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domenica 11 settembre 2016

L'11 settembre del Cile. Giravolte della memoria



Claudio Vercelli 

 Mah, che dire, al di là dei ricordi in parte oramai sbiaditi, comunque ingialliti benché non per questo cancellati? Ricordi, nel caso mio, traslati dal tempo anche se all'epoca ero già nato. La vicenda cilena fu molto vissuta, nel mentre si consumava il golpe ma anche negli anni successivi. Poiché da subito, oltre a dare il segno brutale della disintegrazione di un sogno tanto intenso quanto illusorio - quello di una rivoluzione "democratica", quasi azionista, se dovessimo usare i nostri paradigmi culturali e politici, dove la parte "buona" della borghesia, quella cosciente e "riflessiva", di cui Allende si era candidato ad essere la punta di diamante, traghetta una collettività verso "equilibri più avanzati" - comunicò all'opinione pubblica internazionale che il tradimento poteva rivelarsi consustanziale ad una democrazia. Il bacio di Giuda nella versione contemporanea, in altre parole. L'orrore per figure come Pinochet derivava non solo dal riscontro di ciò che stavano facendo, e avrebbero continuato a fare pressoché indisturbati, ma anche dalla consapevolezza che per potere tradire avevano dovuto e voluto giurare fedeltà ad un assetto istituzionale del quale erano parte a pieno titolo. Si sa che nel novero dell'alta ufficialità cilena, spaccata al suo interno, Pinochet era considerato un "lealista", risolvendosi a partecipare al golpe solo in prossimità di esso, più per paura di essere scavalcato dai suoi pari che non per una profonda convinzione sulla sua necessità politica in quel preciso momento. Non di meno, i golpisti si mossero quando una parte della Democrazia cristiana cilena diede il suo assenso, condizionato al fatto che non si trasformasse in un redde rationem. Le cose seguirono poi il loro corso, che fu dettato da una miscela di feroce rivalsa sociale (quella di una parte della borghesia che intendeva impedire qualsiasi processo redistributivo), di repressione belluina, con la distruzione di qualsiasi forma di dialettica politica e di creazione di un nuovo ceto medio - il vero, grande risultato dei golpisti, in ciò imbeccati dai Chicago Boys - che costituì la chiave del duraturo successo del regime pinochettista, declinato solo con la fine degli anni Ottanta, nel periodo delle "grandi transizioni". In Italia, allora, ne temevamo qualcosa, se si pensa anche solo alla traiettoria razionalmente delirante di un personaggio come Feltrinelli, alla paura che lo accompagnava del pari ad un'ombra, al timore che serpeggiava in molti "ambienti" rispetto alla ripetibilità della soluzione greca e così via. Le bombe e la strategia della tensione stavano lì a dimostrare non tanto la materiale praticabilità di una deriva golpista quanto la capacità di condizionamento che il fantasma di essa, ossia il solo evocarla, esercitava sulle forze politiche e sulle organizzazioni collettive democratiche. Queste dinamiche, insieme alle scelte scellerate delle Amministrazioni statunitensi nel "cortile di casa", che nel decennio successivo si sarebbero ripetute nel Centro America, con il brutale ridimensionamento della presenza politica e civile delle componenti amerindie (penso in particolare al Salvador e al Guatemala), non ci hanno permesso di formulare un giudizio definitivo sul "radicalismo" (più che sul socialismo) di Allende e dei suoi uomini. Ovvero, il Cile di Allende, trasformato poi in un vero e proprio laboratorio del neoliberalismo mercatista, dal quale presero esempio Thatcher e Reagan, continua ad esser ricordato essenzialmente come istanza affettiva e riscontro emotivo. Un bel film statunitense, di nove anni dopo il golpe, "Missing", fotografa e racchiude questo approccio, risolvendolo in un senso di sconsolata malinconia: quella per il figlio scomparso poiché assassinato, quella per la fine di un esperimento che si sarebbe rivisto, fatte le debite proporzioni e le molteplici differenze, come copia populista con il Venezuela di Chavez, quella per una democrazia menzognera nell'incarnato di alcune Amministrazioni di Washington (la prece di Billy Carter fu solo parentesi, non risarcimento). Della visionarietà dell'allendismo ma anche dei suoi molti limiti - hanno parlato a loro tempo, tra gli altri, Regis Debray, così come sagaci considerazioni dal vivo erano quelle che Alain Touraine consegnò quasi nel mentre - poco si continua a sapere. Così come un personaggio ricco di ispirazione ma anche politicamente contraddittorio quale fu Salvador Allende Gossens, animato da un interiore furore prometeico, abile nel tessere rapporti ma debole sul piano delle alleanze strategiche, uomo politico di lungo corso ma comunque di minoranza, quindi destinato ad essere in qualche modo emarginato se non spodestato, rimane l'immagine del martire. Qualche idiota per questo forse arriva a contrapporre il 1973 al 2001. E' tutto dire.

