lunedì 28 ottobre 2024

Dove va la storia




Le Monde des livres pubblica questa settimana due schede su libri che hanno per tema il senso della storia. Qualcosa che sembra comportare il riferimento a una più generale filosofia della storia e che oggi viene per lo più vista come l'oggetto di una vana speculazione. Stando, infatti, a una ormai classica opera di Karl Löwith, la filosofia della storia in tutte le sue accezioni non si dà, non è in  grado di assumere una forma razionalmente accettabile. Naturalmente delle speculazioni in materia esistono e continuano a circolare dando alimento a previsioni tanto generose quanto stravaganti. I libri considerati nella rassegna non pretendono di riproporre chissà quale sviluppo destinato a compiersi in futuro. Il primo dei due ragiona al passato sulla caduta della fede nel progresso e non va molto oltre. Il secondo, di un filosofo che fu uno tra i seguaci di Althusser, assume la forma di un testo letterario e punta tutto sul mantenimento di un orizzonte, senza nulla promettere quanto all'approdo finale in un universo di redenzione o di salvezza. 

Florian Larminach, « Histoire de “la fin de l’histoire”. Une enquête philosophique »,
PUF, 298 p.
  

La pubblicazione nel 1992 di La fine della storia e l'ultimo uomo, di Francis Fukuyama (Flammarion),
ebbe un tale impatto che molti attribuirono la paternità di questa espressione al ricercatore americano. 
Tuttavia con lui visse la sua “apoteosi”, scrive Florian Larminach, se non il canto del cigno, dopo due
secoli di teorizzazioni successive, da Kant a Fukuyama, passando per Marx, Comte e Kojève. È questo
lento viaggio che il filosofo ripercorre, ricordando che interessarsi alla “fine della storia” equivale a 
chiedersi cosa resta dell’idea che essa avrebbe un significato – altrimenti è difficile vedere come 
finirebbe per trovare la sua destinazione. Il che rende questo lavoro colto e preciso un'indagine sull'idea
di progresso, e sulla sua cancellazione, al centro di una storia che forse ora dovrà fare a meno di una 
fine, vale a dire di una meta. (Florent Georgesco)
Jacques Rancière, « Au loin la liberté. Essai sur Tchekhov », La Fabrique, 128 p.
Cosa può fare la letteratura di fronte alla questione del senso della storia? Non creando 
personaggi che fungessero da "portavoce" delle erudite profezie dello scrittore, dimostra
Jacques Rancière in questo breve e brillante saggio sulla politica della letteratura, basato
su un'attenta lettura dei racconti di Anton Cechov (1860 -1904). Dispiegata tra l'abolizione
della servitù della gleba e il periodo dei sollevamenti rivoluzionari, l'opera del russo funge
qui da spazio in cui leggere, anche nei movimenti contraddittori dei suoi personaggi, le 
condizioni di una libertà che non potrà mai essere promessa. Compito dello scrittore, scrive
Rancière, è quello di inserire “lo strappo della libertà lontana nel tempo della servitù”Prospettiva modesta ma preziosa, mostra il filosofo, perché riesce a mantenere il senso
di una libertà possibile, facendoci “tenere gli occhi aperti sulla sua presenza
in lontananza”. (David Zerbib)

Les nouvelles de Tchekhov présentent les multiples versions d’un simple scénario : quelque chose pourrait arriver. Un jour, au hasard, n’importe où, l’ordinaire du temps de la servitude a été troué par une apparition : la liberté est là, au loin, qui fait signe et indique qu’une autre vie est possible, où l’on sache pourquoi l’on vit. La plupart pourtant se dérobent à l’appel. Ils préfèrent que rien n’arrive. Mais Tchekhov, lui, ne renonce pas. Il s’entête à accompagner ses personnages sur ces bords où leur vie pourrait basculer. De récit en récit, il tisse ce temps mû par la machine implacable de la reproduction, mais qui, de pause en pause et d’accroc en accroc, se déchire et se dédouble en temps d’une liberté pressentie qui se refuse au point final mais reste une possibilité en suspens. On peut appeler cela une politique de la littérature. (presentazione editoriale)

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Karl Löwith, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia,
il Saggiatore, Milano 2010
L’esigenza di attribuire un significato ultimo all’incessante scorrere degli eventi ha condotto il pensiero moderno a individuare nella storia un progresso, uno sviluppo che potesse giustificarne ogni crisi, ogni male e ogni inevitabile dolore. Eppure, molto prima del metodo storiografico di Voltaire o della grande filosofia dello spirito di Hegel, gli storici dell’età classica Erodoto, Tucidide e Polibio avevano già rinunciato a questa monumentale prospettiva. Per il pensiero classico, infatti, le gesta degli uomini seguono il corso dell’eterna ciclicità del cosmo; non il corso della rivoluzione sociale, ma della rivoluzione immutabile degli astri. Fra queste due visioni antitetiche della storia si colloca, secondo Karl Löwith, la prospettiva giudaico-cristiana, che opera una rottura fondamentale: tanto per il credente quanto per il filosofo della storia, il senso degli eventi non è racchiuso nel passato, ma in un futuro escatologico sempre a venire, capace di determinare ogni fatto alla luce di una storia della salvezza, al cui termine è attesa la redenzione. Ma se il primo è in grado di portare la croce, il secondo secolarizza la speranza religiosa nell’incondizionata fede nel progresso, tanto «cristiana nella sua origine» quanto «anti-cristiana nelle sue conseguenze». Accolto fin dalla pubblicazione nel 1949 come un classico della filosofia contemporanea, e riproposto dal Saggiatore per la sua limpida attualità, Significato e fine della storia è l’avvincente archeologia dei presupposti teologici che operano in ogni filosofia della storia, decretandone drammaticamente il fallimento. Uno smascheramento – dall’ebraismo di Marx fino alla lettura storica della Bibbia – che non ha rinunciato a evidenziare quelle rare e amate eccezioni, come Burckhardt e Vico, capaci di mantenere sotto il peso dell’eredità storica una prospettiva più umana, e che porta a una tesi di sconcertante radicalità: l’impossibilità della filosofia della storia. (presentazione editoriale)




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