domenica 25 maggio 2025

L'amore al tempo del nichilismo

 


La Capria sulle Lezioni di letteratura russa di Nabokov

Ora, tornando a quella «mezza dozzina di maestri della prosa» Nabokov afferma: «Lasciando da parte Puškin e Lermontov, possiamo elencare i grandi prosatori messi in quest’ordine di grandezza: primo Tolstoj, secondo Gogol’, terzo Cechov, quarto Turgenev». 
Quando passa da Gogol’ a Turgenev, Nabokov è più tiepido. Riconosce in lui i segni della grande letteratura russa, ma Turgenev più che grande è «piacevole». Comunque Padri e figli è uno dei più brillanti romanzi dell’Ottocento, e non è un riconoscimento da poco. 


Valeria Bottone
Lezioni di letteratura russa / Nabokov: Tolstoj sì, Dostoevskij no
Doppiozero

Nabokov considera Turgenev uno scrittore gradevole, ma non grande, dalla prosa ben modulata anche se troppo esplicita.

Padri e figli (1862)
i personaggi

  • Evgenij Vassilievič Bazàrov, un giovane medico e intellettuale, nichilista convinto, che rifiuta tutte le forme di idealismo e religione

    Arkadij Kirsanov, figlio di Nikolaj, un giovane ancora in cerca della propria identità, influenzato dalle idee di Bazàrov 
  • Nikolaj  Petrovič Kirsanov. aristocratico, padre di Arkadij, un uomo di campagna, benevolo ma incapace di gestire le proprie terre in modo moderno
  • Pavel Petrovič Kirsanov, fratello maggiore di Nikolaj, un uomo di corte, aristocratico e tradizionalista, che si oppone alle idee di Bazàrov 
  • Anna Sergeevna Odintsova,  bella vedova, ancora giovane, aristocratica indipendente e anticonformista dotata di un sicuro fascino

    Katja, 
    Katerina Sergeevna Lotkevasorella minore di Anna, donna tranquilla, timida e riservata, e tuttavia dolce e sensibile

    Fenečkauna contadina, 
    c
    ompagna e poi moglie di Nikolaj Petrovič. Hanno un figlio insieme, Mitja 
La Odintsova

Arkàdij ballava male, come sappiamo, e Bazàrov non ballava affatto: si erano rifugiati in un angolo dove erano stati raggiunti da Sìtnikov che, con il suo sorrisino sprezzante, si guardava intorno in maniera arrogante facendo osservazioni velenose e provando, a quanto sembrava, un autentico piacere. Improvvisamente cambiò espressione e, imbarazzato, si rivolse ad Arkàdij. «È arrivata la Odintsòva», disse.
Arkàdij si voltò e vide una donna alta, con un vestito nero, ferma sulla porta della sala. Fu colpito dalla dignità del suo portamento. Le sue braccia nude si allungavano con grazia lungo la figura sottile; dai capelli lucenti cadevano delicatamente sulla curva dolce delle spalle leggeri rametti di fucsia; gli occhi chiari guardavano intelligenti e calmi - calmi non pensosi - da sotto alla fronte bianca sporgente, e le labbra sorridevano in modo appena percettibile. Una forza serena, soave, emanava dal suo viso.
«La conosce?», domandò Arkàdij a Sìtnikov.
«Molto bene. Vuole esserle presentato?».
«Sì... dopo questa quadriglia».
Anche l'attenzione di Bazàrov fu attratta dalla Odincòva.
«Chi è quella? Non somiglia alle altre donne», disse.
Alla fine della quadriglia, Sìtnikov condusse Arkàdij dalla Odincòva; benché si conoscessero molto bene, si confuse nel parlarle e lei lo guardò con un certo stupore. Ma il suo viso assunse un'espressione cordiale quando sentì il cognome di Arkàdij. Gli domandò se fosse figlio di Nikolàj Petròvi
č.
«Proprio così». 
«Ho visto suo padre due volte e ho sentito molto parlare di lui», continuò lei, «sono molto contenta di conoscerla».
In quel momento un aiutante di campo si precipitò da lei e la invitò per la quadriglia. Lei accettò.
«Balla?», domandò rispettosamente Arkàdij.
«Ballo. Perché pensava che non ballassi? Le sembro troppo vecchia?».
«Ma la prego... Mi permetta invece di invitarla per la mazurca».
La Odintsòva rise. «Volentieri», e guardò Arkàdij, non dall'alto in basso, ma come le sorelle sposate guardano di solito i fratelli più giovani.
La Odintsòva era di poco più vecchia di Arkàdij, aveva ventotto anni, ma davanti a lei Arkàdij si sentiva come uno scolaro, uno studentino, come se tra di loro ci fosse una differenza di età molto maggiore. Quando Matvèj Il'ì
č  le si avvicinò, con aria maestosa e parole ossequiose, si fece di lato, ma continuò a osservarla e non le tolse gli occhi di dosso anche durante la quadriglia. Lei conversava con il suo ballerino con la stessa disinvoltura con cui aveva parlato al dignitario, muoveva piano la testa e gli occhi, e un paio di volte rise sommessamente. Aveva un naso un po' grosso, come quasi tutti i russi, e il colore della sua pelle non era perfettamente puro; ma Arkàdij decise che non aveva ancora mai incontrato una donna così deliziosa. Il suono della sua voce risuonava nelle sue orecchie. Le stesse pieghe del suo vestito sembravano cadere su di lei in modo diverso che sulle altre, più armoniose e più ampie, e i suoi movimenti erano aggraziati e naturali al tempo stesso. Arkàdij si sentiva in cuore una specie di timidezza mentre, alle prime note della mazurca, prendeva posto accanto alla sua dama; cercò di dare inizio alla conversazione, ma fu capace soltanto di passarsi una mano sui capelli e non riuscì a dire una parola. Ma non si vergognò e non si agitò a lungo; la calma della Odintsòva si comunicò anche a lui: non era ancora passato un quarto d'ora e già chiacchierava con disinvoltura di suo padre, dello zio, della vita a Pietroburgo e della vita in campagna. La Odintsòva lo ascoltava con gentilezza, aprendo e chiudendo leggermente il ventaglio; le chiacchiere di Arkàdij si interrompevano quando lei veniva scelta da un cavaliere. Sìtnikov la invitò due volte. Lei ritornava, si sedeva di nuovo, prendeva il ventaglio, ma il suo respiro non si era fatto più affannoso, e Arkàdij ricominciava a chiacchierare, pervaso dalla felicità di trovarsi vicino a lei, di parlarle guardando i suoi occhi, la sua bellissima fronte, il suo caro viso serio e intelligente. Lei parlava poco, ma dalle sue parole e da alcune sue osservazioni Arkàdij capì che conosceva la vita e concluse che quella giovane donna aveva già fatto in tempo a provare molti sentimenti e a riflettere molto.
«Chi era con lei», gli domandò la Odintsòva, «quando il signor Sìtnikov l'ha accompagnata da me?».
«L'ha notato?», domandò a sua volta Arkàdij. «È vero che ha una bella faccia? Si chiama Bazàrov, è un mio amico».
Arkàdij si mise a parlare del «suo amico». Lo descrisse con tanti particolari e con tanto entusiasmo, che la Odintsòva si voltò verso Bazàrov e lo guardò. La mazurca stava per concludersi. Arkàdij divenne triste all'idea di doversi separare dalla sua dama. Aveva passato con lei un'ora così piacevole! Veramente per tutto quel tempo aveva avuto la sensazione che lei lo trattasse con condiscendenza e che lui dovesse avere per lei della gratitudine... ma i cuori giovani non si lasciano tormentare da queste sensazioni.
La musica tacque.
«Merci», disse la Odintsòva alzandosi. «Ha promesso di venirmi a trovare, porti anche il suo amico. Sarò molto curiosa di vedere una persona che ha il coraggio di non credere in niente».
Il governatore si avvicinò alla Odintsòva, la informò che la cena era pronta e le porse con sussiego il braccio. Uscendo lei si voltò per fare un ultimo sorriso e un cenno ad Arkàdij.
Arkàdij si inchinò profondamente e seguitò a guardarla mentre si allontanava (come gli parve aggraziata la sua figura avvolta nel riflesso grigiastro della seta nera!), e mentre pensava "in questo momento si sarà già dimenticata della mia esistenza", provò una specie di raffinata rassegnazione.
«E allora?», domandò Bazàrov appena Arkàdij lo raggiunse, «ti sei divertito? Un signore mi ha appena detto che quella signora è ahi-ahi-ahi, ma quel signore mi sembra un cretino. Secondo te è davvero ahi-ahi-ahi?».
«Non capisco bene questa definizione», rispose Arkàdij.
«Eccolo ancora, l'innocente!».
«Se è così non capisco quel signore. La Odintsòva è molto simpatica, indiscutibilmente, ma si comporta così freddamente e severamente che...».
«Ma sai che le acque chete... », disse Bazàrov. «Dici che è fredda. Anche questo ha il suo sapore. Ti piace il gelato?».
«Forse», borbottò Arkàdij, «non posso giudicare. Vuole conoscerti e mi ha chiesto di portarti da lei».
«Immagino come mi hai descritto! Ma hai fatto bene. Portamici. Non so se è una semplice bellezza di provincia o una emancipée sul tipo della Kùkšina, ma non vedevo spalle così da molto tempo».
Arkàdij rimase disgustato dal cinismo di Bazàrov, ma, come succede spesso, rimproverò al suo amico non esattamente quello che in lui non gli piaceva.
«Perché non vuoi concedere la libertà di pensiero alle donne?», disse a mezza voce.
«Perché ho capito che tra le donne la libertà di pensiero è appannaggio dei mostri».
La conversazione a questo punto s'interruppe. I due giovani uscirono subito dopo cena. La Kùkšina rise alle loro spalle nervosamente e malignamente, ma non senza vergogna: il suo amor proprio era rimasto profondamente ferito perché né l'uno né l'altro le aveva prestato attenzione. Rimase al ballo più a lungo di tutti e alle quattro della mattina ballava con Sìtnikov una polka-mazurca alla maniera francese. Con questo spettacolo esemplare si concluse anche la festa del governatore.

