Condanna dell’interventismo neocon e di quello umanitario. Sì a una politica degli «accordi»: «La pace produce profitti»
Dalla nostra inviata a Doha Viviana Mazza,
Corriere della Sera,
Molte etichette sono state applicate alla politica estera di Trump: America first, isolazionista, transazionale, imperialista, protezionista. Nel discorso d’insediamento Trump ha detto che i successi dell’America saranno determinati dalle «guerre in cui non interverremo mai», ma ha parlato anche di riprendersi il Canale di Panama. Ha detto che è ora di porre fine all’interventismo in Medio Oriente, ma anche che gli Stati Uniti dovrebbero controllare Gaza dopo aver ricollocato i palestinesi. Si dice spesso che Trump non ha una vera «dottrina» e punta a fare accordi, ma martedì a Riad ha pronunciato quello che la Casa Bianca ha definito un importante discorso di politica estera. Il suo approccio transazionale è diventato «dottrina».
Addio Nation building
È una dottrina centrata sugli «accordi» come fonte di stabilità e di pace, che respinge sia la visione «neocon» dei suoi predecessori repubblicani che l’internazionalismo liberale del partito democratico. Trump li accusa di «arrivare in volo con lezioni per gli altri su come vivere e gestire gli affari». Trump da immobiliarista ammira la crescita dei Paesi del Golfo, la stabilità e l’innovazione di questi regimi autoritari: «Le meraviglie scintillanti di Riad e Abu Dhabi non sono state create dai così detti nation-builder, dai neocon o dalle non-profit progressiste come quelle che hanno speso trilioni fallendo nello sviluppare Kabul e Bagdad». E respinge l’intera dottrina di Nation building sposata in modo bipartisan negli Usa dopo la Seconda guerra mondiale ma screditata dopo l’Iraq e l’Afghanistan: «Alla fine i cosiddetti nation-builders hanno distrutto più nazioni di quelle che hanno costruito, e gli interventisti sono intervenuti in società complesse che non capivano». A tratti sembrava di riascoltare le critiche della sinistra ai neoconservatori che influenzavano la politica estera di George W. Bush. «Quello che Trump dice è la classica dottrina di non interventismo che risale a John Stuart Mill, che molti di noi hanno appoggiato, con un’eccezione importante: intervenire per porre fine ai massacri, cosa cui sospetto che Trump non sarebbe interessato», dice al Corriere il filosofo politico Michael Walzer. «Si può argomentare contro la creazione di democrazie in stile americano in Paesi di cui sappiamo poco e dove la forza militare non è il modo migliore per promuovere politiche democratiche. Ma ci sono varie forme di interventismo. E quello che Trump fa in Siria, cancellando le sanzioni e stringendo la mano del nuovo governante, è uno sforzo di creare un Paese amichevole nei confronti degli Usa ed è un intervento nella politica mediorientale, anche se non un classico intervento neocon per promuovere la democrazia».
Il denaro è un valore
Trump non è un isolazionista tradizionale. Si presenta come l’unico che può porre fine ai conflitti in Ucraina e a Gaza, al rischio che l’Iran sviluppi la Bomba, alla disputa decennale tra India e Pakistan sul Kashmir, e suggerisce «interventi» in Canada e in Groenlandia. «Minacciare l’ucraina con il completo abbandono del supporto militare americano, poi firmare un accordo che prende metà dei guadagni delle risorse minerarie e rinnovare l’appoggio militare: questa è politica interventista», dice Walzer. I neocon, rappresentati come «guerrafondai» dal movimento trumpiano, puntavano a esportare la democrazia americana e i suoi valori: diversi di loro sostenevano lo Stato sociale e i sindacati, erano conservatori sulle questioni culturali, socialdemocratici su quelle sociali e falchi in politica estera. L’Economist sostiene che anche Trump e la sua cerchia ristretta, in particolare l’immobiliarista e inviato speciale Steve Witkoff, hanno un «sistema globale di valori», basato sul valore universale del denaro e sulla convinzione che si possa risolvere ogni disputa ad un certo prezzo. Witkoff ha detto al commentatore Tucker Carlson che la pace produce profitti, quindi è «logica». La dottrina Trump? «La si potrebbe chiamare capitalismo clientelare su scala globale: fare accordi negli interessi propri, della propria
famiglia e dei capitalisti americani — dicono i critici come Walzer — Fa accordi e vuole un mondo sicuro per questo tipo di economia globale». Ma anche i suoi sostenitori, come l’ex deputato Matt Gaetz, parlano di un «colonialismo dell’era Trump» basato sul commercio. E i suoi interlocutori si adattano: dal Golfo e dall’Iran, dalla Siria, dalla Russia arrivano offerte di investimenti. E i meccanismi della trattativa trumpiana consistono innanzitutto nel provocare o consentire che le tensioni arrivino al punto massimo, poi suggerire compromessi con costi ma anche profitti per ogni parte, e infine, dichiarare vittoria in ogni caso.
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