Michelle Bachelet saluta la presidente de Senato, Isabel Allende (2014)



domenica 29 settembre 2013

I funerali di Pablo Neruda

Stefano Malatesta
Neruda e il gigante
Quei funerali al canto dell’Internazionale
Quarant’anni fa moriva il poeta cileno. Lo accompagnarono nell’ultimo viaggio centinaia di giovani che sfidarono la polizia di Pinochet schierata
E un oratore d’eccezione, lo scrittore Francisco Coloane

la Repubblica, 28 settembre 2013

Pablo Neruda morì quarant’anni fa, nel settembre del 1973, pochi giorni dopo il golpe dei militari cileni. Anni prima era stato candidato alla presidenza del Cile, ma i medici a Parigi, gli trovarono una malattia che lasciava poche speranze e al suo posto venne eletto Salvador Allende, il primo e unico presidente delle Americhe che si autodefiniva marxista.
Così Pablo tornò in Cile per l’ultima volta perché voleva essere seppellito sulla spiaggia di Isla Negra vicino a Valparaiso, dove aveva costruito una casa come un “barco”, in cima alle dune, come se fosse stata spinta lassù dalle lunghe ondate del Pacifico. Era nato a Temuco, un paesetto del Sud, nascosto in quelle vallate che dalle Ande scendono verso il tratto di mare più pescoso del mondo, percorso dalla corrente gelida di Humboldt, dove si incontrano banchi immensi di sardine pescate con un sistema di idrovore, che in poco tempo ingoiano tutto il banco. Questi erano territori che appartenevano agli auraucani, grande popolo guerriero, gli unici indios che furono capaci di fermare i tercios spagnoli, guidati da Valdivia e di sconfiggerli. A Temuco, un posto dove piove sempre, non c’era molto da fare e si poteva anche morire di noia, ma il giovane Neruda passava molto del suo tempo ascrivere i suoi versi incantato dal rumore che facevano le gocce sulla lamiera di ferro ondulato, l’unica copertura delle case povere cilene. Quando costruì la casa di Isla Negra, fece ricoprire la sua camera da letto dello stesso materiale: quella pioggia lo faceva tornare giovane.
Non so bene perché Pablo non venne seppellito, come aveva desiderato sulla spiaggia di Isla Negra. Morì in un’altra casa seminascosta tra le montagne che dominano Santiago. Una costruzione pendula che stava tra la capanna di Tarzan sugli alberi e il rifugio del barone rampante di Calvino. Quando arrivai sul posto, insieme con tutti i giornalisti presenti in città e il mio amico Saverio Tutino, che era stato corrispondente da Cuba per l’Unità e Le Monde, trovammo cinque o seicento ragazzi venuti da tutto il paese con il rischio di essere catturati dalla polizia scatenata dai gendarmi di Pinochet.
Davanti alla casa di Pablo i ragazzi avevano di fronte centinaia di agenti dei servizi speciali che stavano fotografando e filmando tutti i presenti alla cerimonia. All’uscita del feretro, questi ragazzi alzarono il braccio sinistro con il pugno chiuso nel saluto comunista. Tutti sapevano che la sera stessa qualcuno avrebbe bussato alla loro porta, per prelevarli e spedirli all’isola di Dawson, nella Tierra del Fuego, un carcere infame da cui non era facile tornare. Ma nessuno di loro avrebbe rinunciato a dare l’ultimo saluto al loro più grande poeta. Poi qualcuno intonò l’Internazionale subito seguito da un coro potente che fece irrigidire gli agenti della polizia.