Il giorno seguente all'ora del tè quando comparve Anna Sergèevna, Bazàrov fissò a lungo la propria tazza, senza alzare gli occhi, poi la guardò all'improvviso... e lei si voltò verso di lui come se le avesse dato uno spintone. Bazàrov pensò che il suo viso si era fatto più pallido durante la notte. Lei tornò presto nella sua stanza e riapparve solo per la colazione. Fin dalla mattina il tempo era piovoso e non si poteva uscire. Tutti si riunirono in salotto. Arkàdij prese l'ultimo numero di una rivista e cominciò a leggere. La principessina, come sua abitudine, dapprima assunse un'espressione di stupore, come se Arkàdij avesse commesso una maleducazione, poi lo fissò con cattiveria; ma lui, non le badò.
«Evgènij Vasìl'eviè», disse Anna Sergèevna, «salga un momento da me... Vorrei chiederle... Ieri sera mi ha parlato di un manuale...». Si alzò e andò alla porta. La principessina assunse subito l'espressione di chi vuol dire: Guardate, guardate la mia meraviglia! E di nuovò fisso Arkàdij, lui si schiarì la voce, scambiò un'occhiata con Kàtja che gli sedeva vicino e riprese a leggere.
La Odintsòva, a passi rapidi, arrivò al suo studio. Anche Bazàrov camminava in fretta e la seguiva senza alzare gli occhi, cogliendo solo il sottile fruscio dell'abito di seta che scivolava davanti a lui. La Odintsòva si sedette sulla stessa poltrona della vigilia, e Bazàrov sulla stessa seggiola.
«Allora come si chiama questo libro?», chiese lei dopo un breve silenzio.
«Pélouse et Frémy, Notions générales...», rispose Bazàrov. «Ma potrei raccomandarle anche Ganot, Traité élémentaire de physique expérimentale. I disegni sono più precisi e nell'insieme è un manuale...».
Anna Sergèevna tese la mano.
«Evgènij Vasìl'i
č, mi scusi, ma io l'ho chiamata qui non per ragionare di manuali. Io volevo riprendere la conversazione di ieri. Lei se n'è andato così all'improvviso... Non si annoierà?».
«Sono al suo servizio, Anna Sergèevna. Ma di che cosa parlavamo ieri?».
Lei gli lanciò un'occhiata di sbieco.
«Parlavamo, mi sembra, della felicità. Io le raccontavo di me, e avevo menzionato la parola "felicità". Mi dica perché, anche quando godiamo, per esempio, della musica, di una bella serata, di una conversazione con persone simpatiche, perché tutto sembra più un'allusione a una felicità smisurata che esiste altrove, che non la felicità vera alla nostra portata? Perché? Oppure lei non ha questa sensazione?».
«Conosce il proverbio: "Si sta bene dove non si è"?», disse Bazàrov. «E poi lei stessa ieri ha detto di non essere soddisfatta. A me questi pensieri non passano neanche per la mente».
«Forse le sembrano ridicoli?».
«No, ma non mi vengono in mente».
«Veramente? Sa che io desidererei molto sapere quel che lei pensa?».
«Sì? Non la capisco».
«Ascolti, da molto volevo spiegarmi con lei. È inutile che glielo dica, perché anche lei sa di essere una persona non comune. È giovane, ha tutta la vita davanti a sé. A che cosa si sta preparando? Che futuro l'aspetta? Voglio dire, che scopi vuole raggiungere, dove sta andando, che cosa c'è nella sua anima? Insomma chi è lei, che cosa è?».
«Lei mi stupisce, Anna Sergèevna. Sa che io studio scienze naturali, e che sono...».
«Sì, chi è lei?».
«Le ho già dichiarato che sono un futuro medico distrettuale».
Anna Sergèevna fece un gesto impaziente.
«Perché mi dice queste cose? Non ci crede neanche lei. Così avrebbe potuto rispondermi Arkàdij, non lei».
«Ma Arkàdij è forse...».
«Basta! Possibile che lei possa trovare soddisfazione in una attività così squallida? Non ha sempre affermato lei stesso che la medicina non esiste? Lei, con il suo amor proprio, medico distrettuale. Mi risponde così per liberarsi di me, perché non ha nessuna fiducia in me. Non sa, invece, che io potrei capirla. Anche io sono stata povera e orgogliosa, come lei; ho dovuto, forse, affrontare le stesse prove».
«Va benissimo, Anna Sergèevna, ma mi scusi... io non sono abituato a esprimere i miei pensieri, e tra me e lei c'è una distanza così grande...».
«Quale distanza? Mi sta di nuovo dicendo che sono un'aristocratica? Basta, Evgènij Vasìl'ič, mi sembra di averle dimostrato...».«
E poi», la interuppe Bazàrov, «come si può aver voglia di parlare o di pensare all'avvenire se per la maggior parte non dipende da noi? Se c'è la possibilità di fare qualcosa, benissimo, se non c'è almeno non se ne sarà chiacchierato inutilmente».
«Lei definisce chiacchiere inutili una conversazione amichevole... Oppure, forse, non ritiene che una donna sia degna della sua fiducia? Le disprezza tutte, forse».
«Io non la disprezzo Anna Sergèevna, e lei lo sa».
«No, non so niente... ma supponiamo: io capisco che lei non desideri parlare del futuro del suo lavoro, ma di quel che le sta accadendo adesso...».
«Accadendo!», ripeté Bazàrov, «come se io fossi uno stato, una specie di società! In ogni caso non c'è niente di interessante; e poi non è detto che una persona possa sempre esprimere ad alta voce tutto quello che le sta "accadendo"».
«Non capisco perché non si possa dire tutto quello che si ha nell'anima».
«Lei può?».
«Posso», rispose Anna Sergèevna dopo una piccola esitazione.
Bazàrov abbassò la testa.
«Lei è più fortunata di me».
Anna Sergèevna gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Come vuole», disse, «eppure qualcosa mi dice che non ci siamo incontrati invano. Sono sicura che questa sua, come la si può chiamare, tensione, questa riservatezza alla fine sparirà».
«Lei ha notato in me della riservatezza... e poi, come ha detto... della tensione?».
«Sì».
Bazàrov si alzò e andò alla finestra.
«E avrebbe voluto conoscere la causa di questa riservatezza, avrebbe voluto sapere che cosa sta accadendo dentro di me?».
«Sì», ripeté la Odintsòva con uno sgomento per lei stessa incomprensibile.
«E non si arrabbierà?».
«No».
«No?», Bazàrov le volgeva le spalle. «Allora sappia che io l'amo, stupidamente, follemente... Ecco quello che ha ottenuto».
La Odintsòva protese in avanti le braccia, Bazàrov premette la fronte contro il vetro della finestra. Soffocava, tutto il suo corpo tremava in modo evidente. Ma non era il fremito della timidezza giovanile, non era il dolce terrore della prima confessione che si era impossessato di lui, ma la passione, forte e opprimente, come la rabbia, forse affine alla rabbia... La Odintsòva ne provò paura e compassione.
«Evgènij Vasìl'i Bazàrov abbassò la testa.

