domenica 29 settembre 2013

I funerali di Pablo Neruda

Stefano Malatesta
Neruda e il gigante
Quei funerali al canto dell’Internazionale
Quarant’anni fa moriva il poeta cileno. Lo accompagnarono nell’ultimo viaggio centinaia di giovani che sfidarono la polizia di Pinochet schierata
E un oratore d’eccezione, lo scrittore Francisco Coloane

la Repubblica, 28 settembre 2013

Pablo Neruda morì quarant’anni fa, nel settembre del 1973, pochi giorni dopo il golpe dei militari cileni. Anni prima era stato candidato alla presidenza del Cile, ma i medici a Parigi, gli trovarono una malattia che lasciava poche speranze e al suo posto venne eletto Salvador Allende, il primo e unico presidente delle Americhe che si autodefiniva marxista.
Così Pablo tornò in Cile per l’ultima volta perché voleva essere seppellito sulla spiaggia di Isla Negra vicino a Valparaiso, dove aveva costruito una casa come un “barco”, in cima alle dune, come se fosse stata spinta lassù dalle lunghe ondate del Pacifico. Era nato a Temuco, un paesetto del Sud, nascosto in quelle vallate che dalle Ande scendono verso il tratto di mare più pescoso del mondo, percorso dalla corrente gelida di Humboldt, dove si incontrano banchi immensi di sardine pescate con un sistema di idrovore, che in poco tempo ingoiano tutto il banco. Questi erano territori che appartenevano agli auraucani, grande popolo guerriero, gli unici indios che furono capaci di fermare i tercios spagnoli, guidati da Valdivia e di sconfiggerli. A Temuco, un posto dove piove sempre, non c’era molto da fare e si poteva anche morire di noia, ma il giovane Neruda passava molto del suo tempo ascrivere i suoi versi incantato dal rumore che facevano le gocce sulla lamiera di ferro ondulato, l’unica copertura delle case povere cilene. Quando costruì la casa di Isla Negra, fece ricoprire la sua camera da letto dello stesso materiale: quella pioggia lo faceva tornare giovane.
Non so bene perché Pablo non venne seppellito, come aveva desiderato sulla spiaggia di Isla Negra. Morì in un’altra casa seminascosta tra le montagne che dominano Santiago. Una costruzione pendula che stava tra la capanna di Tarzan sugli alberi e il rifugio del barone rampante di Calvino. Quando arrivai sul posto, insieme con tutti i giornalisti presenti in città e il mio amico Saverio Tutino, che era stato corrispondente da Cuba per l’Unità e Le Monde, trovammo cinque o seicento ragazzi venuti da tutto il paese con il rischio di essere catturati dalla polizia scatenata dai gendarmi di Pinochet.
Davanti alla casa di Pablo i ragazzi avevano di fronte centinaia di agenti dei servizi speciali che stavano fotografando e filmando tutti i presenti alla cerimonia. All’uscita del feretro, questi ragazzi alzarono il braccio sinistro con il pugno chiuso nel saluto comunista. Tutti sapevano che la sera stessa qualcuno avrebbe bussato alla loro porta, per prelevarli e spedirli all’isola di Dawson, nella Tierra del Fuego, un carcere infame da cui non era facile tornare. Ma nessuno di loro avrebbe rinunciato a dare l’ultimo saluto al loro più grande poeta. Poi qualcuno intonò l’Internazionale subito seguito da un coro potente che fece irrigidire gli agenti della polizia.
Io non ho un passato di militante comunista, ma anche io, come molti altri giornalisti, cantai l’Internazionale e forse avrei cantato anche Bandiera rossa, quello era il momento. Gli uomini dei servizi speciali che stavano a sentire quella canzone, posarono le macchine fotografiche per terra e tolsero i fucili mitragliatori dalla tracolla per puntarli contro la processione. Ma gli uomini della Cia che avevano appoggiato e manovrato il golpe dopo i primi massacri avevano consigliato la massima prudenza a Pinochet, soprattutto in presenza di giornalisti.
La tensione si allentò quando prese la parola un gigante dai capelli corvini, abbronzato come un marinaio. L’uomo indossava un maglione blu. Il gigante, che sembrava arrivare direttamente dallo stretto di Drake, fece l’elogio di Pablo con voce tonante. Alla fine molti ragazzi piangevano e i giornalisti avevano inforcato gli occhiali da sole per non fare vedere gli occhi arrossati.
Dopo il golpe sono ritornato due o tre volte in Cile, l’ultima una decina di anni fa, non per scrivere un reportage politico, ma per intervistare Francisco Coloane, il cantore del mondo australe che aveva scritto racconti bellissimi su Cabo de Hornos e sulla Tierra del Fuego. Io non lo avevo mai incontrato ma avevo contribuito a far diffondere i suoi libri in Italia. Negli anni precedenti qualcuno del governo, vergognandosi che la casa di Neruda fosse stata svaligiata dalla polizia durante i giorni del golpe, l’aveva trasformata in un museo recuperando tutta la meravigliosa collezione di Polene, le decorazioni di legno che Pablo aveva trovato in giro per il mondo.
Il pomeriggio tornai a Santiago per l’appuntamento con Coloane. Lo trovai seduto su un divano perché aveva avuto da poco una paresi ad una gamba e non riusciva a camminare. La casa aveva pochi mobili estremamente eleganti, di genere marinaro, alla parete era appesa una pelle di guanaco conciata dagli indios e si vedevano dappertutto utensili del folklore australe soprattutto ami e coltelli fatti di osso e magnificamente scolpiti e un paio di revolver che dovevano essere stati usati molti anni prima. L’accoglienza di Coloane fu estremamente calorosa, io rimasi incantato dai racconti dello scrittore che parlava delle sue avventure nell’estremo sud americano popolato una volta dagli indios yamanes e onas, sterminati dai terratenientes che si volevano impadronire dei loro territori per allevare i merinos.
Parlò ininterrottamente per tre o quattro ore e vedendolo un po’ affaticato lo interruppi per raccontare come era andata la mattina la mia visita a Isla Negra. E un po’ di sfuggita accennai che nel settembre ’73 io ero a Santiago e avevo partecipato ai funerali di Neruda, rimanendo molto impressionato da un oratore dalla voce tonante. Coloane, a sentire quello che stavo raccontando, diventò prima pallido con le mani che gli tremavano per l’emozione, poi tentò di alzarsi in piedi e solo allora mi accorsi che era un gigante, più alto di me, e aveva folti capelli che un tempo dovevano essere corvini. Con la sua voce diventata roca mi disse: «Non te requerde? Ero jo quell’oratore». Mi diede un grande abbraccio e poi consegnandomi un pennarello mi indicò il vasto quadro che stava di fronte al divano dove c’erano tutte le firme dei suoi amici e mi disse: «Vai al quadro e metti la tua firma sotto quella di Pablo».

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