Io non ho un passato di militante comunista, ma anche io, come molti altri giornalisti, cantai l’Internazionale e forse avrei cantato anche Bandiera rossa, quello era il momento. Gli uomini dei servizi speciali che stavano a sentire quella canzone, posarono le macchine fotografiche per terra e tolsero i fucili mitragliatori dalla tracolla per puntarli contro la processione. Ma gli uomini della Cia che avevano appoggiato e manovrato il golpe dopo i primi massacri avevano consigliato la massima prudenza a Pinochet, soprattutto in presenza di giornalisti.
La tensione si allentò quando prese la parola un gigante dai capelli corvini, abbronzato come un marinaio. L’uomo indossava un maglione blu. Il gigante, che sembrava arrivare direttamente dallo stretto di Drake, fece l’elogio di Pablo con voce tonante. Alla fine molti ragazzi piangevano e i giornalisti avevano inforcato gli occhiali da sole per non fare vedere gli occhi arrossati.
Dopo il golpe sono ritornato due o tre volte in Cile, l’ultima una decina di anni fa, non per scrivere un reportage politico, ma per intervistare Francisco Coloane, il cantore del mondo australe che aveva scritto racconti bellissimi su Cabo de Hornos e sulla Tierra del Fuego. Io non lo avevo mai incontrato ma avevo contribuito a far diffondere i suoi libri in Italia. Negli anni precedenti qualcuno del governo, vergognandosi che la casa di Neruda fosse stata svaligiata dalla polizia durante i giorni del golpe, l’aveva trasformata in un museo recuperando tutta la meravigliosa collezione di Polene, le decorazioni di legno che Pablo aveva trovato in giro per il mondo.
Il pomeriggio tornai a Santiago per l’appuntamento con Coloane. Lo trovai seduto su un divano perché aveva avuto da poco una paresi ad una gamba e non riusciva a camminare. La casa aveva pochi mobili estremamente eleganti, di genere marinaro, alla parete era appesa una pelle di guanaco conciata dagli indios e si vedevano dappertutto utensili del folklore australe soprattutto ami e coltelli fatti di osso e magnificamente scolpiti e un paio di revolver che dovevano essere stati usati molti anni prima. L’accoglienza di Coloane fu estremamente calorosa, io rimasi incantato dai racconti dello scrittore che parlava delle sue avventure nell’estremo sud americano popolato una volta dagli indios yamanes e onas, sterminati dai terratenientes che si volevano impadronire dei loro territori per allevare i merinos.
Parlò ininterrottamente per tre o quattro ore e vedendolo un po’ affaticato lo interruppi per raccontare come era andata la mattina la mia visita a Isla Negra. E un po’ di sfuggita accennai che nel settembre ’73 io ero a Santiago e avevo partecipato ai funerali di Neruda, rimanendo molto impressionato da un oratore dalla voce tonante. Coloane, a sentire quello che stavo raccontando, diventò prima pallido con le mani che gli tremavano per l’emozione, poi tentò di alzarsi in piedi e solo allora mi accorsi che era un gigante, più alto di me, e aveva folti capelli che un tempo dovevano essere corvini. Con la sua voce diventata roca mi disse: «Non te requerde? Ero jo quell’oratore». Mi diede un grande abbraccio e poi consegnandomi un pennarello mi indicò il vasto quadro che stava di fronte al divano dove c’erano tutte le firme dei suoi amici e mi disse: «Vai al quadro e metti la tua firma sotto quella di Pablo».

martedì 3 settembre 2013

Salvador Allende: una biografia

 
Carlo Vulpio
Allende, l'ironia contro i cannoni
La Lettura, Corriere della Sera, 1 settembre 2013
 