«Lei è più fortunata di me».
Anna Sergèevna gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Come vuole», disse, «eppure qualcosa mi dice che non ci siamo incontrati invano. Sono sicura che questa sua, come la si può chiamare, tensione, questa riservatezza alla fine sparirà».
«Lei ha notato in me della riservatezza... e poi, come ha detto... della tensione?».
«Sì».
Bazàrov si alzò e andò alla finestra.
«E avrebbe voluto conoscere la causa di questa riservatezza, avrebbe voluto sapere che cosa sta accadendo dentro di me?».
«Sì», ripeté la Odintsòva con uno sgomento per lei stessa incomprensibile.
«E non si arrabbierà?».
«No».
«No?», Bazàrov le volgeva le spalle. «Allora sappia che io l'amo, stupidamente, follemente... Ecco quello che ha ottenuto».
La Odintsòva protese in avanti le braccia, Bazàrov premette la fronte contro il vetro della finestra. Soffocava, tutto il suo corpo tremava in modo evidente. Ma non era il fremito della timidezza giovanile, non era il dolce terrore della prima confessione che si era impossessato di lui, ma la passione, forte e opprimente, come la rabbia, forse affine alla rabbia... La Odintsòva ne provò paura e compassione.
«Evgènij Vasìl'i Bazàrov abbassò la testa.
«Lei è più fortunata di me».
Anna Sergèevna gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Come vuole», disse, «eppure qualcosa mi dice che non ci siamo incontrati invano. Sono sicura che questa sua, come la si può chiamare, tensione, questa riservatezza alla fine sparirà».
«Lei ha notato in me della riservatezza... e poi, come ha detto... della tensione?».
«Sì».
Bazàrov si alzò e andò alla finestra.
«E avrebbe voluto conoscere la causa di questa riservatezza, avrebbe voluto sapere che cosa sta accadendo dentro di me?».
«Sì», ripeté la Odintsòva con uno sgomento per lei stessa incomprensibile.
«E non si arrabbierà?».
«No».
«No?», Bazàrov le volgeva le spalle. «Allora sappia che io l'amo, stupidamente, follemente... Ecco quello che ha ottenuto».
La Odintsòva protese in avanti le braccia, Bazàrov premette la fronte contro il vetro della finestra. Soffocava, tutto il suo corpo tremava in modo evidente. Ma non era il fremito della timidezza giovanile, non era il dolce terrore della prima confessione che si era impossessato di lui, ma la passione, forte e opprimente, come la rabbia, forse affine alla rabbia... La Odintsòva ne provò paura e compassione.
«Evgènij Vasìl'iè», disse, e una dolcezza involontaria risuonò nelle sue parole.
Lui si voltò di scatto, le gettò uno sguardo divorante, l'afferrò per le braccia e l'attirò a sé.
Anna Sergèevna non si liberò subito dal suo abbraccio, ma un attimo dopo era già lontana da lui e lo guardava. Bazàrov si lanciò verso di lei...
«Lei non mi ha capito», bisbigliava Anna Sergèevna, concitata e impaurita. Sembrava che se Bazàrov avesse fatto un altro passo, lei avrebbe lanciato un grido... Bazàrov si morse le labbra e uscì.
Mezz'ora più tardi la cameriera consegnò ad Anna Sergèevna un suo biglietto, che consisteva di una sola riga:
Devo partire oggi, o posso rimanere fino a domani?
Perché partire? Io non avevo capito lei e lei non ha capito me, gli rispose Anna Sergèevna mentre pensava: io non avevo capito nemmeno me stessa.
Non comparve fino all'ora di pranzo e continuò a camminare avanti e indietro nella sua stanza, con le mani dietro la schiena, fermandosi solo ogni tanto alla finestra o davanti allo specchio, e passandosi lentamente il fazzoletto sul collo, dove le sembrava di avere una macchia bruciante. Si domandava che cosa l'avesse spinta a cercare di «ottenere», come aveva detto Bazàrov, la sua sincerità, e se sospettava qualcosa anche prima. «La colpa è mia», disse a voce alta, «ma non potevo prevederlo». Restò soprappensiero e arrossì ricordando l'espressione quasi animalesca di Bazàrov quando si era lanciato verso di lei...
«Oppure?», disse a un tratto a voce alta, si fermò, scosse i riccioli. Si vide nello specchio; la sua testa gettata all'indietro, con un sorriso misterioso negli occhi, e sulle labbra socchiuse, sembrava dirle in quell'istante qualcosa che la turbò...
No, decise alla fine, Dio sa che cosa succederebbe, non si può scherzare, la tranquillità è la cosa più importante del mondo. La sua tranquillità non era stata sconvolta, ma lei era diventata triste e aveva anche pianto senza sapere perché, non per l'offesa subita, non si sentiva offesa, ma colpevole. Sotto l'influenza di confusi e diversi sentimenti, della consapevolezza della vita che se ne va e del desiderio di novità, era arrivata fino a un limite conosciuto, e quando si era imposta di guardare oltre quel limite aveva visto non l'abisso, ma il vuoto... o il mostruoso.Bazàrov abbassò la testa.
«Lei è più fortunata di me».
Anna Sergèevna gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Come vuole», disse, «eppure qualcosa mi dice che non ci siamo incontrati invano. Sono sicura che questa sua, come la si può chiamare, tensione, questa riservatezza alla fine sparirà».
«Lei ha notato in me della riservatezza... e poi, come ha detto... della tensione?».
«Sì».
Bazàrov si alzò e andò alla finestra.
«E avrebbe voluto conoscere la causa di questa riservatezza, avrebbe voluto sapere che cosa sta accadendo dentro di me?».
«Sì», ripeté la Odintsòva con uno sgomento per lei stessa incomprensibile.
«E non si arrabbierà?».
«No».
«No?», Bazàrov le volgeva le spalle. «Allora sappia che io l'amo, stupidamente, follemente... Ecco quello che ha ottenuto».
La Odintsòva protese in avanti le braccia, Bazàrov premette la fronte contro il vetro della finestra. Soffocava, tutto il suo corpo tremava in modo evidente. Ma non era il fremito della timidezza giovanile, non era il dolce terrore della prima confessione che si era impossessato di lui, ma la passione, forte e opprimente, come la rabbia, forse affine alla rabbia... La Odintsòva ne provò paura e compassione.
«Evgènij Vasìl'ič», disse, e una dolcezza involontaria risuonò nelle sue parole.
Lui si voltò di scatto, le gettò uno sguardo divorante, l'afferrò per le braccia e l'attirò a sé.
Anna Sergèevna non si liberò subito dal suo abbraccio, ma un attimo dopo era già lontana da lui e lo guardava. Bazàrov si lanciò verso di lei...
«Lei non mi ha capito», bisbigliava Anna Sergèevna, concitata e impaurita. Sembrava che se Bazàrov avesse fatto un altro passo, lei avrebbe lanciato un grido... Bazàrov si morse le labbra e uscì.
Mezz'ora più tardi la cameriera consegnò ad Anna Sergèevna un suo biglietto, che consisteva di una sola riga:
Devo partire oggi, o posso rimanere fino a domani?
Perché partire? Io non avevo capito lei e lei non ha capito me, gli rispose Anna Sergèevna mentre pensava: io non avevo capito nemmeno me stessa.
Non comparve fino all'ora di pranzo e continuò a camminare avanti e indietro nella sua stanza, con le mani dietro la schiena, fermandosi solo ogni tanto alla finestra o davanti allo specchio, e passandosi lentamente il fazzoletto sul collo, dove le sembrava di avere una macchia bruciante. Si domandava che cosa l'avesse spinta a cercare di «ottenere», come aveva detto Bazàrov, la sua sincerità, e se sospettava qualcosa anche prima. «La colpa è mia», disse a voce alta, «ma non potevo prevederlo». Restò soprappensiero e arrossì ricordando l'espressione quasi animalesca di Bazàrov quando si era lanciato verso di lei...
«Oppure?», disse a un tratto a voce alta, si fermò, scosse i riccioli. Si vide nello specchio; la sua testa gettata all'indietro, con un sorriso misterioso negli occhi, e sulle labbra socchiuse, sembrava dirle in quell'istante qualcosa che la turbò...
No, decise alla fine, Dio sa che cosa succederebbe, non si può scherzare, la tranquillità è la cosa più importante del mondo. La sua tranquillità non era stata sconvolta, ma lei era diventata triste e aveva anche pianto senza sapere perché, non per l'offesa subita, non si sentiva offesa, ma colpevole. Sotto l'influenza di confusi e diversi sentimenti, della consapevolezza della vita che se ne va e del desiderio di novità, era arrivata fino a un limite conosciuto, e quando si era imposta di guardare oltre quel limite aveva visto non l'abisso, ma il vuoto... o il mostruoso.Bazàrov abbassò la testa.
«Lei è più fortunata di me».
Anna Sergèevna gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Come vuole», disse, «eppure qualcosa mi dice che non ci siamo incontrati invano. Sono sicura che questa sua, come la si può chiamare, tensione, questa riservatezza alla fine sparirà».
«Lei ha notato in me della riservatezza... e poi, come ha detto... della tensione?».
«Sì».
Bazàrov si alzò e andò alla finestra.
«E avrebbe voluto conoscere la causa di questa riservatezza, avrebbe voluto sapere che cosa sta accadendo dentro di me?».
«Sì», ripeté la Odintsòva con uno sgomento per lei stessa incomprensibile.
«E non si arrabbierà?».
«No».
«No?», Bazàrov le volgeva le spalle. «Allora sappia che io l'amo, stupidamente, follemente... Ecco quello che ha ottenuto».
La Odintsòva protese in avanti le braccia, Bazàrov premette la fronte contro il vetro della finestra. Soffocava, tutto il suo corpo tremava in modo evidente. Ma non era il fremito della timidezza giovanile, non era il dolce terrore della prima confessione che si era impossessato di lui, ma la passione, forte e opprimente, come la rabbia, forse affine alla rabbia... La Odintsòva ne provò paura e compassione.
«Evgènij Vasìl'ič», disse, e una dolcezza involontaria risuonò nelle sue parole.
Lui si voltò di scatto, le gettò uno sguardo divorante, l'afferrò per le braccia e l'attirò a sé.
Anna Sergèevna non si liberò subito dal suo abbraccio, ma un attimo dopo era già lontana da lui e lo guardava. Bazàrov si lanciò verso di lei...
«Lei non mi ha capito», bisbigliava Anna Sergèevna, concitata e impaurita. Sembrava che se Bazàrov avesse fatto un altro passo, lei avrebbe lanciato un grido... Bazàrov si morse le labbra e uscì.
Mezz'ora più tardi la cameriera consegnò ad Anna Sergèevna un suo biglietto, che consisteva di una sola riga:
Devo partire oggi, o posso rimanere fino a domani?
Perché partire? Io non avevo capito lei e lei non ha capito me, gli rispose Anna Sergèevna mentre pensava: io non avevo capito nemmeno me stessa.
Non comparve fino all'ora di pranzo e continuò a camminare avanti e indietro nella sua stanza, con le mani dietro la schiena, fermandosi solo ogni tanto alla finestra o davanti allo specchio, e passandosi lentamente il fazzoletto sul collo, dove le sembrava di avere una macchia bruciante. Si domandava che cosa l'avesse spinta a cercare di «ottenere», come aveva detto Bazàrov, la sua sincerità, e se sospettava qualcosa anche prima. «La colpa è mia», disse a voce alta, «ma non potevo prevederlo». Restò soprappensiero e arrossì ricordando l'espressione quasi animalesca di Bazàrov quando si era lanciato verso di lei...
«Oppure?», disse a un tratto a voce alta, si fermò, scosse i riccioli. Si vide nello specchio; la sua testa gettata all'indietro, con un sorriso misterioso negli occhi, e sulle labbra socchiuse, sembrava dirle in quell'istante qualcosa che la turbò...
No, decise alla fine, Dio sa che cosa succederebbe, non si può scherzare, la tranquillità è la cosa più importante del mondo. La sua tranquillità non era stata sconvolta, ma lei era diventata triste e aveva anche pianto senza sapere perché, non per l'offesa subita, non si sentiva offesa, ma colpevole. Sotto l'influenza di confusi e diversi sentimenti, della consapevolezza della vita che se ne va e del desiderio di novità, era arrivata fino a un limite conosciuto, e quando si era imposta di guardare oltre quel limite aveva visto non l'abisso, ma il vuoto... o il mostruoso.», disse, e una dolcezza involontaria risuonò nelle sue parole.
Lui si voltò di scatto, le gettò uno sguardo divorante, l'afferrò per le braccia e l'attirò a sé.
Anna Sergèevna non si liberò subito dal suo abbraccio, ma un attimo dopo era già lontana da lui e lo guardava. Bazàrov si lanciò verso di lei...
«Lei non mi ha capito», bisbigliava Anna Sergèevna, concitata e impaurita. Sembrava che se Bazàrov avesse fatto un altro passo, lei avrebbe lanciato un grido... Bazàrov si morse le labbra e uscì.
Mezz'ora più tardi la cameriera consegnò ad Anna Sergèevna un suo biglietto, che consisteva di una sola riga:
Devo partire oggi, o posso rimanere fino a domani?
Perché partire? Io non avevo capito lei e lei non ha capito me, gli rispose Anna Sergèevna mentre pensava: io non avevo capito nemmeno me stessa.
Non comparve fino all'ora di pranzo e continuò a camminare avanti e indietro nella sua stanza, con le mani dietro la schiena, fermandosi solo ogni tanto alla finestra o davanti allo specchio, e passandosi lentamente il fazzoletto sul collo, dove le sembrava di avere una macchia bruciante. Si domandava che cosa l'avesse spinta a cercare di «ottenere», come aveva detto Bazàrov, la sua sincerità, e se sospettava qualcosa anche prima. «La colpa è mia», disse a voce alta, «ma non potevo prevederlo». Restò soprappensiero e arrossì ricordando l'espressione quasi animalesca di Bazàrov quando si era lanciato verso di lei...
«Oppure?», disse a un tratto a voce alta, si fermò, scosse i riccioli. Si vide nello specchio; la sua testa gettata all'indietro, con un sorriso misterioso negli occhi, e sulle labbra socchiuse, sembrava dirle in quell'istante qualcosa che la turbò...

