Una giornalista di obbedienza meloniana auspicava, giorni fa, in una trasmissione televisiva, che il nuovo papa ridesse l'importanza dovuta a Dio rispetto al rapporto con il mondo. Leone XIV, nel suo discorso inaugurale, ha parlato di Gesù e di Maria, la trascendenza che si fa umana, non del Padre. Volendo chiudere la sua allocuzione con una preghiera non ha scelto il Pater noster, ma l'Ave maria. L'accenno al Padre è arrivato per ultimo, come riferimento obbligato, nella benedizione finale. Quanto a Dio uno e trino, ci si può chiedere che cosa si debba intendere con questa parola. Che cosa intenda il nuovo papa, sarebbe materia di studio. Una scorciatoia ci è offerta dal teologo Vito Mancuso che è andato a scovare una pagina di Agostino. Come si sa, Leone XIV è un agostiniano. Ed ecco che viene fuori non un "Dio padre che sei cieli", ma il sentimento interiore della trascendenza. Questo Agostino si ritrova sulla stessa linea di un Meister Eckart o, in altro ambito, di Carl Gustav Jung, a sua volta figlio di un pastore protestante. È proprio vero che le vie del Signore sono infinite.
Vito Mancuso, Leone XIV, un agostiniano dopo un gesuita. La continuità nella discontinuità, La Stampa, 9 maggio 2025
... in onore del nuovo Papa, desidero concludere con una pagina delle “Confessioni” di sant’Agostino nella quale il grande teologo e filosofo cristiano rivolgendosi al suo Dio pone questa domanda: «Cosa amo, quando ti amo?». Domanda profondissima, che chiunque afferma di amare Dio dovrebbe porre a sé stesso: cosa si ama veramente quando si dice di amare “Dio”? Agostino fa una serie di ragionamenti che qui è impossibile riportare e poi sorprendentemente conclude: «Amando il mio Dio amo la luce dell’uomo interiore che è in me». La più grande trascendenza la si ottiene nella più grande immanenza, nella nostra interiorità.
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Vocatus atque non vocatus, Deus aderit
Cosa intende Jung per Dio nella frase scolpita sulla porta della sua casa? Il demone che ci abita e a cui non possiamo sfuggire? O la domanda ultima? Forse in quel “vocatus atque non vocatus” c’è il richiamo a una trascendenza che non è riducibile alla nostra percezione di essa. Un qualcosa che c’è, che si trova in noi se vene cercato, e che continua a sussistere anche in mancanza di sollecitazioni esterne. (Giovanni Carpinelli)
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Gianfranco Ravasi, Jung risponde a Giobbe, Il Sole 24ore, 24 aprile 2011
Anni fa, trovandomi a Zurigo, mi feci condurre lungo le sponde del lago omonimo fino alla cittadina di Küssnacht che s’affaccia sia su quello specchio d’acqua sia sulle Alpi dei Quattro Cantoni. Là io ero venuto soprattutto per dare uno sguardo alla casa ove Carl Gustav Jung aveva a lungo vissuto ed era morto il 6 giugno 1961 (era nato a Kesswil nel 1875). Se ben ricordo, mi impressionò una scritta latina apposta sulla facciata che recitava: Vocatus atque non vocatus, Deus aderit. Dio, quindi, era considerato sempre presente sia che l’uomo l’avesse invocato o meno, chiamato in soccorso, interpellato o ignorato. Echeggia in queste parole una battuta profetica isaiana citata dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, da lui considerata come emblematica della sua dottrina sul primato della grazia divina che precede ed eccede l’azione umana: «Isaia arriva fino a dire: Io, il Signore, sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano» (10,20).
Marco Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio: La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano 2010
In questa chiave, forse, il “Vocatus atque non vocatus, Deus aderit” diventa più comprensibile. Dio abita in noi e quindi è presente, poco importa se noi siamo o no consapevoli della sua presenza. Alla consapevolezza della presenza divina si giunge rientrando in noi stessi, nella nostra interiorità, esplorando il fondo della nostra anima. E così cambia anche il modo di concepire la religione, non come credenza in un ente esteriore, ma come “conoscenza dello spirito nello spirito”, esperienza interiore che ci porta a generare il logos nell’interiorità dell’anima nostra. E che trasfigura il nostro sguardo sul mondo e su noi stessi. Questo è credere, per il cristiano Eckart.
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