Uno può vivere benissimo senza aver mai sentito parlare di questo saggista che nelle sue opere si interroga in modo ossessivo sul valore dell'esistenza umana e sulla morte. Emil Cioran è un cinico che senza fine esibisce il suo disincanto e la sua amarezza (Sillogismi dell'amarezza è il titolo di una sua opera). Il sociologo Durkheim riflettendo sul suicidio era giunto alla conclusione che per la stragrande maggioranza degli esseri umani la vita doveva apparire come una buona cosa, dato che solo una sparuta minoranza sceglieva di uccidersi. Cioran sembra escludere l'idea del suicidio, ma non cessa di rappresentare a tinte fosche l'esistenza. Per questo leggere un suo testo significa andare incontro a una prova cruciale. O si entra nella logica della sua argomentazione anche solo per una forma sperimentale di compiacimento nella sventura, o si rimane freddi, trovando preferibile mantenere una ferma adesione alla vita, senza macerazioni o paturnie.
Vincenzo Fiore, Centodieci anni dopo. Breve ritratto di Emil Cioran,
Scenari, 8 aprile 2021
Je sens que je suis libre mais je sais que je ne le suis pas.
Agli inizi del Novecento il piccolo villaggio di Rășinari, parte della regione storica della Transilvania, è uno dei luoghi più arretrati e remoti dell’Impero Austro-Ungarico. A sorvegliare sulle avversità del paese ci sono i Carpazi che «come un paesaggio sprezzante, si ergono al di sopra del tormento che si stende ai loro piedi». Dal 1906 il pope del paese è Emilian Cioran, cognome che rimanda alla transumanza dei pastori transilvani i quali chiamavano le loro pecore nere oi ciorane. Attivo non solo dal punto di vista culturale, Emilian si batte per portare l’elettricità in quell’angolo buio dell’Impero e sposa Elvira Comanici, ragazza che proviene da una delle famiglie più in vista della zona per aver concepito generazioni di preti ortodossi e per essere in possesso di un diploma di nobiltà dal 1628. Il 23 dicembre 1908, i due coniugi danno alla luce la loro primogenita Virginia, il 25 maggio 1914 nascerà invece il loro terzo e ultimo figlio Aurel, in mezzo, esattamente centodieci anni fa, l’8 aprile 1911 veniva alla luce il dissacratore che ha attentato a ogni fede: Emil Cioran.
Il primo episodio fondamentale della sua vita risale a quando egli aveva soltanto cinque anni e si trovava nella località di Drăgășani. In un pomeriggio dell’estate del 1916, il piccolo Emil ebbe una crisi di noia che definirà come il risveglio della propria coscienza: «D’un tratto ho sentito la presenza del nulla nel mio sangue, nelle mie ossa, nel mio respiro, e in tutto ciò che mi circondava». Nello stesso anno, nel pieno svolgimento della Grande guerra, il 20 settembre il padre Emilian viene arrestato dalle autorità ungheresi, insieme a tanti intellettuali, con l’accusa di separatismo. Mesi dopo sarà arrestata anche la madre e trasferita nel carcere di Cluj-Napoca. Emil sarà affidato alla nonna materna e inizierà a frequentare la scuola nel suo villaggio natale. Soltanto nel 1918 e con la successiva ratifica del trattato del Trianon del 1920 quel territorio sarà annesso ufficialmente al Regno di Romania. Nonostante questa fanciullezza travagliata, Cioran dirà di questo periodo: «Un’infanzia meravigliosa. Credo di essere diventato infelice nella mia vita come punizione per essere stato così straordinariamente felice da bambino. Sto parlando della prima infanzia, fino all’età di sette-otto anni, non di più, dopo di che la mia vita è stata una catastrofe». E del successivo allontanamento da casa per frequentare l’Istituto “Gheorghe Lazăr” di Sibiu nel 1921 egli parlerà come di una «caduta dal paradiso».