No, decise alla fine, Dio sa che cosa succederebbe, non si può scherzare, la tranquillità è la cosa più importante del mondo. La sua tranquillità non era stata sconvolta, ma lei era diventata triste e aveva anche pianto senza sapere perché, non per l'offesa subita, non si sentiva offesa, ma colpevole. Sotto l'influenza di confusi e diversi sentimenti, della consapevolezza della vita che se ne va e del desiderio di novità, era arrivata fino a un limite conosciuto, e quando si era imposta di guardare oltre quel limite aveva visto non l'abisso, ma il vuoto... o il mostruoso.è», disse, e una dolcezza involontaria risuonò nelle sue parole.
Lui si voltò di scatto, le gettò uno sguardo divorante, l'afferrò per le braccia e l'attirò a sé.
Anna Sergèevna non si liberò subito dal suo abbraccio, ma un attimo dopo era già lontana da lui e lo guardava. Bazàrov si lanciò verso di lei...
«Lei non mi ha capito», bisbigliava Anna Sergèevna, concitata e impaurita. Sembrava che se Bazàrov avesse fatto un altro passo, lei avrebbe lanciato un grido... Bazàrov si morse le labbra e uscì.
Mezz'ora più tardi la cameriera consegnò ad Anna Sergèevna un suo biglietto, che consisteva di una sola riga:
Devo partire oggi, o posso rimanere fino a domani?
Perché partire? Io non avevo capito lei e lei non ha capito me, gli rispose Anna Sergèevna mentre pensava: io non avevo capito nemmeno me stessa.
Non comparve fino all'ora di pranzo e continuò a camminare avanti e indietro nella sua stanza, con le mani dietro la schiena, fermandosi solo ogni tanto alla finestra o davanti allo specchio, e passandosi lentamente il fazzoletto sul collo, dove le sembrava di avere una macchia bruciante. Si domandava che cosa l'avesse spinta a cercare di «ottenere», come aveva detto Bazàrov, la sua sincerità, e se sospettava qualcosa anche prima. «La colpa è mia», disse a voce alta, «ma non potevo prevederlo». Restò soprappensiero e arrossì ricordando l'espressione quasi animalesca di Bazàrov quando si era lanciato verso di lei...
«Oppure?», disse a un tratto a voce alta, si fermò, scosse i riccioli. Si vide nello specchio; la sua testa gettata all'indietro, con un sorriso misterioso negli occhi, e sulle labbra socchiuse, sembrava dirle in quell'istante qualcosa che la turbò...
No, decise alla fine, Dio sa che cosa succederebbe, non si può scherzare, la tranquillità è la cosa più importante del mondo. La sua tranquillità non era stata sconvolta, ma lei era diventata triste e aveva anche pianto senza sapere perché, non per l'offesa subita, non si sentiva offesa, ma colpevole. Sotto l'influenza di confusi e diversi sentimenti, della consapevolezza della vita che se ne va e del desiderio di novità, era arrivata fino a un limite conosciuto, e quando si era imposta di guardare oltre quel limite aveva visto non l'abisso, ma il vuoto... o il mostruoso.

Katja

«Eccovi anche la mia Kàtja», disse la Odincòva indicandola con un movimento del capo. Kàtja fece una piccola riverenza, si sedette con leggerezza vicino alla sorella e cominciò a sistemare i fiori.
Il levriero, che si chiamava Fifì, si avvicinò scodinzolando a entrambi gli ospiti, a turno, e affondò nella mano di ciascuno la punta fresca del suo naso.
«Li hai raccolti tutti da sola?», domandò la Odincòva.
«Sì», rispose Kàtja.
«E la zia viene a bere il tè?».
«Sì, viene».
Kàtja parlava e intanto sorrideva, aveva un bel sorriso timido e sincero, e guardava da sotto in su con un'espressione divertita e seria al tempo stesso. Tutto in lei era ancora giovane e acerbo, la voce, il volto cosparso di peluria leggera, le mani rosee con circoletti biancastri sulle palme, le spalle un po' troppo strette... Arrossiva in continuazione e respirava in fretta.
La Odincòva si rivolse a Bazàrov.
«Evgènij Vasìl'evič 
lei guarda quelle figure per buona educazione», cominciò. «Non sono cose che possano interessarle. Venga più vicino a noi e discutiamo di qualcosa».