Furono, quelli di Salvador Allende, presidente socialista del Cile, mille giorni che meritano di essere raccontati e studiati ancora oggi come una lezione di storia e di politica. Perché furono mille giorni in cui il Cile – un Paese povero, ma ricco di risorse (soprattutto rame e salnitro) e geloso della propria dignità – alimentò una speranza: sottrarsi alla scelta obbligata di finire sepolti o sotto le macerie materiali e morali del «socialismo reale» di stampo sovietico oppure sotto la odiosa «democratura» di élite finanziarie internazionali senza scrupoli e senza controllo.
Questa speranza, questo progetto politico non velleitario, ma forte di una storia che vedeva il Cile come una delle più antiche e stabili democrazie del mondo («il cui Parlamento – come disse lo stesso Allende in un applauditissimo discorso all’Assemblea dell’Onu nel 1972 – non ha mai interrotto la sua attività dal giorno della sua istituzione, centossessanta anni fa»), vennero disintegrati dallo scellerato colpo di Stato militare dell’11 settembre 1973. Un colpo di Stato «in diretta», con il presidente Allende che, asserragliato nel Palazzo della Moneda, a Santiago, insieme con i suoi fedelissimi, alle 7:55 del mattino comincia a parlare al popolo cileno attraverso la radio e lo informa minuto per minuto su cosa sta accadendo, fino a quando, bombardato il palazzo dall’aviazione e poco prima che se ne impadroniscano i golpisti assassini, esattamente alle 9:10, Allende rivolge al Cile il suo ultimo discorso e poi sceglie di darsi la morte con un colpo di fucile.
Quel discorso «non ha alcun precedente storico, perché mai è stato pronunciato un addio come quello, sulla soglia della morte, e poi perché fra tutti i grandi discorsi politici del secolo scorso, da John Kennedy a Martin Luther King a Charles De Gaulle, quello di Allende fu l’unico discorso improvvisato». Lo sostiene Jesùs Manuel Martìnez, spagnolo, docente all’Università Cattolica del Cile e autore di Salvador Allende. L’uomo. Il politico (Castelvecchi, 325 pagine, 22 euro). «Quel discorso – dice ancora Martìnez – è eterno ed è la “colonna sonora” di questo libro». Che, diciamolo subito, è una biografia accurata, minuziosa, partecipe e lucida, basata su fonti di prima mano e in parte vissuta in prima persona dall’autore, che di Allende è stato anche amico. A riprova della robustezza dell’opera, qualora ve ne fosse bisogno, una bibliografia di 95 titoli e un indice dei nomi di sei pagine.
Sullo svolgimento dei fatti e sui responsabili del golpe – l’amministrazione americana guidata da Richard Nixon, «le multinazionali minerarie del rame, la magacompagnia telefonica Itt, una cellula del governo degli Stati Uniti diretta dal consigliere per la Sicurezza nazionale Henry Kissinger», anche se quest’ultimo ha sempre negato il suo coinvolgimento – è stato scritto e detto (quasi) tutto. Poco si sa, invece, dell’uomo Allende, della sua vita privata, della sua famiglia, della sua formazione umana e politica, del suo carattere. Su questo versante, la biografia di Martìnez è davvero il libro che mancava. Ma prima di vedere come aveva cominciato Salvador Allende, occorre ancora dire qualcosa su come finì. Se non altro perché il protagonista negativo della storia fu la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, che infatti, prima con il presidente Gerald Ford nel 1974 e poi con la Commissione senatoriale Church nel 1975, non poterono che ammettere il proprio intervento in Cile per sabotarne l’economia e demolirne la democrazia. E tuttavia, nonostante questa ammissione, leggendo «la massa di documenti» si resta allibiti e indignati, scrive Martìnez, «di fronte all’arroganza, all’ignoranza e all’incompetenza di organismi e servizi che pretendevano di governare il mondo».