A sedici anni Cioran vive un episodio apparentemente banale, ma che risulterà determinate per la sua concezione dell’amore e del suo rapporto con le donne. Passeggiando in una foresta nei dintorni di Sibiu gli capitò di vedere Cela Schian, ragazza di cui era segretamente innamorato da più di due anni, alla quale, tuttavia, non aveva mai osato rivolgere la parola, in compagnia di un ragazzo soprannominato “il pidocchio”. Di quello che definirà un vero e proprio tradimento, egli scriverà: «Quell’istante ha deciso della mia carriera, di tutto il mio futuro. Ne derivarono anni di completa solitudine. E io divenni quello che dovevo diventare».
Cioran si iscrive all’Università di Bucarest, dove avrà fra i docenti Nae Ionescu, personaggio carismatico appartenente ad un movimento mistico-filosofico vitalista detto trăirism. Il professore di Logica e di Metafisica avrà un’importante influenza sulla generazione Criterion [raggruppamento culturale rumeno attivo tra il 1932 e il 1934], su personaggi del calibro di Mircea Eliade, Constantin Noica e Petru Comarnescu. Dopo un’iniziale fascinazione, Cioran descriverà Nae Ionescu come «scarsamente preparato a riconoscere alcune disposizioni filosofiche incontestabili e che da sole giustificano lo studio della filosofia». Deluso dall’Università, che non «offre un’esistenza migliore rispetto a quella di un mendicante di strada», Cioran porterà comunque a termine gli studi con una tesi su Bergson. Nel luglio del 1933 Cioran va alla ricerca della solitudine disperatamente desiderata nella zona montuosa di Păltiniş-Şanta, dove si ritirerà per scrivere il suo primo libro, quasi come un nuovo Zarathustra, «in direzione di vette affini alle alture dei miei stati emotivi», così come scriverà in una lettera ad Arșavir Acterian. Il 4 gennaio 1934 il manoscritto Al culmine della disperazione si aggiudica il premio della fondazione letteraria che porta il nome di re Carlo II, quest’ultima si occuperà di pubblicare il libro, che diventerà il suo esordio letterario. [...]
Intanto, da giovane neo-laureato, si era aggiudicato la prestigiosa borsa della fondazione von Humboldt, a Berlino, dove seguirà il corso di metafisica di Hartmann. Alloggia in una pensione nei pressi dell’ospedale universitario Charité, dove si intrufolerà nei corsi di psichiatria, e nei quali passerà il tempo ad interrogare i pazienti. Cioran si trova in Germania in concomitanza con l’ascesa di Hitler al potere, il filosofo disgustato dalla situazione politica del suo paese natale, si lascia accecare dal carisma del Führer e sogna una vera e propria trasfigurazione della Romania, aderendo, ma senza farne mai parte, al movimento legionario Guardia di ferro guidato da Corneliu Zelea Codreanu. Da lettore di Spengler, si rammarica del fatto che la Romania non si sia svegliata attraverso l’evoluzione organica e preconizza una rivoluzione cosciente, unica possibilità per uscire dalla perenne diseguaglianza e attuare la «sincronizzazione» con i paesi maggiormente sviluppati. Nella Trasfigurazione della Romania (1936) egli ipotizza l’abbattimento violento del capitalismo e l’attuazione di quello che chiama «collettivismo nazionale». Il sogno è quello di vedere una Romania imperialistica e aggressiva, trasformata in una nuova Costantinopoli dei Balcani, un impero romeno che politicamente si collocherebbe oltre il comunismo e il nazismo.
In questi anni di estasi febbrile, Cioran fa esperienza di una vera e propria «crisi religiosa senza fede» e trascorre più di un intero anno ad ascoltare musica e leggere quasi esclusivamente agiografie e opere di sante, fatta eccezione di Shakespeare. Il filosofo confessa di essere arrivato a un punto limite e di non aver altro interlocutore che Dio. Nel 1937 viene dato alle stampe Lacrime e santi, opera che farà scandalo e troverà la stroncatura di Eliade. Sua madre gli scrive che non avrebbe dovuto pubblicare quel libro, almeno non prima della sua morte, ma Cioran risponde che quello era «l’unico libro veramente religioso mai pubblicato nei Balcani». Ventitré anni dopo, nei Quaderni, egli appunterà: «Ho scritto un interno libro sulle lacrime. E da allora, senza versarne una sola, non ho mai smesso di piangere».