Bazàrov si avvicinò.
«Di che cosa vuole discutere?».
«Di quel che preferisce. L'avverto che nelle discussioni sono terribile».
«Lei?».
«Sì, io. Sembra sorpreso? Perché?».
«Perché, per quanto posso giudicare, lei ha un carattere calmo e freddo e nelle discussioni bisogna lasciarsi trascinare».
«Come può pensare di conoscermi dopo così poco tempo? Io, prima di tutto, sono impaziente e testarda, lo domandi a Kàtja; e poi mi lascio trascinare molto facilmente».
Bazàrov guardò Anna Sergèevna.
«Forse. Lei lo saprà meglio di me! Se vuole una discussione, discutiamo. Stavo guardando quelle vedute della Svizzera Sassone nel suo album, quando lei mi ha fatto notare che non potevano interessarmi. L'ha detto perché ritiene che io non abbia senso artistico, e infatti non ne ho, ma quelle vedute potevano interessarmi dal punto di vista geologico; potevo, per esempio, desiderare di conoscere lo stadio della formazione di quelle montagne».
«Mi scusi ma per la geologia lei farebbe meglio a ricorrere a un libro, a un'opera specialistica e non a un disegno».
«Un disegno presenta al mio sguardo in un'unica immagine quello che un libro espone in dieci pagine».
Anna Sergèevna non rispose.
«E allora lei non avrebbe nemmeno una briciola di senso artistico», disse infine e appoggiò i gomiti sul tavolo avvicinando così il proprio viso a quello di Bazàrov. «E come riesce a farne a meno?».
«Perché? A che cosa serve? Mi permetta di chiederglielo».
«Se non altro a saper riconoscere e studiare le persone».
Bazàrov fece un risolino.
«In primo luogo per questo esiste l'esperienza della vita; e in secondo luogo, le dirò che non vale la pena di studiare le singole persone. Gli uomini si somigliano nel corpo e nell'anima. Tutti hanno il cervello, la milza, il cuore, i polmoni costruiti alla stessa maniera, anche le cosiddette qualità morali sono uguali in tutti; piccole variazioni nell'aspetto non significano nulla. È sufficiente un solo esemplare umano per giudicare tutti gli altri. Le persone sono come gli alberi in un bosco; non esiste un botanico che prenda in esame ogni singola betulla».
Kàtja, che stava scegliendo con cura i fiori per la sua composizione, levò stupita lo sguardo su Bazàrov e incontrando il suo, rapido e incurante, avvampò tutta fino alle orecchie. Anna Sergèevna scosse la testa.
«Gli alberi in un bosco», ripeté. «Dunque per lei non esiste differenza tra una persona stupida e una intelligente, tra un uomo buono e uno malvagio».
«No, una differenza esiste: come tra l'ammalato e il sano. I polmoni di un tisico non si trovano nelle stesse condizioni dei miei e dei suoi, anche se sono fatti alla stessa maniera. Conosciamo solo approssimativamente le cause dei mali fisici, ma i mali morali derivano dalla cattiva educazione, da tutte le sciocchezze di cui la gente si riempie la testa fin dall'infanzia, dalla mostruosità delle condizioni sociali, insomma correggete la società e non esisteranno più malattie».
Sembrava che Bazàrov avesse detto tutte queste cose pensando: che tu mi creda o no, per me è lo stesso! Si passava lentamente le lunghe dita sulle fedine e i suoi occhi erano in continuo movimento.
«Lei ritiene», disse Anna Sergèevna, «che quando saranno corretti gli errori sociali non ci saranno più né stupidi né malvagi?».
«Per lo meno in una società organizzata in modo giusto sarà completamente indifferente che una persona sia stupida o intelligente, cattiva o buona».
«Sì, ho capito. Tutti avranno la stessa milza».
«Proprio così, signora».
La Odintsòva si rivolse ad Arkàdij:
«Qual è la sua opinione, Arkàdij Nikolàeviè?».
«Sono d'accordo con Evgènij».
Kàtja lo guardò da sotto in su.
«Signori, mi stupite», disse la Odincòva, «ma voglio parlare ancora un po' con voi. Adesso sembra però che stia arrivando la mia zietta per il tè; e bisogna aver pietà per le sue orecchie».
La zia di Anna Sergèevna, la principessina Ch..., una donnina magra con il viso ormai piccolo come un pugno e gli occhi fissi e cattivi sotto la parrucca grigia, entrò e, inchinandosi appena davanti agli ospiti, si lasciò cadere su una grande poltrona di velluto, sulla quale nessuno tranne lei aveva diritto di sedersi. Kàtja le mise una sgabello sotto i piedi, la vecchia non la ringraziò, non la guardò neppure, mosse soltanto le mani sotto lo scialle giallo che ricopriva quasi completamente il suo gracile corpo. La principessina amava il giallo: perfino i nastri della sua cuffia erano di un vivido giallo.
«Ha riposato bene, zia?», domandò la Odincòva, alzando la voce.
«Ancora questo cane», borbottò la vecchietta invece di rispondere e vedendo che Fifì con aria incerta le si stava avvicinando strillò: «Va' via, va' via!».
Kàtja chiamò Fifì e le aprì la porta.
Fifì si slanciò fuori allegramente credendo che la portassero a fare una passeggiata, ma rimasta sola al di là della porta cominciò a grattare e a guaire. La principessina si accigliò. Kàtja avrebbe voluto uscire.
«Penso che il tè sia pronto», disse la Odincòva. «Andiamo signori; zietta vuole accomodarsi di là per il tè?».
La principessina si alzò in silenzio dalla poltrona e per prima uscì dal salotto. Tutti la seguirono nella sala da pranzo. Un ragazzo in livrea scostò rumorosamente dalla tavola una poltrona, coperta di cuscini e riservata, come quella del salotto, alla principessina. Kàtja le servì subito il tè in una tazza con lo stemma. La vecchietta ci mise dentro del miele (riteneva che bere il tè con lo zucchero fosse una colpa e uno spreco, anche se lei non spendeva un soldo) e poi improvvisamente domandò con voce rauca:
«E che cosa scrive il prencipe Ivàn?».
Nessuno le rispondeva. Bazàrov e Arkàdij capirono che anche se tutti si comportavano con lei educatamente, non le prestavano attenzione. La tengono in virtù del suo rango principesco, pensò Bazàrov... Dopo il tè, Anna Sergèevna propose di andare a fare una passeggiata; ma cominciava a cadere una pioggia sottile e tutti, tranne la principessina, tornarono in salotto. Arrivò Porfìrij Platònyè, il vicino cui piaceva giocare a carte. Grassoccio, con i capelli grigi e delle gambine corte e tornite, era cortese e divertente. Anna Sergèevna, che stava sempre chiacchierando con Bazàrov, gli propose di misurarsi con loro secondo la moda di una volta in una partita di préference. Bazàrov acconsentì dicendo che era contento di prepararsi alle sue future incombenze di medico distrettuale.
«Stia attento», disse Anna Sergèevna, «io e Porfìrij Platònyè la batteremo. E tu Kàtja», aggiunse, «suona qualcosa ad Arkàdij Nikolàeviè che ama la musica, intanto ascolteremo anche noi».
Kàtja si avvicinò malvolentieri al pianoforte; e Arkàdij, benché amasse veramente la musica, la seguì altrettanto malvolentieri: gli sembrò che la Odintsòva lo allontanasse proprio mentre nel suo cuore cresceva quella sensazione confusa e opprimente simile a un presentimento d'amore che conoscono tutti i giovani della sua età. Kàtja sollevò il coperchio del pianoforte e, senza guardare Arkàdij, disse a bassa voce:
«Che cosa devo suonarle?».
«Quel che vuole», rispose Arkàdij.
«Che musica le piace di più?», ripeté Kàtja senza cambiare posizione.
«La musica classica», rispose Arkàdij con lo stesso indifferente tono di voce.
«Mozart le piace?».
«Mozart mi piace».
Kàtja prese la sonata Fantasia in do minore di Mozart. Suonava molto bene, anche se in modo troppo austero e asciutto. Senza distogliere lo sguardo dallo spartito, stringendo le labbra, stava seduta immobile e diritta e solo verso la fine della sonata le sue guance si accesero e una piccola ciocca di capelli le si sciolse e cadde sul sopracciglio bruno.
Arkàdij fu colpito soprattutto dall'ultima parte della sonata nella quale improvvise e quasi tragiche note di dolore e tristezza interrompevano una melodia lieve, allegra e suggestiva... Ma i pensieri che gli aveva ispirato la musica di Mozart non riguardavano Kàtja. Guardandola, pensava soltanto: non suona male questa signorina, e non è nemmeno brutta.
Quando ebbe finito Kàtja, senza togliere le mani dalla tastiera, domandò: «Basta?». Arkàdij dichiarò che non osava affaticarla ancora, e si misero a parlare di Mozart; le chiese se avesse scelto da sola quella sonata o se qualcuno gliel'aveva consigliata. Ma Kàtja gli rispondeva a monosillabi: si era chiusa in se stessa. Quando le succedeva, le era poi difficile tornare allo scoperto; anche il suo viso assumeva un'espressione ostinata, quasi ottusa. Non era timida, ma era diffidente e un po' timorosa della sorella che l'aveva allevata, cosa che, naturalmente, Anna Sergèevna non sospettava affatto. Arkàdij, alla fine, chiamò Fifì che era ritornata in salotto e, per darsi un contegno, cominciò ad accarezzarle la testa. Kàtja tornò a occuparsi dei suoi fiori.
Intanto Bazàrov continuava a perdere al gioco. Anna Sergèevna giocava magistralmente a carte e anche Porfìrij Platònyè sapeva difendersi.
La perdita di Bazàrov era piccola ma per lui tutt'altro che gradevole. A cena Anna Sergèevna riportò la conversazione sulla botanica.
«Andiamo a fare una passeggiata domani mattina», disse a Bazàrov, «voglio sapere da lei i nomi latini delle piante che crescono nei campi e le loro proprietà».
«A che cosa le serve sapere i nomi latini?», domandò Bazàrov.
«In ogni cosa ci vuole ordine», rispose lei.

