo romanzo d’esordio, «La vacanza», dopo la separazione da Pozzi e nel dolore per il figlio perduto.
«E con i pregiudizi che all’epoca accompagnavano una donna aspirante scrittrice. Finii La vacanza e cominciai a proporlo agli editori. I commenti erano sempre del tipo “bravina, ma perché non se ne sta a casa invece di scrivere?”. Solo l’editore Lerici rispose, ma pose una condizione: che la prefazione fosse firmata da uno scrittore famoso».
E il più famoso di tutti, Alberto Moravia, accettò.
«Stendhal diceva che ci si innamora delle persone che fanno bene il mestiere che ci appassiona. Fu questa la prima impressione che ebbi di Alberto. Serio, attento, generoso. Non ha aiutato soltanto me, ma molti altri giovani. Purtroppo per decenni in tanti hanno sostenuto che i libri me li scriveva lui».
Lei era bellissima, e questo forse con Moravia la aiutò.
«Non andò così, il primo approccio fu al contrario puramente letterario. Insomma, non ci provò».
Lei aveva poco più di vent’anni. Quando vinse il Premio Formentor, il Corriere scrisse che la somma del riconoscimento assegnato «alla bella esordiente a qualcuno sono parsi un riconoscimento eccessivo».
«Ma non erano solo gli uomini ad attaccarmi. Maria Bellonci, madre del Premio Strega, commentò: “Questa ragazza ne deve mangiare di minestre prima di diventare una scrittrice”. Ma io sentivo di vivere dentro una grande famiglia, fatta di scrittori, registi, poeti. Ci vedevamo a Roma da Rosati. Ci trovavi Garboli, Citati, Bassani. Si andava a cena con Fellini, lui mi chiamava Dacina. Tutti pensavamo che fosse solo lui a tradire Masina, ma poi più tardi abbiamo scoperto che anche lei ha avuto vari amori».
In effetti Valentina Cortese ha raccontato che suo marito la tradiva con Giulietta.
«Giulietta e Federico erano alla pari».
Com'era la vita con Moravia?
«Aveva una vitalità inesauribile. Una volta andammo in Africa con Pasolini. Avevamo viaggiato tutto il giorno sulla jeep, arrivammo stanchissimi e impolverati in un villaggio. Alberto non volle sentire ragioni e ci trascinò a ballare».
Con Pasolini siete stati in Africa altre volte.
«Arrivammo in un luogo remoto, eravamo io, Alberto, Pier Paolo, Franco Citti, Ninetto Davoli. Si sparse la voce che in quel villaggio viveva una tribù di cannibali che si nutriva del cervello per appropriarsi dell’intelligenza. Eravamo tutti spaventati. A un certo punto Citti disse a Davoli: “A Nine’, prima se magneranno Moravia, Pasolini, Dacia. Arriveranno a noi che so’ sazi...”. Ridemmo molto».
Moravia e Pasolini.
«Alberto era tutta ragione, Pierpaolo tutta sensualità. Andammo in India. Al ritorno uno scrisse Un’idea dell’India, l’altro L’odore dell’india».
Pasolini.
«Affettuosissimo. Ma senza contatto fisico, perché lui si ritraeva davanti al tocco di una donna. Una volta, in osteria al ghetto, cadde a terra. Ulcera. Perdeva sangue. Lo presi tra le braccia e non dimenticherò mai il suo sguardo: era come se stesse guardando sua madre. Non è vero che non si sia mai innamorato delle donne. Ha amato Maria Callas, ma era un amore senza fuoco, di testa. Lei ne soffrì, avrebbe voluto di più. Però lui nel corpo femminile ritrovava sua madre».
Cercava i ragazzi.
«Ma per sedurli, non per usare violenza. Eravamo in Africa, io lui e Alberto. Pier Paolo uscì, cercava amore. Tornò che era tardi, sconsolato. Ci disse che un giovane lo aveva rifiutato quasi con terrore, facendosi il segno della croce, come per allontanare un demonio. Ne era rimasto colpito, non capiva perché altri vedessero violenza nella sua ricerca dell’altro. Lui, che era profondamente cristiano e mai avrebbe voluto fare del male a qualcuno».
Lei collaborò alla sceneggiatura de «Il fiore delle mille e una notte», il penultimo film di Pasolini.
«Sul set avevamo bisogno di un leone. L’animale arrivò con il domatore, ci assicurarono che era innocuo. Ma a un certo punto piantò le zampe sulle spalle di Ninetto Davoli, lo ferì in modo abbastanza serio. Ci prendemmo un grande spavento. Ninetto urlava. E il domatore: “Tranquilli, vuole solo giocare!”».
Dov’era quando le dissero che Pasolini era morto?
«A Rimini, a un incontro femminista. Non volevo crederci, aveva appena 53 anni, era sano, pieno di progetti. Non toccava alcol, beveva solo latte, anche a tavola: suo padre era diventato alcolista dopo essere stato in un campo di concentramento in Africa e usava violenza contro la moglie. L’amore di Pier Paolo per la madre nasce da questo».
Che idea si è fatta di quella notte del 2 novembre 1975, a Ostia?
«Se finora non è emersa una verità chiara, qualcosa dietro deve esserci. Un mistero più grande di noi».
...
Moravia ha influenzato la sua scrittura?
«No, semmai l’ha fatto mio padre. Moravia si rifiutava di rivedere i miei scritti, per me non voleva essere un maestro».
Lo sogna spesso?
«Sogno spesso Pasolini. Ed è sempre giovane e bello».
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