venerdì 30 maggio 2025

Il declino apparente della politica

Michele Emiliano e Giuseppe Conte


Qualcuno ha intitolato "La morte della politica" l'articolo che Massimo Recalcati ha scritto per la Repubblica. Titolo infelice. La politica è un aspetto insopprimibile della consociazione umana. Solo la morte della società potrebbe mettere fine alla politica. Che invece continuamente si evolve, si trasforma, assume nuove sembianze. Da ultimo è risorta paradossalmente come antipolitica. Il passato, lo scontro fazioso, il pregiudizio, le battaglie ideologiche sono solo una parte di ciò che anima la scena pubblica per il momento. Recalcati guarda al destino della sinistra. Sulla scena pubblica assistiamo invece allo spettacolo di una destra che si rivela capace di superare lo scontro fazioso, il pregiudizio, le barricate ideologiche in nome di una superiore unità. Quanto al passato, nel caso di Giorgia Meloni, si assiste a una pratica rimozione. Insomma Recalcati vede la soluzione della crisi nel superamento della dimensione partiticaÈ uno psicanalista, non un sociologo, ragiona sulle persone, non considera il corpo sociale e la sua interna dinamica. In realtà, dalle istituzioni non si esce mai del tutto. Delle due l'una: o il movimento prende il posto dell'istituzione e si fa allora istituzione a sua volta, o l'istituzione assorbe il movimento che perde allora il suo carattere magmatico. Nella vicenda attuale della sinistra italiana, il movimento si è già fatto istituzione con i 5 Stelle passati da Grillo a Conte. Ha assunto quindi una fisionomia priva o carente di capacità attrattive, altrimenti detto manca di un respiro egemonico. Per il momento siamo alla competizione logorante tra partiti (istituzioni) che si escludono a vicenda. E si torna alle persone. Solo l'intervento di una figura altra - non Schlein né Conte - dotata non solo di una sensibilità unitaria (come Schlein) o di una vocazione movimentista (come Conte) ma di una virtù unificante supplementare in termini di immagine, messaggio e intuizione strategica può condurre a una svolta, all'uscita dallo stallo che tanto danno procura alla politica (di sinistra) e tiene in ostaggio il paese.     

Massimo Recalcati
La morte della politica
la Repubblica, 30 maggio 2025

La totale indifferenza che sembra circondare gli imminenti referendum non concerne tanto i contenuti che essi propongono, ma assai più in generale, il rapporto con la politica. E poiché a riconoscere nella passione per la politica una ragione fondamentale della vita individuale e di quella collettiva è stata nel nostro Paese la cultura di sinistra, in gioco è una evidente crisi di questa cultura a fare davvero presa sulla società civile. Dato che diviene ancora più evidente e sconcertante se lo si rapporta alle nuove generazioni. Non tanto però per la loro mancanza di fondamentali — in un film di diversi anni fa Veltroni aveva mostrato quanto per le nuove generazioni un nome come quello di Berlinguer fosse del tutto sconosciuto –, ma perché la politica come tale non è più in grado di accendere le loro vite. Ai loro occhi essa appare come un discorso decrepito, incomprensibile, senza vita. E quando è accaduto che vi fosse uno slancio — penso alla mobilitazione giovanile ecologista a difesa delle sorti del nostro pianeta — si è subito proceduto a stigmatizzarlo come politicamente ingenuo e privo di prospettive. Di certo se la politica ha perso il suo valore ideale non è per una semplice inettitudine dei nostri figli. La crisi della politica assomiglia piuttosto proprio alla crisi ecologica: è talmente evidente e talmente profonda che ogni iniziativa per trattarla appare insufficiente, come provare a svuotare l’acqua del mare con un secchiello. Dunque meglio ignorarla.