«Anna Sergèevna è meravigliosa», esclamò Arkàdij rimasto solo con il suo amico nella stanza che era stata loro destinata.
«Sì, è una donna che ha cervello. E deve averne viste di tutti i colori».
«In che senso lo dici, Evgènij  Vasil'ič
?».

«In senso buono, gliel'assicuro, carissimo Arkàdij Nikolàič! Sono sicuro che amministra molto bene anche la sua proprietà. Ma la meraviglia non è lei, è sua sorella».

«Ma come? Quella brunetta?».
«Sì, quella brunetta. Qualcosa di fresco, di non contaminato, un po' impaurita, silenziosa, tutto quello che vuoi. Ecco di chi ci si può occupare. Puoi fare di lei quel che ti viene in mente, l'altra invece la sa lunga».
Arkàdij non rispose a Bazàrov. Andarono a dormire, ciascuno con i propri pensieri.


Arkàdij, che aveva definitivamente concluso e confessato a se stesso di essere innamorato della Odintsòva, si abbandonò a una tranquilla malinconia. Questo stato d'animo, però, non gli impedì di avvicinarsi a Kàtja, anzi lo aiutò a creare con lei un legame affettuoso e amichevole. Lei non mi apprezza! Pazienza...! C'è questa buona creatura che non mi respinge, pensava e il suo cuore assaporava di nuovo la dolcezza dei sentimenti elevati. Kàtja capiva confusamente di rappresentare una specie di consolazione e non rifiutava né a lui né a se stessa il piacere innocente di quell'amicizia timida e fiduciosa al tempo stesso.
In presenza di Anna Sergèevna non chiacchieravano fra loro: Kàtja perdeva sempre la sua spontaneità di fronte alla sorella, e Arkàdij, come qualsiasi innamorato, quand'era vicino all'oggetto del suo amore non poteva prestare attenzione a nient'altro; ma si trovava bene solo con Katja. Sentiva di non suscitare l'interesse della Odintsòva, s'intimidiva e si perdeva d'animo quando restavano soli e anche lei non sapeva che cosa dirgli, lo considerava troppo giovane. Invece con Kàtja, Arkàdij si sentiva a suo agio; la trattava con condiscendenza, l'ascoltava parlare della musica, delle impressioni che suscitava in lei, dei romanzi e delle poesie che aveva letto, e di altre piccole cose, senza rendersi conto che quelle piccole cose interessavano anche a lui. Da parte sua Kàtja non gli impediva di essere triste.
Ad Arkàdij piaceva la compagnia di Kàtja, alla Odintsòva quella di Bazàrov, e quindi di solito, dopo esser stati un po' tutti e quattro insieme, soprattutto durante le passeggiate, si dividevano e formavano due coppie separate. Kàtja adorava la natura, anche ad Arkàdij piaceva molto benché non osasse riconoscerlo; invece alla Odincòva le bellezze della natura non interessavano, proprio come a Bazàrov. Arkàdij e Bazàrov non stavano quasi più insieme e i loro rapporti cominciarono a cambiare. Bazàrov smise di parlare con Arkàdij della Odintsòva, smise persino di rimproverarle le sue «maniere aristocratiche»; continuava però a lodare Kàtja limitandosi a osservare soltanto che le sue inclinazioni sentimentali andavano moderate, ma le sue lodi erano frettolose, i suoi consigli secchi e nell'insieme parlava con Arkàdij molto meno di prima... come se lo evitasse, come se si vergognasse di lui! Arkàdij notava tutto, ma teneva per sé le sue osservazioni. 

Anna Sergèevna si è risposata da poco, non vi è stata indotta dall'amore ma dalla riflessione; suo marito è destinato a emergere nella vita pubblica della Russia, è un giurista dotato di molto senso pratico, di una forte volontà e di grandi doti oratorie; è giovane, buono e freddo come il ghiaccio. Vanno molto d'accordo e forse arriveranno alla felicità, forse anche all'amore... 

Fenečka

Nikolàj Petròvič Passavano i giorni. Bazàrov lavorava, tenace e cupo, ma nella casa di Nikolàj Petròvič c'era una creatura con la quale, pur senza aprirle il proprio cuore, s'intratteneva volentieri. Questa creatura era Fèneèka.

