venerdì 18 ottobre 2024

La morte di Yahya Sinwar. Decapitare il serpente

L'esercito israeliano sui luoghi del massacro dopo l'attentato del 7 ottobre 2023

Il comandante di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, che era anche il successore di Ismail Haniyeh alla testa del movimento, è stato ucciso. La sua morte è stata confermata giovedì sera dal ministro degli Esteri israeliano Israel Katz.
https://www.lemonde.fr/.../la-trajectoire-de-yahya... https://www.ilpost.it/2024/10/18/yahya-sinwar-ucciso/

Tre interazioni, secondo Clausewitz, portano la guerra all'estremo:

Ciascun contendente impone all'avversario una violenza che, proprio nella reciproca necessità di annientamento, non può che essere spinta all'estremo; 

Lo scopo di ciascun contendente è ridurre all'impotenza l'avversario, per abbatterlo. Ma, essendoci reciprocità, i metodi per raggiungere il proprio obiettivo tenderanno all'estremo;

Motivazione e grandezza dei mezzi costituiscono elementi reciproci nel conseguimento degli obiettivi. Dunque tale reciprocità porterà all'estremo gli sforzi di entrambe. 

Carl von Clausewitz, Della guerra, Nuova edizione a cura di Gian Enrico Rusconi, Einaudi, Torino 2000, pp. 20-22. 

Questi sono, per il teorico prussiano, gli elementi che tendono a portare la guerra all'estremo. In astratto sono validi e hanno un loro peso anche nel corso normale degli eventi. Sempre nel corso normale degli eventi, altri fattori entrano in gioco e agiscono in senso contrario: la guerra non è un atto isolato; essa non consiste in un'unica decisione o in una serie di decisioni simultanee; essa è oggetto di un calcolo strategico che va oltre il semplice sviluppo dello scontro militare e riguarda necessariamente la condizione politica destinata a crearsi dopo, alla fine.
Ecco, nella guerra tra Israele e i suoi nemici, il momento del calcolo strategico più ampio non è ancora venuto, si direbbe. Lo scopo visibilmente perseguito è per Israele quello di annientare Hamas, annientare Hezbollah e, al tempo stesso, infliggere una dura lezione ai palestinesi di Gaza soprattutto e agli sciiti libanesi. Per Hamas e Hezbollah, invece, lo scopo realisticamente perseguibile non è la vittoria sul nemico ma il mantenimento della propria presenza in campo. Il che, in un contesto di guerriglia, resta nel novero degli esiti possibili.
Clausewitz a suo tempo parlava di annientamento pensando all'annientamento della forza militare nemica. Lo sterminio della popolazione appartenente allo Stato nemico sembrava escluso. Ancora nella guerra israeliana è presente lo scopo di ridurre all'impotenza la popolazione dei territori confinanti, Gaza e il sud del Libano. 
È uno scopo raggiungibile? Solo con una buona dose di superficialità e faciloneria si può dare una risposta categorica a una simile domanda, in una materia così delicata e complessa sarà lecito nutrire dei dubbi. 


Paola Caridi
, Hamas al tempo di Yaya Sinwar, il manifesto, 5 ottobre 2024

La strategia israeliana del «decapitare il serpente» ha segnato la storia di Hamas almeno negli ultimi trent’anni. La serie di omicidi mirati a opera di Israele ha colpito sia l’ala militare sia quella politica, sia i radicali sia i pragmatici. A cominciare nel 1996 da Yahya Ayyash, capo delle Brigate al Qassam in Cisgiordania, considerato il progettatore delle cinture esplosive degli attentati terroristici che hanno scosso le città israeliane. Per continuare con il tentato omicidio, l’anno successivo, di Khaled Meshaal, capo del politburo. E poi, ancora in alternanza, Salah Shehadeh, fondatore di al-Qassam, ucciso nel 2002 con una bomba da una tonnellata assieme ad altre quattordici persone, e due anni dopo sheykh Ahmed Yassin e dopo un mese Abdel Aziz al Rantisi, alla testa dell’ala politica.

L’eliminazione fisica dei leader non ha cambiato in modo sostanziale Hamas, come non è successo con Hezbollah, movimenti che fanno della dimensione collettiva del potere e dell’organizzazione uno dei loro tratti distintivi. Non ha, insomma, mai funzionato.

LA TRANSIZIONE di Hamas dipende da altro. Dipende da una discussione interna di cui si sa poco o niente, ma di cui si immagina qualcosa già in quello che esce in pubblico. Come il documento che all’inizio dell’anno diede una spiegazione ufficiale al 7 ottobre, mostrando in modo plateale che per avere una posizione condivisa Hamas aveva avuto bisogno di ben tre mesi di discussione interna. È una transizione all’insegna di opacità e debolezza che ha a che fare con i nuovi equilibri, evidenziati dalla designazione di Sinwar a nuovo capo del politburo. Da un lato, sembra una mossa in evidente continuità con Haniyeh, coetaneo, amico dei tempi dell’università e soprattutto esponente del movimento islamista di Gaza. Dall’altro lato, non chiarisce quale sia oggi il rapporto tra Sinwar, di fatto a capo dell’ala militare, e la leadership politica all’estero, impegnata anche a definire una possibile riconciliazione con le altre fazioni per passare il potere dentro Gaza a un governo tecnocratico.

E se è vero che Hamas ha guadagnato consensi dentro la Cisgiordania, e in genere in quello che in modo approssimativo si può definire il sentimento della strada araba, è altrettanto visibile la diminuzione del consenso a Gaza, dove lo stato di prostrazione, di lutto, di dolore è così alto.





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