Claudio Vercelli, Le contraddittorie tinte dei conflitti, il manifesto, 31 agosto 2024
Parlare di eserciti e di guerre può rivelarsi un esercizio ben poco premiante. Non è forse un caso che la storia militare, e più in generale gli studi in materia, in Italia abbiano avuto scarso seguito. A fronte di un numero significativamente ristretto di ricercatori che si sono dedicati all’indagine sull’evoluzione e le trasformazioni dell’istituzione militare, riversando i risultati dei loro lavori sia in ambito accademico che nella pubblicistica, il tema in sé continua ad essere osservato da molti come sostanzialmente estraneo rispetto all’orizzonte della vita comune. Oppure viene banalizzato, semplificato, ricondotto a letture tanto affrettate quanto semplicistiche. La diffidenza, che in alcuni casi si trasforma in aperta ostilità, verso riflessioni sul merito della vita e della morte in divisa, deriva senz’altro da molteplici fattori storici. L’Italia non è un paese il quale nutra in sé maggiori sentimenti pacifisti rispetto al resto del consesso europeo, che resta il vero metro con il quale vanno misurate differenze e analogie di condotta. Tuttavia, nella sua storia più recente, dall’unificazione in poi, proprio sul terreno non propriamente bellico bensì militare in senso più lato, si sono manifestati una serie di nodi che ad oggi rimangono irrisolti. Il primo tra tutti è un debole contratto sociale, ossia una sfiducia reciproca tra ordinamenti istituzionali e cittadinanza, quindi tra pubbliche amministrazioni e individui privati.
SE LA DIFESA CON LE ARMI del perimetro comune conosciuto come «Patria», al netto di qualsiasi considerazione etica di principio, per la nostra Costituzione è «sacro dovere del cittadino», la considerazione che le Forze armate hanno raccolto ha spesso polarizzato l’opinione pubblica. Nel pensiero conservatore è stata tematizzata, sotto il velo di richiami a idealità e sentimenti più o meno «nobili», come uno strumento per governare parte dei mutamenti che hanno attraversato la società italiana dall’Unità in poi.
Di fatto, per questo campo politico e ideologico tutto ciò che ruota intorno al ricorso alla funzione militare è stato inteso come uno strumento di disciplinamento delle classi sociali. Un tale approccio, ad oggi è ancora saldamente presente nei ritualismi, nelle iconografie, nei linguaggi e nei mitologemi che si accompagnano alle destre, costituzionali e non, quand’esse tematizzano lo spazio pubblico come un territorio da gerarchizzare. Speculare a tale approccio, ancorché inverso, è quello che, nel nome dell’inclusione e della progressiva estensione del campo dei diritti, ha sviluppato perplessità, e poi aperto sospetto, verso gli apparati ai quali è consentito il legittimo ricorso alla forza. In ciò ha letto, e continua a leggere, la perversione del principio di autorità in autoritarismo. Peraltro, l’internazionalismo si è sempre presentato come l’opposto dei nazionalismi. Ciò facendo, ha sostituito alla chiamata alla leva la chiamata alle armi del «popolo» intero.
Un secondo nodo è quello della concreta storia degli italiani, dove il fantasma della guerra, ossia di una violenza istituzionale di massa finalizzata politicamente, ha accompagnato quasi tutte le generazioni, quanto meno fino al 1945. Il ripudio del ricorso ad essa, sancito nella Costituzione, se ha un valore programmatico, tuttavia non impedisce che, nel quadro del persistente mutamento geopolitico, concretamente le cose siano in più occasioni andate diversamente.