La vedeva la mattina presto, in giardino o in cortile, non entrava mai in camera sua e lei solo una volta era andata a cercarlo e si era fermata sulla soglia, per chiedergli se poteva o no fare il bagno a Mìtja. Aveva fiducia in lui, non lo temeva e gli si rivolgeva senza timidezza e con maggiore spontaneità e confidenza di quanto non facesse con lo stesso Nikolàj Petròvič.
È difficile individuarne la ragione, forse sentiva in Bazàrov, senza rendersene conto, l'assenza di quelle caratteristiche che appartengono agli aristocratici, e che come tutto ciò che è parte di una sfera superiore, attraggono e intimoriscono nello stesso tempo. Ai suoi occhi Bazàrov era un bravissimo medico e una persona semplice. Senza timidezza giocava davanti a lui con il bambino, e un giorno che le era venuto un capogiro aveva preso direttamente dalle sue mani un cucchiaio di medicina. Davanti a Nikolàj Petròviè pareva evitare Bazàrov, non per calcolo ma per un'istintiva delicatezza. Invece temeva più ancora di una volta Pàvel Petròviè che da qualche tempo aveva cominciato a scrutarla, comparendole inaspettatamente alle spalle come se fosse spuntato dal suolo con il suo vestito all'inglese, con il viso immobile e le mani in tasca. «È raggelante», si lamentava Fèneèka con Dunjàša, che le rispondeva con un sospiro perché pensava a un altro uomo «insensibile», Bazàrov, che, senza saperlo, era diventato il crudele tiranno della sua anima.
Bazàrov piaceva a Fèneèka, ma anche Fèneèka piaceva a Bazàrov. Quando parlava con lei, il suo viso si trasformava, prendeva un'espressione aperta e quasi buona e alla sua consueta indifferenza pareva mescolarsi una scherzosa gentilezza. Fèneèka diventava ogni giorno più bella. Ci sono momenti in cui le giovani donne sembrano schiudersi e fiorire come le rose d'estate e Fèneèka stava attraversando uno di quei momenti. Tutto vi concorreva, anche l'opprimente calore di luglio. Vestita di un leggero abito bianco, sembrava anche lei più bianca e più leggera, la sua pelle non si scuriva col sole, ma il caldo le coloriva le guance e le orecchie e dava al suo corpo una tranquilla mollezza che si rifletteva con grazia nel pigro languore dei suoi occhi. Non riusciva a lavorare, quando tentava di farlo le mani le ricadevano in grembo. Camminava lentamente, sospirava e si lamentava, con un curioso sfinimento.
«Dovresti fare il bagno più spesso», le raccomandava Nikolàj Petròviè.
Aveva costruito un bagno coperto da un telo in uno dei suoi stagni dove ancora era rimasta un po' d'acqua.
«Oh, Nikolàj Petròviè, per arrivare allo stagno muori dal caldo, e muori dal caldo per tornare indietro. Non c'è ombra, in giardino».
«È vero, non c'è ombra», diceva Nikolàj Petròviè, passandosi una mano sulla fronte.
Un mattino, verso le sette, Bazàrov, tornando da una passeggiata, trovò Fèneèka sotto il pergolato delle serenelle, già sfiorite ma ancora folte e verdi. Con un fazzoletto bianco in testa, come il solito, stava seduta sulla panchina; vicino a lei c'era un mazzo di rose rosse e bianche, ancora umide di rugiada. Bazàrov la salutò.
«Evgènij Vasìl'evič!», per guardarlo Fèneèka sollevò un poco il bordo del fazzoletto e il braccio le si scoprì fino al gomito.
Bazàrov le si sedette vicino: «Che cosa fa, un mazzo di rose?».
«Sì, per la tavola della colazione. A Nikolàj Petròvič fa piacere».
«Manca ancora molto all'ora di colazione. Quanti fiori!».
«Li ho colti adesso perché dopo farà troppo caldo per uscire. Per il momento si riesce ancora a respirare. Questo caldo mi ha indebolito, ho paura di ammalarmi».
«Che brutto pensiero! Ora le tasto il polso». Bazàrov le prese la mano, sentì il pulsare regolare dell'arteria e non contò nemmeno i battiti. «Lei vivrà cent'anni», disse e le lasciò libera la mano.
«Dio me ne guardi!», esclamò Fènečka.
«Perché? Non le piacerebbe?».
«Cent'anni? No. Avevamo una nonna di ottantacinque anni. Che sofferenza! Era curva, nera, sorda, tossiva sempre... No, si diventa soltanto un peso per se stessi, non è più vita quella!».
«Meglio essere giovani, allora».
«Certo!».
«Ma che differenza c'è? Me lo spieghi».
«Ecco: io adesso sono giovane e vado, vengo, porto con me quel che mi serve, non devo chiedere aiuto a nessuno... Che vuole di più?».
«A me, invece, non importa essere giovane o vecchio».
«Ma com'è possibile?».
«Provi a rifletterci un momento Fedòs'ja Nikolàevna: a che cosa mi serve la giovinezza? Vivo solo, come un povero diavolo...».
«Dipende da lei».
«Non è vero, non dipende da me... Se almeno qualcuno avesse compassione di me».
Fènečka guardò Bazàrov di sfuggita e non disse niente.
«Che libro è quello?», chiese dopo un po'.
«Questo? È un libro di studio, un libro di scienza».
«Come mai studia sempre? Non si annoia? Io credo che lei sappia già tutto».
«No, non è così. Provi a leggerne anche lei un pochino».
«Non capirei niente. È scritto in russo?», chiese Fèneèka, prendendo con tutte e due le mani il volume rilegato. «Com'è pesante!».
«Sì, è scritto in russo».
«Sono sicura che non capirei niente lo stesso».
«Non importa, mi piace guardarla leggere perché quando legge le si muove la punta del nasino».
Fènečka, che aveva già cominciato a leggere a bassa voce un capitolo «sul creosoto», il primo che le fosse caduto sotto gli occhi, si mise a ridere e buttò sulla panchina il libro, che cadde a terra.
«Mi piace anche guardarla ridere», disse Bazàrov.
«Ma via... basta».
«Mi piace sentirla parlare, la sua voce è come l'acqua di un ruscello».
Fènečka distolse lo sguardo.
«Com'è strano lei!», disse, sfiorando le rose con le dita. «Perché dovrebbe piacerle sentirmi parlare, quando ha avuto la possibilità di ascoltare signore così intelligenti!».
«Ah, Fedòs'ja Nikolàevna, mi creda, tutte le signore intelligenti di questo mondo non valgono il suo piccolo gomito!».
«Ma che cosa sta inventando ancora!», mormorò Fènečka.
Bazàrov raccolse il libro da terra.
«È un libro sui medicinali, perché lo vuol buttare via?».
«Sui medicinali?», Fènečka rivolse di nuovo lo sguardo verso di lui. «Lo sa che da quando mi ha dato quelle gocce Mìtja dorme tranquillo tutta la notte? Non so come ringraziarla, lei è molto buono».
«I dottori chiedono di essere pagati, di solito», disse Bazàrov sorridendo, «sono venali».
Fènečka lo guardò. I suoi occhi sembravano ancora più scuri per il riflesso del fazzoletto bianco che le cadeva sulla fronte. Non capiva se stesse scherzando o no.
«Sì, certo... chiederò a Nikolàj Petròvič».
«Lei pensa che voglia del denaro?», la interruppe Bazàrov, «No, non voglio denaro da lei!».
«E che cosa, allora?».
«Che cosa? Provi a indovinare».
«Non so, non posso indovinare».
«Allora glielo dirò io: vorrei... una di quelle rose».
Fènečka rise di nuovo e alzò perfino le braccia, tanto le parve strano quel desiderio. Rideva e al tempo stesso si sentiva lusingata. Bazàrov la guardava fisso.
«Ecco, ecco», disse lei infine e, china sul mazzo di rose, si mise a sceglierne una. «Come la preferisce, rossa o bianca?».
«Rossa e non troppo grande».
Fènečka rialzò la testa. «Ecco prenda», disse, ma ritrasse subito la mano e, mordendosi le labbra, diede un'occhiata verso l'ingresso del pergolato, e restò in ascolto.
«C'è qualcuno?», chiese Bazàrov. «Nikolàj Petròvi?».
«No... è andato a vedere i campi... e poi non ho paura di lui, ma... Pàvel Petròvi... mi sembrava...».
«Che cosa le sembrava?».
«Che lui stesse passando di qui. No... non c'è nessuno. Prenda...», e Fèneèka diede la rosa a Bazàrov.
«Perché ha paura di Pàvel Petròvič?».
«Mi fa spaventare. Non mi dice niente, ma mi guarda in un modo che non riesco a capire. Anche a lei non piace, vero? Prima discutevate sempre, non so di che cosa, ma vedevo che riusciva sempre a rigirarlo come voleva lei...».
Fènečka mostrò, con un gesto delle mani, come secondo lei Bazàrov riusciva a rigirare Pàvel Petròvič. Bazàrov sorrise.
«E se fossi stato sconfitto, lei mi avrebbe difeso?».
«Non ne sarei stata capace. Ma nessuno può sconfiggerla».
«Davvero? Eppure c'è qualcuno cui basterebbe muovere un dito per avermi ai suoi piedi».
«E chi può essere?».
«Davvero non lo sa? Senta che profumo ha la rosa che mi ha dato».
Fènečka allungò il collo e avvicinò il viso alla rosa... Il fazzoletto le scivolò sulle spalle e scoprì l'intreccio morbido dei suoi capelli neri, lucenti, un po' scomposti.
«Aspetti, voglio sentire il profumo insieme a lei», disse Bazàrov sottovoce; si chinò e la baciò con forza sulle labbra socchiuse.
Fènečka trasalì e gli puntò le mani sul petto ma così debolmente che Bazàrov continuò a baciarla ancora.
Si sentì un leggero colpo di tosse dietro le serenelle. Fèneèka si spostò immediatamente all'altro lato della panchina. Pàvel Petròviè comparve, s'inchinò leggermente e chiese con un'intonazione cattiva ma insieme dolente: «Siete qui?». Poi si allontanò.
Fènečka raccolse subito tutte le sue rose e uscì dal pergolato.
«Non si fa così, Evgènij Vasìl'evič», bisbigliò, e il suo rimprovero era sincero.

Bazàrov ricordò un altro episodio avvenuto di recente e ne provò vergogna, disprezzo e amarezza, ma subito scosse la testa e, congratulandosi ironicamente con se stesso «per essere diventato ufficialmente un Céladon», si ritirò in camera sua.suonò il campanello e gridò: «Dunjàša!».
Ma invece di Dunjàša uscì sulla terrazza Fènečka. Aveva ventitré anni, la carnagione bianca e morbida, gli occhi e i capelli scuri, la bocca fresca, piena, come quella di un bambino, le mani piccole e delicate. Portava un vestitino di cotone, molto in ordine, e sulle spalle rotonde un fazzoletto nuovo, azzurro. Aveva in mano una tazza di cacao, la posò davanti a Pàvel Petròvič e, intimidita, arrossì; il sangue giovanile diffuse un'ondata scarlatta sotto la pelle sottile del suo bel viso. Con gli occhi bassi, restò ferma vicino alla tavola, tenendovi appoggiate le punte delle dita. Sembrava che si vergognasse di trovarsi lì, ma che nello stesso tempo sentisse di averne il diritto.

Pàvel Petròvič aggrottò le sopracciglia. Nikolàj Petròviè era imbarazzato.

«Buongiorno, Fènečka», mormorò, con le labbra strette.
«Buongiorno», rispose lei, con voce leggera ma ferma, diede un'occhiata in tralice ad Arkàdij, che le sorrideva amichevolmente, e uscì in silenzio. Camminava dondolandosi un po', ma le si addiceva.
Per qualche minuto sulla terrazza regnò il silenzio. Pàvel Petròvič beveva il suo cacao, poi, improvvisamente alzò la testa.

