lunedì 18 maggio 2015

Tutti gli uomini del Califfo

Guido Olimpio
Eredi di Osama, orfani di Saddam, ecco tutti gli uomini del Califfo
Luogotenenti, governatori, capi militari: la struttura dell’Isis, diffusa e in parte nascosta

Corriere della Sera, 18 maggio 2015

Se Al Baghdadi morisse, il turbante nero di Califfo passerebbe ad Abu Alaa Al Afri, un turkmeno che combina esperienza islamica, carisma e doti militari. Ci sono poi due veterani: l’ex qaedista Abdullah Alani, 51 anni, e Younis Al Mashdani, che discende addirittura dal Profeta. Ma la regola dell’Isis è andare oltre i leader, per sopravvivere all’eventuale scomparsa di emiri e quadri.

WASHINGTON La regola numero uno per l’Isis è andare oltre i leader. Il movimento deve sopravvivere all’eventuale scomparsa di emiri e quadri. Obiettivo scontato ma anche figlio dell’origine dello Stato Islamico, realtà dove sono confluiti gli eredi di al Zarqawi, gli adoratori di Osama, i nostalgici di Saddam riconvertitisi in jihadisti. Ossia tutti orfani dei loro padri politici. Ed allora chi ha aiutato il Califfo a rimettere in piedi l’organizzazione ha pensato ad una struttura orizzontale diffusa e segreta. A prepararla — secondo lo Spiegel — Haji Bakr, ex agente dell’intelligence baathista. Dunque responsabili con buona autonomia, dirigenti militari flessibili e il budget per sostenere localmente i «governatorati». Quindi il Consiglio, organismi minori e i capi dipartimento. A tenerli uniti il giuramento, il bayat. A Mosul come in Cirenaica, in Nigeria come in Afghanistan, punti geografici dove agiscono i federati dell’Isis.
Questo spiega perché Abu Bakr Al Baghdadi — in piena forma o ferito che sia — possa andare avanti con il piano. Se cade qualcuno, ecco un altro mujahed pronto a prenderne il posto. In questi mesi il Califfo ha visto morire molti dei suoi uomini, come il famoso al Turkmeni, un ufficiale saddamista, o due giorni fa il meno noto Abu Sayyaf, il contabile. La macchina bellica ne ha sofferto, ha dovuto ammettere la sconfitta su alcuni fronti ma è poi ripartita su altri. Ramadi ne è la prova.
La leadership è protetta da un’area grigia, una cortina per non dare troppi vantaggi ai tanti avversari. Si dice che nel caso Al Baghdadi dovesse morire, il turbante nero passerebbe ad Abu Alaa Al Afri, il turkmeno che combina esperienza islamica, carisma e doti militari. Non è il solo. Gli esperti fanno i nomi di due veterani: l’ex qaedista Abdullah Alani, 51 anni, con alle spalle dieci anni di conflitto e Younis Al Mashdani, 55 anni, background religioso, cresciuto in una famiglia che discende dal Profeta. Sono considerati importanti alcuni militanti molto vicini al Califfo. Il saudita Badr Al Shaalan, Turki Al Benali e due iracheni, Osman Al Nazeh e Abu Ali Al Anbari. Quest’ultimo è un personaggio: nato nella regione di Ninive, ha militato nell’esercito del raìs, è ritenuto uno stratega e spesso definito il numero due.
L’ala militare è incarnata da elementi forgiati da tante battaglie. Abu Suleiman al Naser è un altro uscito dal campo di prigionia di Camp Bucca, una sorta di università frequentata da quasi tutti gli alti esponenti dell’Isis. Attualmente avrebbe un ruolo di supervisore su tutte le operazioni, un ministro della guerra. Ha preso il posto di Abu Ayman al Iraqi, eliminato da un raid. Poi tre figure leggendarie per gli insorti: Abu Omar Al Shishani, Abu Wahib e Abu Ather Al Absi. Il primo è un ex soldato georgiano sbarcato nel conflitto mediorientale. Quando le cose si complicano lo chiamano insieme ai suoi guerriglieri del Caucaso. I «ceceni». Ha coordinato molti assalti a basi ben munite sollevando qualche perplessità sulle tattiche estremamente costose in termini di perdite. Abu Wahib è un ribelle evaso e poi diventato «ufficiale» protagonista di scontri nell’Anbar, il regno iracheno dello Stato Islamico. Al Absi, riferimento per tante reclute europee, si è imposto nella regione di Aleppo, dove è l’uomo di fiducia del Califfo.
Missioni speciali per Tareq Al Harzi. Tunisino, ha organizzato il network che deve fornire gli attentatori suicidi, la vera carne da cannone. All’inizio li hanno usati per fare stragi a Bagdad e in altre città, quindi li hanno elevati ad arma di distruzione per demolire le postazioni governative. Tecnica efficace unita a mostruosi mezzi-bomba, riempiti di tonnellate d’esplosivo.
Infine la voce. Abu Mohammed Al Adnani, siriano di 38 anni, è lo speaker dello Stato Islamico. Il suo sentiero è simile a quello di tanti compagni. Catturato, è rimasto in cella fino al 2010, quindi è tornato alla Jihad. A partire dall’estate 2014 ha diffuso alcuni messaggi via web, invitando i lupi solitari a colpire all’interno dei Paesi occidentali. Gli Usa hanno risposto mettendo una taglia di 5 milioni di dollari sulla sua testa. Sperano che qualcuno parli per farlo tacere per sempre.