Il 1941 è l’anno della «svolta», mentre è a Parigi per redigere una tesi di dottorato che non concluderà mai, inizia ad allontanarsi per sempre dalla politica, rinnegando quanto teorizzato in passato, e lavora a un trattato sulla decadenza della Francia che sarà pubblicato postumo (Sulla Francia). Il 18 novembre 1942 in una mensa universitaria, l’allora trentunenne Cioran si avvicina, con una scusa, alla sua futura compagna di vita Simone Boué, una giovane ragazza che si apprestava a salire in cattedra nei licei per insegnare lingua e la letteratura inglese. Per tutta la vita Boué nasconderà la sua relazione con Cioran ai propri genitori, limitandosi a dire alla madre di aver trovato un coinquilino.
Nel marzo 1944 Cioran assiste da vicino alle barbarie perpetrate dall’ideologia nazista, l’amico e filosofo Benjamin Fondane e sua sorella Line, denunciati dal portinaio del loro appartamento per non aver indossato la stella di David, vengono arrestati dalla polizia del governo collaborazionista di Vichy. Cioran, insieme a Jean Paulhan e Stéphane Lupasco, interviene per salvare il suo «migliore amico». Cioran cercò di spiegare alle autorità francesi che Fondane era una sorta di icona in Romania e il suo arresto avrebbe potuto mettere a repentaglio l’alleanza del suo paese con le potenze dell’Asse. L’ufficiale con cui Cioran stava parlando, dopo un iniziale convincimento, ispezionando i documenti, scoprì che ormai Fondane era naturalizzato francese dal 1938 e che aveva combattuto con l’esercito sotto le note della marsigliese. Successivamente, gli amici di Fondane si appellarono al diritto di liberazione in quanto coniuge di un ariano, principio che poteva essere applicato a lui ma non alla sorella. Fondane si rifiutò di lasciare sola la sorella e venne deportato il 30 maggio ad Auschwitz. Fra il 2 e il 3 ottobre, Fondane morì nelle camere a gas di Birkenau.
Finita la guerra, Cioran è sempre più convinto di dover restare in Francia, dove vivrà con lo statuto di apolide, mentre in Romania i comunisti prendono il potere. Non immaginava che non sarebbe mai più ritornato nella sua terra di origine. Poco dopo, la nuova Repubblica socialista di Romania arresterà e condannerà gli ex-militanti della Guardia di Ferro, a farne le spese nel 1948 sarà Aurel, fratello del filosofo. Intanto, un anno prima, mentre traduceva in romeno il poeta Stéphane Mallarmé a Dieppe, località della Normandia, Cioran si rese conto che non aveva alcun senso quello che stava facendo. «A cosa serve tradurre Mallarmé in una lingua che nessuno conosce?», e rispondendo a se stesso prese una decisione: «Devi rinunciare alla tua lingua madre». È questo il momento conclusivo della svolta, una svolta che tuttavia guarda indietro, riportando il pensatore alle posizioni, ora radicalizzate, della sua prima opera. Egli stesso parlerà dell’evoluzione del suo pensiero, che evoluzione non è, come un superfluo percorso di verifica.
Egli adotta perlopiù l’aforisma come modalità di scrittura, spiegando che il suo non è un vero e proprio aforisma, ma il risultato di uno svolgimento di un pensiero di cui si è salvata soltanto la conclusione, dopo aver cancellato l’intera pagina. Il frammento permette, a differenza della rigidità del sistema, una certa libertà e smorza sul nascere la possibile creazione di una dottrina. Il vantaggio dell’aforisma è che esso non ha bisogno di fornire prove ed essendo frutto di sensazioni temporanee giustifica anche eventuali contraddizioni: «Si tira un aforisma come si tira uno schiaffo». Dunque, mentre un frammento è capace, nella sua flessibilità, di esprimere tutti gli aspetti dell’esperienza, il sistema totalitario esprime, nella sua rigidità, soltanto la voce del «controllore».