La giustificazione, posticcia, fasulla, fondata su malferme ragioni di Realpolitik dovute a un mondo spaccato in due dalla guerra fredda, è sempre stata quella di evitare che in America latina si formasse «una seconda Cuba». Quando invece da sempre Allende aveva escluso la via castrista per il Cile, rifiutando la geniale idea della sinistra comunista di istituire anche in Cile i soviet operai e contadini «come in Russia» e affermando fino alla noia che «non è rivoluzionario chi, con la forza, riesce a comandare temporaneamente, ma chi, giungendo legalmente al potere, trasforma il senso e la convivenza sociale, le basi economiche del Paese».
Queste parole, frutto genuino della sua avversione ai totalitarismi, del suo essere non violento, marxista non ortodosso, socialista libertario e anti-leninista, contrario al monopartitismo e alla dittatura del proletariato, costeranno care ad Allende durante i suoi mille giorni di governo. Quando era già chiaro dove si andava a parare, i comunisti cileni, gli stessi che potevano vantare tra i propri militanti il premio Nobel Pablo Neruda e che erano al governo con cattolici e radicali nella Unidad Popular guidata da Allende, chiesero aiuto a Leonid Brežnev e organizzarono un incontro a Mosca tra i presidenti dell’Urss e del Cile. Ma il compagno Brežnev fu gelido. «Ogni rivoluzione – disse ad Allende – deve sapersi difendere». Allende non ebbe bisogno di altre parole, si alzò e chiuse lì l’incontro, ma poiché era davvero un hombre vertical fece ricorso alla sua professione di medico per ricambiare la cortesia: «Diagnosticò a Brežnev una forte influenza e gli consigliò un periodo di riposo», racconta Martìnez.
Ecco, questo episodio è soltanto uno dei tanti che rendono meglio l’idea dell’uomo Allende, detto Chicho, proprio come il diminutivo italiano Ciccio, da cui deriva. Un uomo che si dichiarava orgogliosamente «medico, massone e pompiere», che modellò la sua vita professionale e politica su quella del nonno, medico e massone pure lui, benvoluto e ricordato da tutti per l’abnegazione verso i più poveri.
Da ragazzo, al liceo, Salvador era stato campione nazionale giovanile di decathlon e di nuoto e come medico e politico coltivò l’idea fissa della salute per tutti (in un Paese che negli anni Quaranta aveva la mortalità infantile più alta del mondo), un tema che fu al centro della sua tesi di laurea e della sua prima, breve esperienza da ministro della Sanità e che gli valse il plauso pubblico dell’autorevole padre gesuita Alberto Hurtado, proclamato santo nel 2005, e più avanti dell’intera Compagnia di Gesù, «che in Cile, dall’inizio del XX secolo, è stato il vero motore di cambiamento – scrive Martìnez – per il suo altissimo livello sociale, intellettuale e professionale».
Su Allende, dice Martìnez, sono state riversate tonnellate di immondizia. Per fortuna era uno uomo di spirito e «grazie al clown che era in lui» spesso riuscì a neutralizzare i denigratori con una battuta, una trovata. Aveva una barca a remi, la fecero diventare uno yacht (fu El Mercurio, il giornale di Augustìn Edwards, concessionario in Cile e vicepresidente mondiale della Pepsi Cola, il cui presidente era Donald Kendall, uno dei grandi patrocinatori della carriera politica di Nixon…). Allende rimorchiò con l’auto la sua barca fino a Santiago e la «varò» davanti al Palazzo della Moneda. Anni prima, da senatore, dopo uno scambio reciproco di contumelie, aveva anche trovato il modo di affrontare in duello con la pistola il collega Raùl Rettig (ma nessuno dei due fece centro), che lo stesso Allende nel 1970 avrebbe nominato ambasciatore in Brasile. «Ma la mattina del golpe superò se stesso», ricorda Martìnez. A uno dei generali traditori, che gli intimava la resa, Allende chiese come stava con il cuore, visto che da poco aveva avuto un infarto, e come stava la sua signora. Il generale rispose con garbo e con un certo imbarazzo. Poi gli riferì il messaggio del capo dei golpisti, il noto criminale che per diciassette anni sarà il dittatore del ile e che nel libro Martìnez di proposito non nomina mai. Salvador Chicho Allende rispose così: «Gli dica di non fare il finocchio e di venire a prendermi di persona».