sabato 16 maggio 2015

Dio ci salvi da Zag


Guido Vitiello
Liberi servi
La paura di leggere Il Grande Inquisitore di Zagrebelsky e la voglia di fare come Kirillov: pum!
Il Foglio, 15 maggio 2015






Un giorno sulla Prospettiva Nevskij, per caso vi incontrai Gustavo Zagrebelsky (d’accordo, pagherò le royalty a Battiato, ma la tentazione era troppo forte). E insomma, il professore dalla voce chioccia e dalle antiche origini pietroburghesi ha scritto un libro su Dostoevskij, “Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere” (Einaudi). Confesso, ho paura di leggerlo. Lo adocchio da giorni in libreria, ci giro intorno, lo soppeso, lo sfoglio, quel piccolo inquisitore del commesso non mi leva gli occhi di dosso perché devo aver l’aria di un taccheggiatore, ma alla fine lo lascio lì.
Ho paura perché sono un tipo irascibile, e avvampare senza necessità non fa bene all’anima, lo insegna Zagrebelsky proprio in questo libro: solo “quando la calma tra dentro e fuori dell’essere entra in noi” possiamo avere “speranza di ‘salvazione’”. E quindi devo stare attento, perché la mia calma ha già rischiato brutto leggendo la recensione di Vito Mancuso. Quando una firma di Repubblica parla su Repubblica del libro di un’altra firma di Repubblica è sempre una specie di potlatch amerindio, uno scambio rituale di elogi iperbolici che lascia ammutolito l’etnologo. Stavolta, per dirne una, il libro è accostato alle “Variazioni Goldberg” e il suo autore è collocato tra Berdjaev e Mann. Ho paura anche perché quando uno come Dostoevskij finisce nelle mani dei liberi e giusti, gente che ha l’orizzonte morale di un parroco di campagna senza neppure il conforto della fede, ne possono venir fuori cose grottesche. Qualche anno fa toccò a Gherardo Colombo cimentarsi con quelle terribili pagine dei Karamazov, in un volumetto Salani intitolato appunto “Il Grande Inquisitore”, e il risultato furono trenta pagine su questo tono (fate un respiro profondo): “Nel mondo della globalizzazione, nel quale i confini hanno sempre minor importanza, dove lo Stato non è più l’esclusivo detentore del potere e i cittadini sembrano essere progressivamente trasformati in semplici consumatori, il Grande Inquisitore si nasconde dietro il concetto impersonale di mercato, e attraverso la pubblicità influenza non solo gli acquisti ma anche gli stili di vita. Stabilisce cosa è ‘in’ e cosa è ‘out’”. A metà lettura volevo piantarmi una pallottola in testa, come Kirillov. Chissà com’è andata, forse sotto la copertina dei Karamazov gli avevano rifilato “I love shopping” della Kinsella: fatto sta che ho paura per la mia salvazione.
Ho paura perché anche se Zagrebelsky è ben più raffinato di Colombo – per dire, è uno che ammalia Silvia Truzzi del Fatto quotidiano offrendole il tè al gelsomino in una terrazza fiorita, e altre delizie da aristocrazia zarista – è pure lui nel pool anime pulite, e questi qui sappiamo come sono fatti, anche se leggono Kafka o Céline l’ora di educazione civica è dietro l’angolo. Dal Grande Inquisitore Zagrebelsky trae lezioni come questa, che sarebbe parsa un po’ démodée anche in un libro Rusconi del 1971: “La tecnologia e il laboratorio, alimentati dalla finanza, saranno forse la fucina dell’essere umano liberato dalla libertà e programmato per essere docile o aggressivo a seconda delle circostanze. I dodicimila per ogni generazione (cioè gli assistenti dell’Inquisitore) saranno forse questi diafani tecnici in camice bianco che maneggiano provette e denaro”. Ma professore, almeno suoniamoli come si deve i vecchi cari “standards” dell’umanista di provincia che coltiva fantasie cospiratorie sulla stanza dei bottoni! I diafanoidi del laboratorio sono in camice bianco, va bene, ma i banchieri hanno da essere “grigi”, e gli speculatori finanziari al limite “inamidati”. C’è da sperare che, passando dalle provette al denaro e viceversa, i druidi del brave new world di Zagrebelsky si lavino almeno le mani. Le mani pulite sono importanti. Io però ho paura, non lo leggo: ne va della mia salvazione.