Per esempio si potrà citare la formidabile manifestazione per l’Europa convocata da Michele Serra dalle pagine di questo giornale o le recentissime belle vittorie dei candidati di centro sinistra al governo di grandi città, per smentire la validità della mia diagnosi. Ma questi riferimenti positivi coprono il grande vuoto che ci circonda. Nel nuovo secolo i sogni di trasformazione del nostro paese concepiti da sinistra hanno avuto ai miei occhi due soli nomi, tra loro molto diversi, ma accomunati dall’avere reso possibile una politica riformista in grado di governare in modo nuovo il nostro paese, avvicinando alla politica gli entusiasmi profondi delle nuove generazioni. Si tratta di Vendola e di Renzi. Cosa era successo allora? Si era imposta l’idea che la politica potesse essere innanzitutto un laboratorio di idee, uno sforzo collettivo di poesia. E in molti ci avevano creduto. L’uscita di scena di Vendola, gli errori e il declino irreversibile di Renzi hanno spento quegli entusiasmi radicalmente riformisti, ma da allora a sinistra non è mai più accaduto nulla di simile. La politica è rientrata nei ranghi dell’amministrazione, dei dossier, di un linguaggio incomprensibile e astratto fatto di slogan impotenti, di uomini e di donne più preoccupati di mantenere i propri posti che a scommettere sull’avvenire, di calcoli cinici sulle alleanze e sulle strategie elettorali. Vendola e Renzi sono stati invece due outsider della politica che a loro modo, sebbene per una breve stagione, hanno rappresentato degli antidoti efficaci di fronte alla marea montante dell’antipolitica populista. I soli in grado di parlare con forza irrituale, fuori dagli schemi consolidati dell’istituzionalizzazione, alle nuove generazioni. È proprio di questo antidoto che avrebbe bisogno ancora la politica per ritrovare la sua forza propulsiva. Non restare prigionieri del passato, dello scontro fazioso, del pregiudizio, delle barricate ideologiche. La passione per la politica non può essere sequestrata dalla sua istituzionalizzazione partitica. La sua condizione comatosa che l’astensionismo rivela in modo clamoroso non dipende allora tanto dall’indifferenza dei nostri figli, ma da una cultura di sinistra che ha sperperato un enorme patrimonio emotivo e intellettuale. È esistita una sinistra di governo in grado di trasformare effettivamente — come fece, per esempio, Vendola nel tempo della sua amministrazione riscattando una regione senza avvenire — la vita dei cittadini in termini di giustizia sociale, di diritti e di prospettive di progresso. Non potranno essere le recenti vittorie elettorali a guarire il corpo moribondo della politica. Sarebbe necessario uno scatto, un movimento nuovo, un progetto. Ma i politici di professione sono spesso i maggiori avversari della politica come passione. Sono talmente immersi nella vita ordinaria della piccola politica che si rivelano incapaci di compiere qualunque sforzo di poesia. Eppure è di questo sforzo che avremmo bisogno per riavvicinare i giovani alla politica.

Quando Marco Pannella sosteneva, in direzione ostinatamente contraria, la nobilità dell’istituto referendario raggiungendo obbiettivi politici che oggi tutti consideriamo irrinunciabili, il suo linguaggio sapeva spezzare il codice cristallizzato della politica istituzionalizzata. Sapeva allargare gli orizzonti incarnando una testimonianza credibile di cosa può essere la politica vissuta come passione. I nostri leader attuali non hanno più quella forza. Le loro parole sembra che ogni volta cadano nel vuoto dello slogan e in tatticismi senza cuore. Questo accresce la sensazione nelle nuove generazioni di essere orfani allo sbando. La politica che rientra nella scatola chiusa della politica istituzionalizzata non ha nessun futuro. L’invocazione ideologica — per esempio quella dell’antifascismo — diventa allora solo un mantra che ci fa sentire ancora vivi mentre siamo già morti.

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Nella dialettica tra movimento e istituzione si può pensare che l'istituzione in crisi sia un giorno sostituita dal movimento? Oppure, prima o poi, dovrà essere l'istituzione a cambiare riprendendo il suo posto e ritrovando il suo ruolo?

Chat Gpt

La dialettica tra movimento e istituzione è un tema classico del pensiero politico e sociale, soprattutto a partire dalla filosofia di Hegel, ma anche nella sociologia (pensiamo a Max Weber) e nei movimenti del '900 (ad esempio, pensatori come Cornelius Castoriadis o Mario Tronti).

Per rispondere alla tua domanda, possiamo distinguere due scenari:


1. Il movimento che sostituisce l’istituzione

In teoria, un movimento può anche prendere il posto di un’istituzione in crisi. Tuttavia, nel momento in cui un movimento si stabilizza e comincia a regolare comportamenti, ruoli e norme, esso tende a istituzionalizzarsi. È ciò che accade spesso ai movimenti rivoluzionari: nascono come forza di rottura, ma per durare devono darsi una struttura, e quindi diventano istituzioni.
Esempio storico: la Rivoluzione francese genera il Terrore, poi il Direttorio, poi Napoleone: il movimento rivoluzionario genera nuove istituzioni.

Quindi, in questo scenario, la sostituzione è solo apparente: il movimento, per esistere nel tempo, si trasforma in istituzione.


2. L’istituzione che cambia per incorporare il movimento

Un'altra ipotesi è che l’istituzione, pur in crisi, assorba e trasformi le spinte del movimento. Qui l’istituzione non viene sostituita, ma rigenerata.
Questo è un processo dialettico più “evolutivo”: il movimento mette in crisi lo status quo, l’istituzione reagisce, si modifica, si rinnova. In questo modo, mantiene la sua funzione di stabilizzazione, ma senza irrigidirsi.

Esempio contemporaneo: molte conquiste sociali (diritti civili, ambientali, femministi) nascono dai movimenti, ma trovano concretezza solo quando le istituzioni li riconoscono e li traducono in norme, pratiche, leggi.


Conclusione

Non si tratta di una scelta netta tra “sostituzione” o “ripresa del posto”. Storicamente e teoricamente, l’esito più frequente è che il movimento venga assorbito, trasformato o tradotto in istituzione. Quando ciò non avviene, o il movimento svanisce, o produce una nuova istituzione che, nel tempo, potrà a sua volta entrare in crisi.

Questa dialettica non ha fine: ogni istituzione porta in sé il seme del suo superamento, e ogni movimento, per durare, deve affrontare la sfida della forma.

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