LA PROFESSIONALIZZAZIONE delle forze armate, in un contesto europeo e all’interno di una rete di accordi istituzionali vincolanti, spinge da tempo in tale senso, con missioni di guerra variamente giustificate. Di certo, l’esperienza bellica non è più affidata ad un esercito di massa bensì ad un insieme di reparti la cui stessa ragione d’essere riposa nel costituire segmenti separati dall’ambito civile. Al quale pure debbono rispondere, ancora più di quanto non avvenisse nel passato, attraverso la mediazione politico-istituzionale. La storica funzione di strumenti nella gestione dell’ordine pubblico interno, peraltro, si è fortemente allentata, mutando peraltro la natura stessa dei conflitti sociali all’interno dei quali le forse armate erano chiamate ad intervenire in funzione repressiva. All’idea di una guerra «gloriosa», fatta di grandi campi di battaglia e sacrifici collettivi, si è progressivamente sostituita quella – non importa quanto in sé illusoria – di un intervento chirurgico il cui principale obiettivo è quello di tenere fuori dai confini nazionali la violenza bellica. Le analogie con il modello statunitense meriterebbero forse di essere maggiormente colte e quindi analizzate, soprattutto dal momento che questa impostazione incentiva il passaggio della nostre società da sistemi di Welfare inclusivo a circuiti dove è maggiormente presente il peso del Warfare, inteso non tanto come stato di guerra permanente quanto come orizzonte di impegno economico. Un terzo elemento critico è il rapporto con il pacifismo, qui inteso non tanto come una dottrina organica che tematizza la negoziazione dei conflitti prescindendo dal ricorso alla violenza bellica quanto come sentimento tanto diffuso quanto dai tratti generici e, spesso, assai contraddittori.
COME TALE, capace di tenere insieme il rifiuto della guerra (in casa propria) insieme ad una rinnovata fiducia verso le istituzioni militari, oggi più che mai vissute come organismi professionali garanti, ancora più che della sicurezza fisica collettiva, senz’altro di una altrimenti irrisolta idea di unità nazionale. A fronte dell’abituale esercizio di auto-discredito, molti italiani sembrano confidare, assegnandogli un ruolo quasi taumaturgico, nei corpi armati dello Stato.
In tutta plausibilità, questo comune sentire è il prodotto anche di una profonda e lunghissima depoliticizzazione della società, laddove la delega diventa il principio al quale ancorarsi a fronte di una diffusa decadenza dello spirito critico. Il profilo istituzionale che è innervato negli apparati che hanno in delega l’esercizio del monopolio della forza, sembra in tal senso offrire una sorta di rassicurante orizzonte. Marco Mondini con un titolo di per sé programmatico, Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e morire in Italia 1861 – 2023 (il Mulino, pp. 402, euro 25) affronta, con un affresco corposo, centocinquant’anni di vicende nazionali. Il volume, firmato da uno dei pochi storici militari di nuova generazione presenti nell’accademia italiana, è un excursus sul rapporto tra società italiana, istituzione militare, esperienze belliche, raffigurazioni ideologiche e istituzioni collettive.
NON È UNA STORIA delle forze armate italiane. Ovvero, non si ferma a questo quadro di riferimento. Semmai è un repertorio degli ondivaghi rapporti tra società civile ed esercito fino agli anni più recenti. L’urgenza di queste riflessioni nasce dal titolo medesimo. Poiché la guerra sta tornando ad essere una prospettiva europea. In sette capitoli, più un epilogo, Mondini traccia in filigrana la traiettoria del sodalizio militare all’interno di un paese dalle memorie irrisolte. Ne emergono alcuni tratti fondamentali: le complesse relazioni tra classi dirigenti e ceti subalterni; le irrisolte conflittualità tra militari e politici e le diverse concezioni non solo del «fare la guerra» ma anche del mantenere la pace; il frazionamento e le competizioni intestine tra forze armate; così come la rielaborazione e la ricezione popolare del ricordo delle guerre attraverso le sensibilità delle diverse generazioni; la selettività delle memorie medesime e quant’altro. Ne emerge un ritratto a tinte mutevoli. L’intelligenza dello studioso evita il grande numero di luoghi comuni e di stereotipi che si accompagnano a questo come ad altri discorsi.
Il tono di fondo è quello che àncora ad un robusto disincanto, privo di qualsiasi omaggio a retoriche di parte (che siano apologetiche o detrattive) un oggetto di analisi – la vita e la morte all’ombra delle guerre, più che gli eserciti come tali – che invece è quasi sempre filtrato attraverso appartenenze ideologiche o identità precostituite. La linea di non ritorno, in fondo, è stata dettata una volta per sempre dal 2022, quando la faglia del conflitto russo-ucraino ha imposto ai paesi dell’Europa occidentale di considerare come il tempo della lunga pace, inauguratasi quasi ottant’anni prima, si stia definitivamente concludendo.
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