mercoledì 13 maggio 2015

Chet Baker, trombettista





Simone Lorenzati
Chet Baker, trombettista e poeta per l'eternità


Il 13 maggio 1988 moriva in un hotel di Amsterdam Chet Baker, uno dei trombettisti jazz più amati nella storia della musica afroamericana (e non solo). Si unì giovanissimo, poco più ventenne, al quartetto di Charlie Parker e da lì incominciò una carriera folgorante segnata però, purtroppo, dalla sua dipendenza dall'eroina. Tra i primi bianchi ad esibirsi nella rivoluzione del be-bop portata proprio dal contraltista Parker, curiosamente si trovò a sostituire altri due trombettisti eccelsi (Dizzy Gillespie e Miles Davis) pur avendo uno stile completamente diverso dal loro. Baker, infatti, suonerà per tutta la carriera in un modo intimista e raccolto, che darà poi origine al cool jazz (altro memorabile esempio è quello del baritonista Gerry Mulligan, col quale Chet suonerà in uno dei primi quartetti senza piano né chitarra). 
Baker è anche noto come cantante, un singer delicato ed introverso (unica la sua versione di My Funny Valentine). Anni di carcere, una vita devastata dalla dipendenza dagli stupefacenti, se non ne offuscarono il talento (“Chet mette due sole note quando altri ne metterebbero venti. Però sono proprio quelle che ti rapiscono” disse di lui il saxofonista astigiano Gianni Basso) tuttavia ne minarono la carriera. 
Dopo una scazzottata, pare con uno spacciatore, si trovò addirittura senza denti e per sopravvivere a fare il benzinaio. Dizzy Gillespie lo riconobbe, gli pagò un dentista e lo rimise in carreggiata. Chet dovette reimparare a suonare la tromba con la dentiera, una cosa inusuale e difficilissima. Eppure la sua poesia non venne meno neanche così. Morì a soli 59 anni cadendo da una finestra di un hotel olandese, sembra sotto l'effetto dell'eroina. “Adoro Chet Baker. Lo amo quando suona, ma quando canta mi sembra un angelo. Un angelo cupo, solitario, pensoso, rancoroso, dolente, ma abbagliante. Usa il cervello, non la voce. Usa l'anima, non la gola. Sono pazza di lui”, disse di lui Mina. Anche 27 anni dopo Chet Baker rimane faccia d'angelo per una infinità di jazzisti.

https://www.youtube.com/watch?v=z4PKzz81m5c

martedì 12 maggio 2015

Ernesto De Martino antropologo

Adriano Favole
Il tarantismo ai margini della magia
Corriere della Sera, 10 maggio 2015