lunedì 1 aprile 2013

Michelle Bachelet, una storia

Paolo Manzo
Europa, 29 marzo 2013

La notizia della candidatura alle elezioni del prossimo 17 novembre di Michelle Bachelet non ha sorpreso nessuno, tantomeno i membri della Concertación, la coalizione che riunisce democristiani, socialisti, socialdemocratici radicali e indipendenti. Il prossimo passo perché l’ex presidente possa tornare alla guida del Cile sarà quello di vincere, il 30 giugno, le primarie della Concertación. Una novità, dato che in precedenza l’accordo veniva sempre “concertato” a livello di vertici politici. La “lotta” delle prossime primarie di giugno sarà, dunque, tra la Bachelet, Claudio Orrego Larraín, ex sindaco democristiano di Peñalolén, città di 200mila anime, il socialdemocratico radicale José Antonio Gómez e Andrés Velasco Brañes, ex ministro dell’Economia della Bachelet che si presenta come candidato indipendente.

Già presidente dal 2006 al 2010, quando lasciò la Moneda con un gradimento record dell’84 per cento, la Bachelet ha adesso il compito di riportare di nuovo a sinistra il timone della nave cilena dopo i quattro anni zeppi di conflitti – con studenti e minatori – del destrorso Sebastián Piñera. Un presidente che ha un gradimento di poco più del 20% dei cittadini e che si è interessato più al bene delle sue aziende che a quello del Cile. Per questo la vera sfida della Bachelet sarà soprattutto all’interno della Concertación (per vincere le primarie) e della sinistra (per evitare l’effetto dei comunisti in stile Grillo che fecero vincere Piñera nel 2009) piuttosto che con lo sparuto numero di elettori ancora disposti a votare a destra dopo il “disastro Piñera”.
Dopo tre anni come direttore esecutivo di “UN Women”, organismo dell’Onu creato nel 2010 per tutelare i diritti delle donne, la Bachelet si presenta come la figura che catalizzerà la scena politica cilena dei prossimi mesi. Per capirla meglio, più che alla sua carriera politica, è bene guardare ai suoi “primi 40 anni”. Le sue origini, infatti, marcano bene le differenze con chi, come Piñera ad esempio, ebbe il fratello – Don José – ministro del lavoro prima e delle miniere poi durante il governo del dittatore Augusto Pinochet Ugarte.
Quando il 12 marzo del 1974 moriva in carcere a causa delle atroci torture inferte da suoi due sottoposti, il generale delle Forze aeree cilene Alberto Bachelet Martínez, rimasto fedele a Salvador Allende sino all’ultimo, sua figlia Michelle viveva ancora a Santiago nonostante fossero passati oltre sei mesi dal golpe. Cevallos Jones e Cáceres Jorquera, gli sgherri di Pinochet Ugarte, superarono nell’occasione ogni limite umano con la loro picana elettrica d’ordinanza – il pungolo elettrico usato dai gauchos per controllare le vacche e “rilanciato” dalle varie dittature nell’ambito del Plan Condor per torturare – provocando così l’arresto del miocardio del generale Bachelet.
Michelle seppe quasi subito che il padre era morto. Ciò di cui venne tenuta all’oscuro è che si trattò di omicidio. Dal 2012 per quell’infarto provocato con la tortura i due ex ufficiali torturatori sono finiti sotto processo. Lei, che una trentina d’anni dopo sarebbe diventata nel 2003 la prima ministro della difesa donna e nel 2006, la prima “presidenta” del Cile, scelse coraggiosamente di rimanere a Santiago per continuare gli studi in medicina e appoggiare il Partito socialista che dopo il golpe di Pinochet era stato messo “fuori legge”.
Quando però il suo fidanzato dell’epoca, Jaime López, figlio di un ferroviere e segretario generale del Partito socialista clandestino fece perdere le sue tracce, Michelle Bachelet cominciò a pensare di rifugiarsi all’estero. E ciò che inizialmente fu solo un pensiero fugace presto si trasformò in una necessità.
Catturata dagli sbirri della DINA, i servizi segreti di Pinochet, per tre settimane fu torturata nel lager di Villa Grimaldi. Appena uscita da quell’incubo, Michelle assieme alla madre Ángela Jeria si rifugiò prima in Australia e poi in Germania Est per poi rientrare in Cile dove, nel 1982, si laureava in chirurgia pediatrica con il massimo dei voti. Si occupò di medicina sino a quando Pinochet non venne mandato a casa con il referendum, ed entrò in politica solo negli Novanta. Anche per onorare la memoria di suo padre, il generale che morì per non tradire.