La prima opera pubblicata in lingua francese sarà il Sommario ["précis"] di decomposizione, testo che riscriverà più volte, e nel quale non a caso il primo paragrafo si intitolerà: Généalogie du fanatisme. Cioran necessita di lasciarsi alle spalle quello che è stato «l’apice negativo» della sua esistenza, ma, nonostante le chiare evidenze testuali, critici e inquisitori vari alimenteranno per il resto dei suoi giorni – ma ancora oggi – una cultura del sospetto sulle sue presunte preferenze politiche. Equivoci che centodieci anni dopo, trovano il favore di una sinistra dogmatica e di una destra che sembra ignorare gran parte della produzione letteraria ed epistolare dell’autore. In una lettera spedita al fratello soprannominato Relu, egli scriverà, con un velo di amara ironia, che uno scrittore che ha combinato guai da giovane è come una donna dal passato indecente, gli verrà sempre fatto pesare quello che è stato. Il Privatdenker lontano dagli ambienti accademici, dalla vita pubblica e sconosciuto ai più, continuerà a scrivere e a pubblicare, nel 1952 esce Sillogismi dell’amarezza, testo che seppur molti anni dopo, lo farà conoscere ai lettori di tutto il mondo.
Agli inizi e alla fine degli anni ’60, Cioran pubblica due testi fondamentali: Storia e utopia e Il funesto demiurgo. Quando un individuo crede di essersi allontanato dalla religione, rimane comunque fatalmente assoggettato al suo naturale e probabilmente ineliminabile sentimento religioso, per effetto del quale, sostiene Cioran, egli crea «simulacri di dèi» che si precipita ad adorare. Proprio quest’indole di venerazione è responsabile di tutti i crimini dell’essere umano: «chi ama indebitamente un dio costringe gli altri ad amarlo» ed è pronto a sterminare coloro i quali si rifiutano di inchinarsi dinanzi alla sfilata di questi «falsi Assoluti». In ogni uomo «sonnecchia un profeta» e ogni qualvolta che quest’ultimo si risveglia, compare un nuovo male nel mondo. Ogni uomo, «dagli spazzini agli snob», prodiga la sua generosità criminale dispensando ricette di felicità. L’abbondanza di queste soluzioni è solo un’ennesima prova della loro futilità. Se avessimo il giusto senso della nostra posizione nel mondo, se confrontare fosse inseparabile dal vivere, scrive Cioran, la rivelazione della nostra infima presenza ci schiaccerebbe. Vivere però significa ingannarsi sulle proprie dimensioni. Chi mai, si chiede retoricamente il filosofo, avendo la visione della propria nullità si ergerebbe a salvatore? Tutti dovrebbero andare a lezione dagli antichi sofisti per apprendere l’arte del relativismo. L’utopia è figlia della promessa tradita della vita eterna, le ideologie sono soltanto un surrogato delle religioni, dalle quali hanno ereditato i peggiori vizi. Pertanto, è lecito considerare malvagia ogni tipo di società, ricordando che l’umanità, così come credeva la setta eretica dei bogomili, è frutto della creazione di un dio tarato.
Con il passare degli anni, la produzione letteraria di Cioran calerà notevolmente, nonostante lo scrivere sia per lui un Ultimatum all’esistenza, per citare una delle ultime raccolte di interviste e conversazioni pubblicate in Italia. Egli trovò nella scrittura una pratica auto-terapeutica capace di attenuare le proprie ossessioni, l’unica attività che gli ha permesso di evitare il suicidio: «Non credo alla letteratura, credo soltanto ai libri che traducono lo stato d’animo di chi scrive, il bisogno profondo di sbarazzarsi di qualche cosa. Ogni mio scritto è una vittoria sullo sconforto. I miei libri hanno molti difetti, ma non sono fabbricati, sono veramente scritti a caldo: invece di schiaffeggiare qualcuno scrivo qualcosa di violento. Dunque non si tratta di letteratura, ma di terapia frammentaria: sono delle vendette. I miei libri sono frasi scritte per me o contro qualcuno, per non agire. Atti mancati».