Nel settembre del 1959 Amalia Signorelli consegnò a Ernesto de Martino la sua Appendice a La terra del rimorso. La giovanissima antropologa aveva partecipato a una delle più note missioni etnografiche italiane, quella che avrebbe documentato, attraverso interviste, immagini e registrazioni sonore, il fenomeno del tarantismo. Vittime di crisi esistenziali dovute alla precarietà delle condizioni di vita, i contadini pugliesi cercavano un riscatto attraverso un lungo e complesso rito: «posseduti» dalla taranta (un ragno velenoso il cui morso era ritenuto causa della crisi psicosomatica), essi danzavano accompagnati da gruppi di suonatori. La musica e la danza svolgevano un ruolo catartico, «liberandoli» progressivamente dalle «bestie» che erano in loro. Alla taranta rituale si è poi richiamato negli anni Novanta Eugenio Bennato per fondare il movimento Taranta Power, che ha recuperato in chiave creativa, con grande successo, i ritmi della tradizione.
Dopo aver consegnato il suo contributo a de Martino, Signorelli lo informò che presto si sarebbe sposata andando a vivere a Cosenza. Il severo professore si limitò a dirle freddamente: «Lei è matta!». «Rimasi senza parole, furibonda; e feci ricorso a tutto il mio ideologico moralismo, per convincermi che anche lui era uno di quegli intellettuali che volevano riscattare il Sud d’Italia, però se ne stavano comodamente a Roma».
L’episodio apre il libro di Amalia Signorelli Ernesto de Martino (L’Asino d’oro) che esce a cinquant’anni dalla sua morte. L’incipit in realtà è un trompe l’oeil: il libro non è né una collezione di aneddoti né una presa di distanza dall’autore de Il mondo magico. Dopo aver partecipato alla spedizione nel Salento (1958-59), Signorelli prenderà altre strade di vita e accademiche e tuttavia le lezioni di de Martino segneranno profondamente l’ethos della sua ricerca.
L’obiettivo del volume è fornire una presentazione a tutto tondo del pensiero demartiniano. Non attraverso una rassegna sintetica dei suoi contributi allo studio dei contadini lucani, della morte e del pianto rituale, ma illustrandone il metodo e un’architettura teorica troppo spesso utilizzata in maniera frammentaria e settoriale.
Autore originale e «indisciplinato», incline a percorrere territori di confine, de Martino è stato oggetto di un rinnovato interesse a partire dagli anni Ottanta. È del 1995 il convegno Ernesto de Martino nella cultura europea e sono ancora più recenti le traduzioni dei suoi lavori in francese, inglese e spagnolo.
Il paradosso di de Martino, scrive Signorelli, è che è uno dei pochi antropologi ad aver raggiunto una fama internazionale e un buon grado di popolarità, eppure non è molto studiato, letto e apprezzato da una parte consistente dell’antropologia italiana. Se è vero che non sono mancate al pensiero di de Martino accuse di essere rimasto imbrigliato nelle categorie della «ragione occidentale», limitandosi a mostrare per contrasto la marginalità forzata del mondo magico e atavico dei contadini che «sono nella storia senza sapere di starci», l’affermazione di Signorelli appare eccessiva. Nei lavori degli antropologi italiani la presenza di de Martino è diffusa, anche se — qui concordo con l’autrice — rari sono i libri che tentano una sintesi ampia del suo pensiero.
Secondo Signorelli, l’etnocentrismo critico di de Martino e lo «scandalo dell’incontro etnografico» risultano in assonanza con la sensibilità antropologica contemporanea. Caduta l’idea naturalistica di un’antropologia «scientifica» e classificatoria, l’idea demartiniana secondo cui il «campo» consiste nel mettere in gioco le proprie categorie culturali, cogliendone la parzialità, rimane una lezione fondamentale. Sul piano teorico, nozioni come «angoscia territoriale», «appaesamento», «crisi della presenza» appaiono utili ad affrontare le migrazioni del nostro tempo. In un clima post postmoderno, caratterizzato da un rinnovato bisogno se non di certezze, almeno di conforti teorici, l’antropologia demartiniana, orientata da valori e «impegnata» sul fronte politico, sembrerebbe una eredità ancora in gran parte da valorizzare.

domenica 10 maggio 2015

Croce filosofo riluttante





Matteo Marchesini

Benedetto Croce un secolo fa. Il pensatore «totus nasus»
Nel 1915 scrisse il più autobiografico dei suoi libri dove trionfa il motivo etico dell’operosità contro le ferite della vita

