mercoledì 28 maggio 2025

ll destino di Palinuro

Virgilio, Eneide, V, 827-861
Traduzione di Luca Canali

Qui carezzevoli gioie pervadono a vicenda l'animo  
sospeso del padre Enea; comanda di alzare all'istante
tutta l'alberatura e di tendere i pennoni alle vele.
Tirarono tutti insieme le scotte, e ugualmente a sinistra,
poi sciolsero le vele a destra; insieme volgono e rivolgono
le erte antenne; favorevoli brezze sospingono le navi.
Primo fra tutti Palinuro guidava la folta
squadra; gli altri dovevano seguire la sua prora.
E già l'umida Nyx aveva quasi toccata la meta
intermedia del cielo; i marinai rilassavano le membra
nella placida quiete, sotto i remi, sparsi per i duri banchi:
quando, disceso lieve dagli astri eterei,
il Sonno fendette l'aria tenebrosa e scosse le ombre
te, o Palinuro, cercando, a te incolpevole recando
funesti sogni; il dio si asside sull'alta
poppa, simile a Forbante, e dice queste parole:
«laside Palinuro, le acque portano spontanee la flotta;
le brezze spirano equilibrate: un'ora propizia al riposo;
adagia il capo, sottrai alla fatica gli occhi stanchi.
Per un poco posso subentrarti nel compito.
A stento sollevando gli occhi a lui Palinuro dice:
«Vuoi che ignori il volto del placido mare
e i flutti quieti? che confidi in questo mostro?
Affiderei - come sarebbe possibile? - Enea alle brezze
fallaci, sorpreso più volte dall'inganno del cielo sereno?.
Rispondeva tali parole, e fisso e stretto alla barra
non si scostava d'un pollice, e teneva gli occhi alle stelle.
Ed ecco il dio gli scuote un ramo stillante rugiada
letea e imbevuto del potere soporifero stigio su entrambe
le tempie, e a lui che già vacillava rilassa le pupille oscillanti.
La quiete inattesa gli aveva appena allentato le membra;
e sopra incombendo, con una parte divelta della poppa
e con tutto il timone lo rovesciò a capofitto nelle onde
mentre invano chiamava più volte i compagni;
quello, alato, si levò leggero a volo nell'aria.
La flotta corre ugualmente un cammino sicuro sul mare
e va imperterrita per le promesse del padre Nettuno.
Già navigando si avvicinava agli scogli delle Sirene,
difficili un tempo e bianchi delle ossa di molti;
allora le rocce risonavano rauche lontano per l'assidua
risacca: quando il padre Enea s'avvide che la nave, perduto il
nocchiero, errava fluttuando; ed egli la pilotò nelle onde notturne.
O troppo fiducioso nel cielo e nel mare tranquillo,
nudo, o Palinuro, giacerai su un'ignota spiaggia.


VI, 336-381, Enea sta visitando l'Ade

Ecco avanzava il timoniere Palinuro
che poc'anzi nella libica rotta, mentre osservava la stelle,
era precipitato da poppa riverso in mezzo alle onde.
Come lo riconobbe a stento, mesto nella grande ombra,
così gli si rivolge per primo: "quale degli dei, o Palinuro,
ti strappò a noi e ti sommerse in mezzo al mare?
Dimmi. Infatti Apollo, che mai in precedenza ho trovato 
fallace, con questo solo responso mi deluse l'animo,
quando presagiva che saresti scampato ai flutti
e giunto alle terre ausonie. Questa è la fede promessa?" 
Ed egli: "il tripode Apollo non ingannò te,
condottiero anchisiade, né il dio sommerse me in mare.
Infatti mentre precipitavo trascinai con me il timone,
divelto all'improvviso con grande violenza, a cui mi stringevo
di guardia, dirigendo la rotta. Giuro sugli aspri 
mari che non tanto concepii per me alcun timore,
quanto che la tua nave, spogliata di strumenti, sbalzato
il timoniere, naufragasse al sollevarsi degli alti marosi.
Tre notti invernali il Noto violento mi trasse
per le immense distese sull'acqua; a stento il quarto giorno
scorsi l'Italia alto dalla cima di un'onda.
Lentamente m'accostavo a nuoto alla terra; già la tenevo sicura,
se una gente crudele non mi avesse assalito col ferro
mentre, impacciato dalla madida veste, afferravo con mani adunche
le asperità del monte, e se ignara non mi avesse creduto una preda.
Ora mi possiedono i flutti e mi volgono i venti sul lido.
Per il lume giocondo del sole, per le brezze, per il padre,
ti prego, e per la speranza di Iulo che cresce,
strappami, invitto, a questi mali; o coprimi di terra,
poiché lo puoi e cerca il porto di Velia; 
oppure, se c'è una via, se alcuna te ne mostra la divina
madre - non credo che senza il volere degli dei
ti accingi a navigare il grande fiume e la palude stigia -,
porgi la mano a uno sventurato, e prendimi con te sulle onde,
perché almeno in morte riposi in tranquilla dimora". 
  Così aveva parlato, quando così la veggente cominciò:
"Di dove, o Palinuro, ti viene una così empia brama?
Insepolto vedrai le onde stigie e il severo
fiume delle Eumenidi,  e senza comando approderai alla riva?
Cessa di sperare che i destini degli dei si pieghino pregando.
Ma accogli memore le parole, conforto della dura sorte.
I vicini, spinti in lungo e in largo per le città
da prodigi celesti, espieranno le tue ossa,
e ti porranno un tumulo, e al tumulo faranno offerte,
e il luogo avrà in eterno il nome di Palinuro".