L’ultimo Cioran si concentrerà, appunto, sui temi quali la nascita e il suicidio. In tanti, attaccheranno Cioran per aver fatto l’apologia del suicidio e non essersi suicidato. Ma il suicidio non serve a niente, poiché è incapace di restituirci «la dolcezza prima della nascita». Il suicidio è un atto inconcludente per il fatto che non è in grado di risolvere la tragedia della nascita, che è la vera tragedia, così come aveva intuito il Buddha e non Cristo. Ciò che invece risulta utile è «l’idea del suicidio», ovvero la certezza che ogni individuo possa mettere fine alla sua esistenza in qualsiasi momento. Eppure, prima di spegnersi definitivamente il 20 giugno del 1995, logorato dall’Alzheimer e da altre patologie, Cioran implorerà a lungo l’abbraccio della morte con cui aveva danzato per tutto il corso della sua vita.
FRIEDGARD THOMA
Annalena Benini, L'indispensabile maledizione di un amore senile, la punizione della carne. Emil e Friedgard, Il Foglio, 11 aprile 2015
Quando Cioran incontrò a Parigi Friedgard Thoma, nella primavera del 1981, lei indossava un abito nero “non troppo corto” e aveva deciso di piacergli. Gli aveva scritto una lettera in tedesco, pochi mesi prima, da lettrice entusiasta e diffidente: gli disse che, a differenza del resto del mondo, non lo trovava affatto distruttivo. Lui le rispose in fretta e lei ne fu felice, lusingata, eccitata, e allegò alla nuova lettera una sua foto (“al mio solito modo, frivolo ma piuttosto vanitoso”) per mostrargli chi era: una giovane donna attraente, non soltanto una insegnante di Filosofia e Letteratura folgorata dalla lettura de “L’inconveniente di essere nato”. Lui aveva settantadue anni, lei trentasei, lei voleva incontrare “una delle più grandi menti di Parigi” e forse aveva anche progettato di farlo innamorare, di portare scompiglio dentro quello scetticismo, di giocare con la seduzione non solo intellettuale verso l’uomo che aveva per tutta la vita riso dell’amore e dell’insensatezza della vita. Parlavano di suicidio, di solitudine, di ozio disperato, e intanto ridevano, bevevano vino, lui la prendeva sottobraccio, passeggiavano per Parigi di notte, cucinavano insieme. Fu una tale tempesta che Cioran arrivò a scriverle, quella stessa estate: “Lei è diventata il centro della mia vita, la dea di uno che non crede in nulla, la più grande felicità e sventura che mi sia capitata. (…) Dopo che per lunghi anni ho parlato con sarcasmo di tali… cose come l’amore (e simili) dovrei essere punito in qualche modo, e lo sono, ma non importa. Il fallimento è il punto capitale del mio programma”. Friedgard ce l’aveva fatta: con la vitalità della giovinezza, con le gambe lunghe e i vestiti leggeri era entrata nella vita di un uomo che considerava un dio, ne aveva ottenuto la capitolazione amorosa, possedeva perfino le prove scritte di quel corteggiamento disperato che aveva deciso di rifiutare. Diventando “l’indispensabile maledizione” di Cioran, era infine diventata qualcuno. Friedgard Thoma ha raccontato questa storia d’amore (senza amore fisico, i baci solo sulle mani) in un libro intitolato “Per nulla al mondo, un amore di Cioran” (pubblicato in Italia da L’orecchio di Van Gogh qualche anno fa), in cui ha raccolto le lettere, ha infilato fiera le foto di loro due ai giardini del Luxembourg, il tavolo di Cioran nella mansarda a Parigi, i bigliettini che lui le mandava, e una foto triste di lui che le prende la mano, negli ultimi anni. Lui si aggrappa a lei come ci si aggrappa alla vita che sfugge, lei gli sorride.