Il Sole24ore, 10 maggio 2015 

Esattamente un secolo fa, poche settimane prima che l’Italia entrasse nella Grande Guerra, Benedetto Croce scrisse di getto il Contributo alla critica di me stesso, oggi disponibile nelle edizioni Adelphi con le note aggiunte a margine nei decenni successivi. Il Contributo, scritto alla soglia dei cinquant’anni, è il pezzo più autobiografico di un filosofo che, come Catullo «voleva essere totus nasus», vorrebbe «essere giudicato tutto pensiero». Si tratta, è vero, di una «autobiografia mentale», o comunque di una vita esemplare; ma per sorprenderci, all’autore basta ritrarsi sdraiato su un sofà mentre rimugina sul suo sistema nascente.
... il lettore non può non sentir salire da queste pagine compatte un involontario umorismo. Perché l’autore, malgrado le dichiarazioni di sobrietà e le ombre che già gli offuscano il panorama, sprizza soddisfazione da tutti i pori. L’insolita nudità del testo evidenzia il rapporto tra le sue compiaciute pose giovesche e la rimozione del lato notturno dell’esistenza: la soluzione genialmente semplificatrice di molte questioni sfiora la tautologia, e ogni domanda fastidiosa è liquidata come un problema mal posto (se «il pensiero vero è semplicemente il pensiero», il pensiero falso è solo «il non-pensiero (…) il non-essere»). Anziché diventare leopardiano, il ragazzo che ha sperimentato sulla sua pelle la crudeltà della Natura cicatrizza le ferite convincendosi che la Storia consiste nel dispiegarsi di una verità ascendente «a claritate in claritatem», ed esibendo il sublime filisteismo goethiano che sarà di Lukács e Thomas Mann.
È questo superiore equilibrio a indisporre i letterati giovani, quelli che in forme più esili hanno reagito come lui al positivismo: il romantico refoulé Cecchi, lo scettico Serra, e il teppista Papini, secondo cui il nuovo maestro d’Italia sogna una nazione «composta di tanti bravi figlioli (…) lettori assidui del Giannettino». Dal clima “decadente” e agitatorio nel quale si muovono questi giovani, il filosofo tiene presto a smarcarsi. Prende le distanze da D’Annunzio, ma anche dall’hegelismo. Eppure, questi distinguo non cancellano alcune affinità cruciali. Cecchi nota che sia l’idealista sia l’imaginifico pongono l’arte sull’infimo gradino della scala intellettuale, e tacciono sulle angosce che derivano all’uomo da un’esistenza sempre incompiuta e da una natura irriducibilmente estranea. Quanto a Hegel, è vero che Croce ne rigetta la mitologia; ma proprio negli anni Dieci fa a sua volta della necessità storica un mostro autorizzato a nutrirsi di corpi umani. In realtà, il culto hegeliano del fatto compiuto e l’arte pura costituiscono gli esiti logici della cultura da cui Croce proviene: perciò, quando il filosofo li rifiuta, appare incoerente con le sue premesse. L’estetica crociana si accorda col detestato Pascoli, non con l’amato Carducci. Quanto alla Storia, l’autore del Contributo ricorda di aver appreso dal suo Marx, sciacquato nell’Arno machiavellico, che ha tutto il diritto di «schiacciare gl’individui». Ma solo nel ventennio diventa evidente, oltre allo iato tra “teoria” e “pratica”, anche la marcia indietro ideale: all’assoluto lirico si affianca allora la funzione civile della letteratura, e lo Stato Leviatano sfuma nell’etica liberale.
A questo proposito, nelle note più tarde, Croce ammette di aver sottovalutato il valore della libertà, e di essere stato poco accorto davanti al fascismo in ascesa. Nel ’15, però, prevale ancora la tendenza a far coincidere intuizione ed espressione, volontà e azione. Come altri pensatori contemporanei, Croce cerca così di superare i dualismi ottocenteschi tra spirito e materia, vita e scienza. Di Hegel lo attrae appunto il suo organicismo; ma gli ripugna la sua brutale omogeneizzazione dei fenomeni. Perciò, nel proprio sistema introduce la dialettica degli opposti, ma si preoccupa che non distrugga i distinti. Vuole tenere insieme il circolo dello Spirito e lo sviluppo dialettico della Storia: Vico e Kant da una parte, Hegel dall’altra. Tuttavia, nell’idealista del primo ’900 vince la giustificazione dell’esistente. Per questo Croce la Storia procede di bene in meglio, e l’irrazionale è appena l’ombra del razionale. Di questa rimozione ci ha dato un’ottima parodia Paolo Vita-Finzi, in un apocrifo crociano dove il pontefice di Palazzo Filomarino, con logica macabra e gioconda, spiega che il male include «germi di bene» come un cannibale «può includere un missionario».
A un passo dalla Grande Guerra, insomma, il filosofo crede ancora che il pensiero possa governare dall’alto la realtà. Appena licenziato il Contributo, fa il suo dovere di suddito in un conflitto a cui non crede, ma evita ogni nazionalismo culturale: all’adesione pratica corrisponde un orgoglioso rifiuto teoretico. È l’abito della distinzione col quale si opporrà sempre alle ideologie che tendono a travolgere tutti gli argini. Ma inutilmente: perché la vocazione del ’900 è appunto quella di cancellare ogni limite, bellico e sofistico. E alla fine Croce ne prenderà atto, trasformando la categoria dell’«utile» nella vitalità «selvatica» che buca le forme dello spirito. Il vecchio filosofo sfiorerà così l’esistenzialismo, ma non farà il passo che l’avrebbe costretto a lasciare del tutto le sponde civili del suo ’800: sensibilissimo alla cronaca, resterà tuttavia convinto di poter incarnare una figura di filosofo ancora classicista.
Questa figura, però, non va confusa con la maschera del pensatore pompier che ci ha proposto tanto ’900, e a cui manca completamente il gusto della concretezza che costituisce la lezione più feconda dello «storicismo assoluto». «La perfezione di un filosofare sta (…) nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia», dice Croce nel Contributo: perciò «l’astrazione è morte». In questo senso, molta fenomenologia si è rivelata assai più astratta dell’idealismo che intendeva superare, perché mancava di un reale intuito ermeneutico di fronte alla vita, ed era dunque destinata a smarrirsi in un farraginoso gergo pragmatistico che predica l’andata «alle cose stesse» ma non la pratica mai. Lo stesso vale per le suggestioni insieme esoteriche e terragne criticate da Croce prima in Gentile e poi in quell’Heidegger che secondo lui disonorava la loro disciplina. Queste filosofie, finte mistiche intimidatorie e velleitarie, confermano la convinzione crociana secondo cui il purus philosophus è un purus asinus. Croce considerava una delle sue maggiori vittorie la ridicolizzazione del Filosofo tutto occupato dall’Essere: e niente infatti testimonia meglio la sua successiva sconfitta della restaurazione di questo mito, in varianti improbabilmente sacerdotali o pedantesche.