VI, 382-383
Traduzione di Enzio Cetrangolo

A queste parole gli affanni si allontanarono;
dal suo petto triste fu per un poco scacciato
il dolore; e gode del suo nome sul mare.

His dictis curae emotae pulsusque parumper
corde dolor tristi; gaudet cognomine terra. 

ChatGpt

L’episodio di Palinuro nell’Eneide (libro V-VI) può essere interpretato in base alle teorie di René Girard come un esempio letterario del meccanismo sacrificale e della funzione mitica della vittima, soprattutto se si considera il ruolo che la morte del timoniere ha nel ristabilire un ordine necessario per il passaggio dell’eroe verso il destino finale.

Ecco come applicare la visione di René Girard a questo episodio:


🧭 1. Il contesto: la morte di Palinuro

Palinuro cade in mare per volere del dio Sonno (inviato da Nettuno) e muore tragicamente, pur innocente. La sua morte è ingiustificata dal punto di vista umano: non ha colpe, non è punito per un errore, e chiede persino sepoltura invano.


🔍 2. Il sacrificio come passaggio necessario

Stando alla visione propria di René Girard, la morte di Palinuro può essere letta come un sacrificio fondativo:

  • Enea può finalmente scendere agli Inferi nel libro VI solo dopo che per Palinuro si è aperta la prospettiva della sepoltura.

  • Palinuro è una vittima sacrificale che permette alla missione collettiva (la fondazione di Roma) di proseguire.

  • La sua morte placa, simbolicamente, le forze caotiche del mare e della natura, e consente il passaggio verso il mondo dei morti, che rappresenta anche un passaggio interiore e spirituale per Enea.


🌀 3. Palinuro come capro espiatorio

Pur non essendo esplicitamente scelto come colpevole, Palinuro è rimosso dal gruppo (muore solo, gettato fuori bordo, e il suo corpo resta insepolto), come accade alle vittime espiatorie nel modello di Girard:

  • Non viene celebrato in vita;

  • Viene dimenticato rapidamente;

  • Solo nei Campi dell’Acheronte viene "riabilitato", quando la Sibilla gli promette un sepolcro e un culto.

Questo riflette la dinamica sacrificale mitica descritta da Girard: la vittima è necessaria, ma solo dopo viene mitizzata o riconosciuta come figura sacra o eroica.


⛪ 4. Il riconoscimento postumo e la fondazione

Girard sottolinea che molte culture divinizzano o sacralizzano la vittima dopo la morte, trasformandola in fondatrice. Così accade anche con Palinuro:

  • Il luogo della sua morte prende il suo nome (il promontorio di Palinuro);

  • Gli viene promesso un culto eterno, che lo collega al mito fondativo di Roma;

  • Viene, in un certo senso, “canonizzato” come martire del destino romano.


✝️ 5. Confronto con il cristianesimo di Girard

Girard sostiene che i testi mitici nascondono l’innocenza della vittima, mentre il Vangelo la rivela. Nell’Eneide, la morte di Palinuro rimane avvolta nel mistero e funzionale al destino collettivo: non c’è ancora la piena rivelazione dell’innocenza della vittima come avverrà nel cristianesimo. L’Eneide si colloca dunque a metà strada tra il mito (che giustifica il sacrificio) e la visione cristiana (che lo mette in crisi).