La prima lettera che Cioran scrisse dopo quel primo incontro a Parigi, la domenica di Pasqua, era già esplicita: “Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a Lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna. Come possono essere letali certe cose” e anche “In genere non provo alcuna attrazione sessuale per le donne per cui provo un’affinità intellettuale. Parlerei volentieri del Lenz con lei a letto”. Lei civettava, gli scriveva che sentiva la sua mancanza, gli proponeva di incontrarsi a Colonia, dove viveva e lavorava, lo supplicava di non telefonarle troppo raramente (“il telefono è l’unico modo per attenuare la ‘catastrofe naturale’ in cui sono coinvolta insieme a lei”). Parlavano della solitudine di lui (che pure viveva con sua moglie, Simone Boué), dell’abitudine a bere tisane la sera, dell’affitto troppo caro, di Ionesco e di quella “perversa attrazione” che Cioran provava per il corpo di lei, della gelosia che gli causava saperla a letto con un altro uomo, quando le telefonava la mattina presto. Lei voleva tutto: le parole, l’amore, la devozione, la presenza, l’ironia, i libri, gli aforismi e le passeggiate, voleva essere la donna che lui amava intensamente, ma non voleva che le si avvicinasse troppo. Nel mese di maggio Cioran andò “improvvisamente”, scrive Friedgard, a Colonia da lei. Ma non era un viaggio improvvisato, era la risposta a una lunga serie di inviti, di richieste e anche di dichiarazioni d’amore senz’altro sincero (“La prego di considerarmi la persona che l’ama, qualunque cosa s’intenda; quella che ha bisogno di più tempo (ci siamo visti solo un pomeriggio e due sere), più lenta e ponderata quando si tratta di infrangere certe soglie”). Andò a prenderlo alla stazione vestita di rosso e di nero, dopo avere ascoltato il quintetto d’archi in Do maggiore di Schubert, e lo ospitò nel suo appartamento. Notò che, nonostante predicasse da sempre l’insonnia (“L’unica forma di eroismo compatibile con il letto”), Cioran dormì piuttosto bene. Lui cercò di starle il più vicino possibile, pianse sulla riva del lago, e infine le scrisse, dal treno che lo riportava a Parigi: “Ho recitato troppo a lungo la commedia della saggezza”.
Era una disfatta, il tumulto del cuore, perfino un’autoridicolizzazione a cui Friedgard rispondeva compassionevole e adorante ma insieme sprezzante: “Dunque, caro: Lei mi ha trascinato nell’immediatezza inequivocabile di una relazione fisica, mentre io cercavo l’erotica ambiguità della relazione ‘intellettuale’”. Cioran non era più scettico, leggero, distaccato, non era più Cioran: era ossessionato da una donna che non voleva lasciarsi toccare da lui. “Sento che tra noi qualcosa si è rotto. Resteremo certamente amici, ma l’ambiguità, il torbido, spariranno irrimediabilmente. Poiché il nostro secondo incontro ha sortito un esito simile, non posso più farmi illusioni su quelli futuri”. Friedgard gli aveva detto, nella sostanza, e con gentili artifici: tu sei vecchio e io sono giovane. Non posso amarti come tu mi ami. E lui aveva perduto il distacco, lo scetticismo, la sua disperazione adesso era diversa, era la disperazione per un rifiuto. “La fortuna di esser cinico mi ha abbandonato, da che l’ho conosciuta”. Durante il loro terzo incontro, a Parigi, sospeso tra ossessione e leggerezza, le scrisse su un tovagliolo la frase di Colette, “Pour rien au monde”, per niente al mondo avrebbe rinunciato a lei. E così è stato fino alla fine, tra gelosia, nostalgia, slanci e altre lacrime, e con lei che gli scriveva: “Oh, se non ci fossero le cosce, ma solo le mani”.