venerdì 8 maggio 2015

Recalcati, Le mani della madre

Benedetta Tobagi
Il nostro destino nello sguardo della madre
I mille volti della figura femminile che ci dona la vita nel libro di Massimo Recalcati
Il genitore maschio rappresenta la Legge la donna invece il diritto all’esistenza
Tanti i riferimenti simbolici: da Maria alle due mamme del giudizio di Salomone
 

la Repubblica, 8 maggio 2015

... La maternità porta con sé fantasmi d’onnipotenza, perché il bambino offre spontaneamente «quello che nessun soggetto maschile — salvo forse certi psicotici — è in grado di offrire alla propria compagna», ossia «la sua stessa esistenza, senza riserva». L’amore divorante della madre-coccodrillo di Lacan può essere arginato, da una parte, dalla Legge del Padre, dall’altra, dalla capacità della donna di non auto-annullarsi nel ruolo di genitrice. È pericoloso, per il figlio, quando dietro la smania di diventare madre si cela il bisogno di colmare mancanze di senso e d’autostima.
A partire dal bel saggio Le Matriarche di Catherine Chalier, Recalcati rivisita alcuni topoi religiosi. Le madri del celebre giudizio di Salomone sono due facce sempre presenti, a livello inconscio, nella maternità. Le gravidanze miracolose della vergine Maria (figura non riducibile all’archetipo materno caro al sistema patriarcale, la donna desessualizzata, idealizzata e votata al sacrificio) o della vecchia e sterile Sara sono figura perfetta del fondamento simbolico della maternità come apertura audace e totale all’Altro. Senza quest’apertura, senza una disponibilità autentica, talora persino la fertilità biologica risulta compromessa: Recalcati narra vari casi di sterilità psicogena, superati sciogliendo i nodi (dai lutti non elaborati ai complessi d’inadeguatezza) attraverso l’analisi.
Le storie cliniche non mentono, la maternità è un’esperienza totalizzante che libera, immancabilmente, i fantasmi della psiche, e, talvolta, con essi, angosce profonde: come accade a una paziente anoressica che si sente “invasa”. Se non c’è desiderio autentico, il feto può essere vissuto come un corpo alieno, il neonato come un persecutore spaventoso. L’impatto con la creatura urlante così diversa ed eccedente rispetto al “bambino della notte” (come Silvia Vegetti Finzi definisce il figlio ideale immaginato nell’attesa) è uno choc. «Molti infanticidi — scrive Recalcati — hanno come presupposto un desiderio di maternità e una gravidanza non sufficientemente simbolizzati». E sempre emerge, prepotente, il fantasma della madre della madre: recidere simbolicamente questo legame è la condizione per un accesso positivo alla maternità. Tragico paradosso, la separazione è tanto più difficile quanto più il bisogno d’amore della figlia è stato frustrato. Lacan parla del “cattivo infinito” del ravage (devastazione) da cui scaturisce una recriminazione — dunque un legame — senza fine. Sempre più spesso, constata Recalcati, nello studio analitico entrano madri narcisiste che vivono (o evitano) la maternità come fosse un mero ostacolo, o figlie di queste ultime, devastate da mamme in perenne, subdola competizione