✅ In sintesi:

L’episodio di Palinuro può essere letto alla maniera di Girard come:

  • Un sacrificio rituale che consente il progresso della missione collettiva;

  • Un’esemplificazione del meccanismo del capro espiatorio, anche se in forma attenuata;

  • Una figura mitizzata post mortem, che richiama la funzione fondativa della vittima sacrificale;

  • Un esempio di come la letteratura classica tragga forza dal sacrificio, senza ancora metterlo apertamente in discussione, come farà invece la narrativa evangelica secondo Girard.

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Sia il cristianesimo che la fede pagana comportano il ricorso a una visione magica del mondo. L'ostacolo reale al proseguimento del viaggio, l'incertezza, si raggrumano nella persona del timoniere che in obbedienza a un disegno celeste viene irretito dal dio del Sonno. L'ostacolo deve essere rimosso. Palinuro diventa l'ostacolo, la vittima sacrificale la cui soppressione prelude alla continuazione felice del viaggio. Si ripete lo schema già presente nelle vicende di Ifigenia e di Isacco. In entrambi i casi il sacrificio sembra destinato a sbloccare una situazione, fornendo una prova di obbedienza da parte di Abramo o tentando di placare la collera di un dio nel caso di Agamennone. L'episodio biblico porta al superamento del sacrificio, la prova dell'obbedienza è stata offerta, conta più la propensione al rischio che l'esecuzione effettiva dell'assassinioÈ bella e notevole, in Virgilio, l'idea della memoria come risarcimento della morte.

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Elpenore

Daniel Mendelsohn in Un'Odissea. Un padre, un figlio e un'epopea fa notare come Virgilio sia molto fedele a Omero nel costruire il proemio dell'Eneide. 
Armi canto e l'uomo che primo dai lidi di Troia
venne fuggiasco per fato e alle spiagge
lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda 
di forze divine, per l'ira ostinata della crudele Giunone,
molto sofferse anche in guerra, finch'ebbe fondato
la sua città, portato in Lazio i suoi dèi, donde il sangue 
latino e i padri albani e le mura dell'antica Roma.
L'eroe non è nominato, come nel proemio dell'Odissea: l'uomo versatile che vagò tanto. C'è l'ira ostinata di Giunone, e nell'Odissea troviamo Poseidone che aveva un feroce rancore. Ira che è presente fin dal primo verso nell'Iliade: l'ira di Achille. A Enea che molto sofferse corrisponde Odisseo che pure lui nel suo animo soffrì molte pene per mare. Il quale Odisseo vagò tanto mentre Enea fuggiasco fu preda di forze divine. Le battaglie combattute dall'eroe troiano una volta in Italia ricordano gli scontri che punteggiano l'Iliade. Come trascurare poi il fatto che le parole iniziali dell'Eneide, Arma virumque cano, mettono insieme i due poemi omerici. Il canto con cui si apre l'Iliade, Cantami o musa, l'uomo versatile che vagò tanto dell'Odissea e ancora le armi, gli scontri dell'Iliade.
Il parallelismo si ritrova nell'episodio di Palinuro riguardo in particolare alla mancata sepoltura. A un personaggio dell'Odissea a cui è toccata la medesima sorte, si tratta di Elpenore. La disgrazia viene alla luce in circostanze simili: tanto Enea quanto Odisseo visitano l'Ade. Anche Dante fa la stessa cosa molto tempo dopo, ma questa è un'altra storia. Odisseo, mentre aspetta di parlare a Tiresia, incrocia un fantasma, apparenza residua del marinaio Elpenore, la cui salma era rimasta insepolta nell'isola di Circe:
Non lasciarmi indietro senza pianti e senza tomba, 
che io non ti provochi l'ira divina,
ma bruciami con tutte quante le mie armi
e costruisci un tumulo sulla riva del mare canuto,
ricordo di un infelice, che anche i posteri conosceranno.
Fatto questo, pianta sul tumulo il remo
con cui remavo da vivo assieme ai miei compagni.
In Omero il tema della memoria è appena accennato, ma si avverte con nettezza. Anche per Patroclo nell'Iliade si pone il problema della sepoltura. 

L'incontro tra Ulisse e Elpènore nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti

 

Venne per prima l’anima del mio compagno Elpènore, / perché non era sepolto sotto la terra ampie vie; / il corpo in casa di Circe l’avevamo lasciato, / incompianto e insepolto: altro bisogno premeva! / Io piansi a vederlo, provai pena in cuore / e a lui rivolto parole fugaci dicevo: / “Elpènore, come scendesti, sotto l’ombra nebbiosa? / Tu a piedi hai fatto più presto di me su nave nera”. / Così dissi e piangendo mi ricambiava parole: / “Divino Laerzíade, accorto Odisseo, / la mala sorte d’un nume m’ha perso e il vino infinito. / Di Circe sul tetto dormendo, scordai / di tornare all’alta scala per scendere: / a capofitto caddi dal tetto e l’osso del collo / mi ruppi, l’anima scese giù all’Ade (vv. 51-65).