UNA FAMOSA STRONCATURA
John Updike, Un monaco mancato, "A Monk Manqué",
12 maggio 1975, The New Yorker, ristampato in Hugging the Shore,1983
Nessuno dei rivali e dei critici di Cioran ha pensato di considerarlo come uno scrittore che, come altri scrittori, abbia il dovere di essere interessante né lo rimprovera che compie questo dovere in modo davvero sinistro. Benché erudito ed intellettuale all’estremo, non è tanto un pensatore quanto un posatore che inanella una serie di modi, di pose davanti a noi senza quel desiderio, tipico dei filosofi, volto a dirigere le nostre azioni e le nostre attitudini. È un intrattenitore, se diamo per assodato che l’esibizione compulsiva delle proprie ferite psichiche abbia qualcosa di interessante. Figlio di prete ortodosso, Cioran è innamorato e senza speranze del Cristianesimo – insaziabilmente arrabbiato col Cristianesimo. Viene dalla terra di Dracula e cerca le sale gotiche della storia, si trova claustrofobicamente a casa sua dentro l’orrore, il dolore, la negazione di sé, la rabbia. Che benedizione affamata è quella che spalanca le sue fauci sul collo del bene! Il lato oscuro di Cioran ha però un risvolto positivo, vale a dire una genuina ammirazione per la vita monastica, specialmente nei suoi aspetti [morbosi]. (…)
I suoi saggi, con la vastità di riferimenti – sa tutto per non dirci niente – sono un genere di rammemoramento agonizzante fatto dall’interno vacuo della ‘civiltà incapace di respirare’ che lo circonda. Non è mera arroganza ma volontà tesa a umiliare, vuole lo spopolamento che lo porta alla sua sistematica abolizione dei nomi dei contemporanei, e dice perciò “qualche teologo” o – per dire de Gaulle – “il meno insignificante degli uomini moderni”. Ma l’assenza, nei suoi dibattiti elettrizzati coi fantasmi, di nomi viventi enfatizza la mancanza di ogni altro incontro che non sarà mai possibile, e nemmeno a forzare le cose il suo pensiero verrà mai domato dal confronto, da avversari all’altezza, da alternative che non esistono nella sua danza di idee morte; la sua prosa istrioneggia ed è agitata e spezzettata come le movenze di un vampiro. (…)
Tutti i saggi raccolti nel The new gods (Le mauvais demieurge) si interrompono ogni volta che potrebbero diventare graziosi e fluenti; sembrano, invero, scritti punto per punto, shock dopo shock, una serie di cadenze che vorrebbero passare per melodia. Il frequente ricorso agli asterischi e agli attacchi di nuovi paragrafi tradisce la prospettiva mobilissima di un’intelligenza devota soltanto a se stessa. La migliore sezione di questo libro, la più divertente, concreta e suggestiva della mente vivente di Cioran, è l’ultima – una stringa di aforismi sconnessi intitolata Pensieri strangolati. (…) Reso celebre per un defatigante perfezionismo stilistico, Cioran è quel tipo di intellettuale outsider che Thomas Mann ha descritto nella storia breve Dal Profeta: “l’Io solitario cantava, farneticava, comandava; si perdeva in intricate immagini, sprofondava in un gorgo di sconnessioni e riemergeva, improvviso e pauroso, là dove meno lo si sarebbe aspettato. Le bestemmie si mescolavano agli osanna, l’incenso ai vapori di sangue; e in tonitruanti battaglie veniva conquistato e redento il mondo…”.
Ora, benché i suoi sponsor americani ce lo passino come filosofo, a Cioran difetta almeno la metà di quel che la parola greca suggerisce: amare il sapere. Saggezza senza amore è sofisticheria. Leggete subito un altro scrittore di frammenti che sia nervoso e dubitante, uno come Wittgenstein – a Cioran mancano spaventosamente due qualità di pensiero che l’austriaco possiede. Sono gentilezza e serietà. Non desidera farci rinascere dalle nostre ire per mezzo della chiarificazione; non desidera, diversamente da Nietzsche e Kierkegaard, infiammare la nostra rabbia sino al punto critico per poi curarla. Desidera darci soltanto, col suo agile e sinistro zampettare ragnesco tra le complessità delle nostre vicende attuali, dei frissons – ecco la sua parola favorita, i brividi. E i mezzi sembrano sproporzionati rispetto ai fini.
John Updike
*traduzione di Andrea Bianchi. Il passo di Mann è cavato dai Racconti ed. Mondadori 1978
https://www.treccani.it/enciclopedia/emile-cioran_(Enciclopedia-Italiana)/
https://www.rsi.ch/cultura/letteratura/Emil-Cioran-un-Don-Chisciotte-cinico--2179281.html
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