— estetica, umana, professionale — con loro. Eppure sempre e ancora esistono madri capaci di trasmettere un’eredità positiva. Come Selma, l’eroina di Dancer in the dark, commovente cammeo su cui il libro si chiude: una madre innamorata dei musical ma capace del sacrificio estremo, capace di offrire fondamento alla vita e insieme incarnare la Legge paterna temprata dall’amore, capace di donare al figlio ciò che non ha.
 

Il saggio: Le mani della madre, di Massimo Recalcati, Feltrinelli

La fierezza intollerante e oltraggiosa di una islamofobia mascherata

Nicolas Truong
Una critica paradossale delle illusioni dell'11 gennaio
Le Monde, 8 maggio 2015

 
Uno spettro si aggira per la Francia. Quello del "cattolicesimo zombi". Una sopravvivenza dell'impronta cattolica in atteggiamenti che, secondo lo storico e antropologo Emmanuel Todd, spiega in gran parte "l'accesso di isteria" della mobilitazione storica dell'11 gennaio. Una determinazione potente e inconscia che permette, alla rinfusa, di capire "l'islamofobia" delle classi medie, la devozione delle élites europeiste, il disprezzo per gli iloti accusati di "populismo" e anche perché il partito socialista di Francois Hollande è ora "ancorato a destra".
In
Chi è Charlie? Sociologia di una crisi religiosa (Seuil, 252 pagine, 18 €), Emmanuel Todd vuole smontare "l' inganno" della comunione nazionale dell'11 gennaio. Come avevano già ricordato molti osservatori, "una parte della Francia non c'era" in quel giorno memorabile. In una parola, nota oggi Emmanuel Todd, è la Francia delle classi medie superiori che ha manifetato, mentre quella del mondo popolare, dei giovani lavoratori suburbani e provinciali ha disertato l'evento.
L'unanimità politica e mediatica gli fece l'effetto di un "flash totalitario". Nel gennaio del 2015, assicura, "nessuna analisi critica sarebbe stata udibile." Rony Brauman, ex presidente di Medici Senza Frontiere, contestava pur sempre nelle nostre colonne "la retorica di intimidazione morale" spiegando che cosa gli aveva impedito di entrare nel corteo (
Le Monde, 16 gennaio), mentre il filosofo Alain Badiou derideva questa ingiunzione a manifestare, "Ci mancava solo che Manuel Valls prevedesse di imprigionare gli assenti", ha scritto (Le Monde, 28 gennaio). Come possiamo vedere, l'originalità del saggio di Emmanuel Todd non sta nel vittimismo di un autore che allora sarebbe stato imbavagliato e che adesso campeggia sulle prime pagine dei giornali letti dall'intera intellighenzia di sinistra.