«Ora in nome dei vivi ti prego, che non sono qui, / della sposa, del padre che ti nutri bambino, / di Telemaco, l’unico figlio che in casa hai lasciato. / So che partendo di qui, dalla casa dell’Ade, / all’isola Eèa fermerai la solida nave. / Là, signore, ti prego di ricordarti di me; / oh, incompianto, insepolto (ἄκλαυτον καὶ ἄθαπτον) non lasciarmi laggiù, / partendo, ch’io non sia causa dell’ira divina per te, / ma bruciami con le mie armi, tutte quelle che ho, / e un tumulo alzami in riva al mare schiumoso: / ricordo di un uomo infelice, che anche i futuri lo vedano. / Fammi questo, e pianta sul tumulo il remo, / con cui da vivo remavo in mezzo ai compagni» (vv. 66-78).



Achille e Patroclo


Dopo che si furono tolta la voglia di mangiare e di bere,

se ne andarono a dormire, ciascuno nella propria tenda.

Il Pelide invece si stendeva sulla riva del mare rumoreggiante

e sospirava forte in mezzo ai molti suoi Mirmidoni:                                                                  60

se ne stava in un luogo sgombro, dove le onde spazzavano il lido.

Allora il sonno lo colse e gli scioglieva le pene del cuore:

lo avvolse dolcemente (l’eroe si era stancato molto

nell’inseguire Ettore verso Ilio battuta dal venti).

Ed ecco che gli apparve l’ombra dell’infelice Patroclo;                                                               65

gli rassomigliava in tutto: nella statura, negli occhi belli

e nella voce; indossava le stesse vesti.

Si fermò in alto, sopra la testa, e gli rivolgeva queste parole:

“Tu dormi e intanto ti dimentichi di me, Achille.

Quando ero vivo, non mi trascuravi: dopo morto sì, invece.                                                     70

Seppelliscimi al più presto! Voglio varcare la porta dell’Ade.

Mi respingono lontano le altre anime, le ombre dei defunti,

non mi consentono ancora di unirmi a loro di là del fiume;

così vado errando intorno alla casa di Ade dalle ampie porte.

Dammi una mano, te ne prego! Non tornerò                                                                               75

più un’altra volta dall’Ade, dopo il rogo funebre.

Non staremo più insieme da vivi, in disparte dai nostri

compagni, a discutere piani: ormai mi ha ghermito

l’odioso destino di morte che mi toccò nascendo.

Però anche per te la sorte è segnata, Achille simile agli Dei:                                                    80

devi cadere sotto le mura dei ricchissimi Troiani.

Ecco, ho un’altra cosa da dirti e da chiederti, se vuoi darmi retta:

non mettere le mie ossa, Achille, lontano dalle tue;

mettile insieme, come insieme crescemmo nel tuo palazzo.

Ancora piccolo, mi portò alla vostra casa                                                                                     85

Menezio di Opunte, per un disgraziato omicidio,

quel giorno che uccisi da sconsiderato il figlio di Anfidamante,

senza volerlo, per una lite al gioco degli astragali.

Allora mi accolse in casa Peleo, guidatore di carri:

mi allevò con ogni cura e mi nominò tuo aiutante in campo.                                                    90

Così vorrei che le nostre ossa le racchiudesse una stessa urna:

l’anfora d’oro che ti donò l’augusta madre”.

A lui rispondeva Achille dal piede veloce:

“Come mai, mio caro, sei venuto qui, e mi fai

queste richieste così precise? Stai pur certo che tutto                                                                95

io farò per te: mi comporterò come vuoi tu.

Ma tu avvicinati a me! Abbracciamoci, anche se per poco,

a consolarci di tristezza e di pianto!”.

Così parlava e protese le braccia:

ma non riuscì a prenderlo. Come fumo, l’anima se ne andò                                                   100

stridendo sotto terra. Achille si svegliò, stupito;

batté le mani l’una sull’altra e disse parole di lamento:

“Ahimé! Allora esiste anche nelle case di Ade

un’anima ed una parvenza, ma non ha più forza vitale!

Per tutta la notte l’ombra dell’infelice Patroclo                                                                         105

mi è stata accanto tra gemiti e lacrime

e mi ha fatto richieste ben precise: era in tutto simile a lui”.

Così diceva e in tutti risvegliò una gran voglia di pianto.

Iliade, XXIII, 57-108





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