Giulio Silvano, Il Foglio, 9 ottobre 2024
Georges Simenon, Malempin, Adelphi, Milano 2024
Edouard Malempin è un dottore ed è pronto, con la sua nuova auto fiammante, a partire per le ferie estive nel sud della Francia. Sbrigate le ultime faccende in ospedale, salutata una giovane paziente che non pensa di rivedere al suo ritorno – a cui regala una bambola – passa da casa per preparare i bagagli e prendere moglie e figlio. Ma all’arrivo nell’appartamento parigino scopre che il figlio minore, il piccolo e fragile Bilot, di otto anni, è malato. C’è una scena strappalacrime in cui Malempin cerca di non pensare al manuale delle malattie infettive aperto sul mobile nella cameretta del ragazzino, cerca di non far coincidere quello che sta succedendo al figlio con la descrizione della malattia mortale scritta sul libro. Vegliando con dolore per giorni nella cameretta, uscendo solo per rimpinzarsi di cibo come un animale, mangiando cosce di pollo davanti al frigo aperto, Malempin fa un viaggio mentale. Ritorna alla sua infanzia, a dei giorni particolari, precisi, di cui cerca di ricostruire le dinamiche usando quei poveri dettagli che per un motivo o per l’altro gli sono rimasti impressi. Sono le giornate di lui ragazzino nella fattoria di famiglia, e le visite a zii strani ma ricchi. Rivive le atmosfere e le sensazioni, cercando di sbrogliare i fili che hanno portato ad alcune decisioni sofferte, ad alcune dinamiche che lo hanno fatto arrivare lì. Simenon, sempre così bravo a raccontare lo squallore degli adulti, qui ritorna bambino, e lo sguardo del bambino verso gli adulti è ancora più tagliente. “Si possono vivere da bambino momenti di intorpidimento?”, si chiede. Ricordi che si “fa di tutto per dimenticarli”. I soldi, come sempre, al centro di molte diatribe.
Malempin non è il classico romanzo duro – cioè i non Maigret – del prolificissimo belga. Malempin è una delle opere più proustiane di Georges Simenon. Se, come forse diceva André Gide, Simenon è Balzac senza la lunghezza, qui Simenon è pure un po’ Proust, anche qui senza la lunghezza. Non coricato di buonora, come Marcel, ma “impressioni sgradevoli di ricordi diffusi e penosi, che mi ritornano in mente a intervalli regolari, nei momenti di semincoscienza, quando mi corico con lo stomaco troppo pieno”, oppure quando si eccede col bere. Indigestione come portale per la sua Combray. C’è anche una madeleine, nella forma del più popolare del pane imburrato con in mezzo il cioccolato (non tutti siamo cresciuti nell’ottavo arrondissement). C’è anche il lessico famigliare, il “vocabolario Malempin” che lui ricorda, ci sono gli odori della cucina, del fieno, che mai risentirà nella vita e che restano ancora lì, dopo decenni, nelle narici, o il seno di una zia accudente o il rumore del cavallo nella stalla mentre ci si sveglia al mattino. “Se solo potessi rivivere con gli occhi e le orecchie di oggi una di quelle domeniche!…”.
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