Una "oligarchia di massa"

Il libro è un invito a comprendere i meccanismi di potere ideologico e politico della nostra società partendo dal momento "Charlie", un'analisi raffinata e virulenta della "crisi religiosa" di una nazione che "mente a se stessa" nella comunione laica. Certo, lui è d'accordo, i manifestanti hanno sfilato, in buona coscienza, per la tolleranza. Ma questa non è la realtà dei "valori latenti" che li hanno mossi. Quel giorno, ha scritto, "si trattava anzitutto di affermare un potere sociale, il dominio". Quello della "Francia bianca" delle categorie superiori accorsa in piazza per "definire come bisogno prioritario il diritto di sputare sulla religione dei deboli". Quello di una Francia contraria all'uguaglianza non nei suoi proclami teorici e consapevoli, ma nella sua pratica e nei comportamenti inconsci.
Perché "le forze che sostengono oggi della Repubblica non sono di natura repubblicana", spiega. Come illustra il divario tra le manifestazioni di massa a Lione e quelle più modeste di Marsiglia, sono gli abitanti delle antiche terre cattoliche e gerarchiche che si sono mobilitati l' 11 gennaio. E' questa "oligarchia di massa" che accetta la segregazione sociale delle persone svantaggiate, la retrocessione di giovani musulmani in ghetti urbani che si è indignata, insiste.
Mappatura a sostegno, il demografo vuole dimostrare che una "subcultura cattolica periferica", che persiste nonostante il declino della Chiesa determina aloro insaputa gli individui. E promuove la nascita di una "neorepubblica" inegualitaria. Sotto la sua influenza, la "dea crudele" della moneta unica europea ha sostituito la Santissima Trinità. Perché il trattato di Maastricht "deriva dal cattolicesimo e da Vichy più che dalla Rivoluzione," assicura. Sotto la sua influenza, il PS si è spostato a destra. Così François Hollande, figlio di genitori cattolici, appare come "l'incarnazione perfetta del cattolicesimo zombi". Mentre il PS è "soggettivamente" anti-razzista, ma è "oggettivamente xenofobo", assicura Todd perché "esclude i figli degli immigrati dalla nazione francese." In sintesi, non c'è corrispondenza completa tra le parole e le azioni di questi dominante che componevano la maggior parte dei manifestanti.

Combattere "la nuova isteria secolare"

Dall'islamofobia dei quartieri bene all'antisemitismo delle
periferie segregate, la responsabilità dei notabili di questa "neorepubblica" inegalitaria è, secondo Todd immensa. Che fare allora? Combattere "la nuova isteria laicista", egli scrive, semplicemente una "religione" che ha fatto dell'Islam suo capro espiatorio proclamando "il dovere di caricaturare Maometto".
Dopo l'eccesso
della manifestazione, si passa all'ecumenismo della conclusione. L'intera panoplia della laicità aperta del neorepublicanesimo che Todd si accanisce a combattere si trova a essere tranquillamente sciorinata. Diritto alla blasfemia, libertà di espressione protetta da parte dello Stato, assimilazione degli immigrati, "integrazione positiva" dell'Islam ... Anche il divieto del velo nelle scuole, considerato islamofobo da molti, è considerato dall'autore che è esente o paradossi e contraddizioni, come "una buona cosa". La sfilza dei suoi anatemi si chiude di conseguenza con il catalogo del catechismo repubblicano puro. E' finalmente giunto il momento di rispondere alla domanda posta dall'antropologo, "Chi è Charlie?" E' Emmanuel Todd, ma lui non lo sapeva.


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Bernardo Valli
Il premier: “Fu per la #laicità”
la Repubblica, 8 maggio 2015

... Manuel Valls reagisce con un articolo su Le Monde al libro di Emmanuel Todd. Nega anzitutto che la dimostrazione dell’11 gennaio sia stato un attacco all’Islam. “Calpestare Maometto?” Nessuno lo voleva. La manifestazione era per la tolleranza e per la laicità. È stato un grido lanciato contro il jihadismo che aveva appena assassinato dei cittadini francesi. Richiamandosi abusivamente a una fede. Se molti cittadini si sono tenuti quel giorno in disparte, non hanno ritenuto opportuno unirsi ai quattro milioni di Place de la République, è un fatto che naturalmente suscita interrogativi nei politici e nel governo. Ma questo non basta per denigrare un grande avvenimento popolare, una reazione sana di larga parte del paese. Se non tutto era perfetto non bisogna abbandonarsi all’autoflagellazione. Manuel Valls esclude che un’analisi, sia pure lucida, possa rendere meno nobile l’azione repubblicana dell’11 gennaio. E riesca a dissacrarla.