Passavano i giorni. Bazàrov lavorava, tenace e cupo, ma nella casa di Nikolàj Petròvič c'era una creatura con la quale, pur senza aprirle il proprio cuore, s'intratteneva volentieri. Questa creatura era Fènečka.
La vedeva la mattina presto, in giardino o in cortile, non entrava mai in camera sua e lei solo una volta era andata a cercarlo e si era fermata sulla soglia, per chiedergli se poteva o no fare il bagno a Mìtja. Aveva fiducia in lui, non lo temeva e gli si rivolgeva senza timidezza e con maggiore spontaneità e confidenza di quanto non facesse con lo stesso Nikolàj Petròvi
č.
È difficile individuarne la ragione, forse sentiva in Bazàrov, senza rendersene conto, l'assenza di quelle caratteristiche che appartengono agli aristocratici, e che come tutto ciò che è parte di una sfera superiore, attraggono e intimoriscono nello stesso tempo. Ai suoi occhi Bazàrov era un bravissimo medico e una persona semplice. Senza timidezza giocava davanti a lui con il bambino, e un giorno che le era venuto un capogiro aveva preso direttamente dalle sue mani un cucchiaio di medicina. Davanti a Nikolàj Petròvič pareva evitare Bazàrov, non per calcolo ma per un'istintiva delicatezza. Invece temeva più ancora di una volta Pàvel Petròvič è che da qualche tempo aveva cominciato a scrutarla, comparendole inaspettatamente alle spalle come se fosse spuntato dal suolo con il suo vestito all'inglese, con il viso immobile e le mani in tasca. «È raggelante», si lamentava Fènečka con Dunjàša, che le rispondeva con un sospiro perché pensava a un altro uomo «insensibile», Bazàrov, che, senza saperlo, era diventato il crudele tiranno della sua anima.
Bazàrov piaceva a Fènečka, ma anche Fènečka piaceva a Bazàrov. Quando parlava con lei, il suo viso si trasformava, prendeva un'espressione aperta e quasi buona e
alla sua consueta indifferenza pareva mescolarsi una scherzosa gentilezza. Fènečka diventava ogni giorno più bella. Ci sono momenti in cui le giovani donne sembrano schiudersi e fiorire come le rose d'estate e Fènečka stava attraversando uno di quei momenti. Tutto vi concorreva, anche l'opprimente calore di luglio. Vestita di un leggero abito bianco, sembrava anche lei più bianca e più leggera, la sua pelle non si scuriva col sole, ma il caldo le coloriva le guance e le orecchie e dava al suo corpo una tranquilla mollezza che si rifletteva con grazia nel pigro languore dei suoi occhi. Non riusciva a lavorare, quando tentava di farlo le mani le ricadevano in grembo. Camminava lentamente, sospirava e si lamentava, con un curioso sfinimento.
«Dovresti fare il bagno più spesso», le raccomandava Nikolàj Petròvi
č.
Aveva costruito un bagno coperto da un telo in uno dei suoi stagni dove ancora era rimasta un po' d'acqua.
«Oh, Nikolàj Petròviè
č, per arrivare allo stagno muori dal caldo, e muori dal caldo per tornare indietro. Non c'è ombra, in giardino».
«È vero, non c'è ombra», diceva Nikolàj Petròvièč, passandosi una mano sulla fronte.
Un mattino, verso le sette, Bazàrov, tornando da una passeggiata, trovò Fèneèka sotto il pergolato delle serenelle, già sfiorite ma ancora folte e verdi. Con un fazzoletto bianco in testa, come il solito, stava seduta sulla panchina; vicino a lei c'era un mazzo di rose rosse e bianche, ancora umide di rugiada. Bazàrov la salutò.
«Evgènij Vasìl'evi
č!», per guardarlo Fènečka sollevò un poco il bordo del fazzoletto e il braccio le si scoprì fino al gomito.
Bazàrov le si sedette vicino: «Che cosa fa, un mazzo di rose?».
«Sì, per la tavola della colazione. A Nikolàj Petròvi
č fa piacere».
«Manca ancora molto all'ora di colazione. Quanti fiori!».
«Li ho colti adesso perché dopo farà troppo caldo per uscire. Per il momento si riesce ancora a respirare. Questo caldo mi ha indebolito, ho paura di ammalarmi».
«Che brutto pensiero! Ora le tasto il polso». Bazàrov le prese la mano, sentì il pulsare regolare dell'arteria e non contò nemmeno i battiti. «Lei vivrà cent'anni», disse e le lasciò libera la mano.
«Dio me ne guardi!», esclamò Fènečka.
«Perché? Non le piacerebbe?».
«Cent'anni? No. Avevamo una nonna di ottantacinque anni. Che sofferenza! Era curva, nera, sorda, tossiva sempre... No, si diventa soltanto un peso per se stessi, non è più vita quella!».
«Meglio essere giovani, allora».
«Certo!».
«Ma che differenza c'è? Me lo spieghi».
«Ecco: io adesso sono giovane e vado, vengo, porto con me quel che mi serve, non devo chiedere aiuto a nessuno... Che vuole di più?».
«A me, invece, non importa essere giovane o vecchio».
«Ma com'è possibile?».
«Provi a rifletterci un momento Fedòs'ja Nikolàevna: a che cosa mi serve la giovinezza? Vivo solo, come un povero diavolo...».
«Dipende da lei».
«Non è vero, non dipende da me... Se almeno qualcuno avesse compassione di me».
Fènečka guardò Bazàrov di sfuggita e non disse niente.
«Che libro è quello?», chiese dopo un po'.
«Questo? È un libro di studio, un libro di scienza».
«Come mai studia sempre? Non si annoia? Io credo che lei sappia già tutto».
«No, non è così. Provi a leggerne anche lei un pochino».
«Non capirei niente. È scritto in russo?», chiese Fènečka, prendendo con tutte e due le mani il volume rilegato. «Com'è pesante!».
«Sì, è scritto in russo».
«Sono sicura che non capirei niente lo stesso».
«Non importa, mi piace guardarla leggere perché quando legge le si muove la punta del nasino».
Fènečka, che aveva già cominciato a leggere a bassa voce un capitolo «sul creosoto», il primo che le fosse caduto sotto gli occhi, si mise a ridere e buttò sulla panchina il libro, che cadde a terra.
«Mi piace anche guardarla ridere», disse Bazàrov.
«Ma via... basta».
«Mi piace sentirla parlare, la sua voce è come l'acqua di un ruscello».
Fènečka distolse lo sguardo.
«Com'è strano lei!», disse, sfiorando le rose con le dita. «Perché dovrebbe piacerle sentirmi parlare, quando ha avuto la possibilità di ascoltare signore così intelligenti!».
«Ah, Fedòs'ja Nikolàevna, mi creda, tutte le signore intelligenti di questo mondo non valgono il suo piccolo gomito!».
«Ma che cosa sta inventando ancora!», mormorò Fènečka.
Bazàrov raccolse il libro da terra.
«È un libro sui medicinali, perché lo vuol buttare via?».
«Sui medicinali?», Fènečka rivolse di nuovo lo sguardo verso di lui. «Lo sa che da quando mi ha dato quelle gocce Mìtja dorme tranquillo tutta la notte? Non so come ringraziarla, lei è molto buono».
«I dottori chiedono di essere pagati, di solito», disse Bazàrov sorridendo, «sono venali».
Fènečka lo guardò. I suoi occhi sembravano ancora più scuri per il riflesso del fazzoletto bianco che le cadeva sulla fronte. Non capiva se stesse scherzando o no.
«Sì, certo... chiederò a Nikolàj Petròvi
č».
«Lei pensa che voglia del denaro?», la interruppe Bazàrov, «No, non voglio denaro da lei!».
«E che cosa, allora?».
«Che cosa? Provi a indovinare».
«Non so, non posso indovinare».
«Allora glielo dirò io: vorrei... una di quelle rose».
Fèneèka rise di nuovo e alzò perfino le braccia, tanto le parve strano quel desiderio. Rideva e al tempo stesso si sentiva lusingata. Bazàrov la guardava fisso.
«Ecco, ecco», disse lei infine e, china sul mazzo di rose, si mise a sceglierne una. «Come la preferisce, rossa o bianca?».
«Rossa e non troppo grande».
Fènečka rialzò la testa. «Ecco prenda», disse, ma ritrasse subito la mano e, mordendosi le labbra, diede un'occhiata verso l'ingresso del pergolato, e restò in ascolto.
«C'è qualcuno?», chiese Bazàrov. «Nikolàj Petròvi
č?».
«No... è andato a vedere i campi... e poi non ho paura di lui, ma... Pàvel Petròviè... mi sembrava...».
«Che cosa le sembrava?».
«Che lui stesse passando di qui. No... non c'è nessuno. Prenda...», e Fènečka diede la rosa a Bazàrov.
«Perché ha paura di Pàvel Petròvi
č?».
«Mi fa spaventare. Non mi dice niente, ma mi guarda in un modo che non riesco a capire. Anche a lei non piace, vero? Prima discutevate sempre, non so di che cosa, ma vedevo che riusciva sempre a rigirarlo come voleva lei...».
Fènečka mostrò, con un gesto delle mani, come secondo lei Bazàrov riusciva a rigirare Pàvel Petròvi
č. Bazàrov sorrise.
«E se fossi stato sconfitto, lei mi avrebbe difeso?».
«Non ne sarei stata capace. Ma nessuno può sconfiggerla».
«Davvero? Eppure c'è qualcuno cui basterebbe muovere un dito per avermi ai suoi piedi».
«E chi può essere?».
«Davvero non lo sa? Senta che profumo ha la rosa che mi ha dato».
Fènečka allungò il collo e avvicinò il viso alla rosa... Il fazzoletto le scivolò sulle spalle e scoprì l'intreccio morbido dei suoi capelli neri, lucenti, un po' scomposti.
«Aspetti, voglio sentire il profumo insieme a lei», disse Bazàrov sottovoce; si chinò e la baciò con forza sulle labbra socchiuse.
Fènečka trasalì e gli puntò le mani sul petto ma così debolmente che Bazàrov continuò a baciarla ancora.
Si sentì un leggero colpo di tosse dietro le serenelle. Fèneèka si spostò immediatamente all'altro lato della panchina. Pàvel Petròviè comparve, s'inchinò leggermente e chiese con un'intonazione cattiva ma insieme dolente: «Siete qui?». Poi si allontanò.
Fènečka raccolse subito tutte le sue rose e uscì dal pergolato.
«Non si fa così, Evgènij Vasìl'evi
č», bisbigliò, e il suo rimprovero era sincero.
Bazàrov ricordò un altro episodio avvenuto di recente e ne provò vergogna, disprezzo e amarezza, ma subito scosse la testa e, congratulandosi ironicamente con se stesso «per essere diventato ufficialmente un Céladon», si ritirò in camera sua.

Alle tre tutti sedettero a tavola, anche Mìtja che aveva già una njanja con la cuffia tradizionale di broccato, Pàvel Pètrovič stava tra Kàtja e Fènečka, e i mariti accanto
alle rispettive mogli. Tutti apparivano cambiati, più belli e più forti, Pàvel  Petròvič era dimagrito, ma la magrezza metteva in risalto la bellezza dei suoi lineamenti aristocratici. Anche Fènečka era cambiata. Nel suo fresco abito di seta, con un nastro di velluto tra i capelli, una catena d'oro al collo, sedeva immobile e rispettosa, rispettosa verso se stessa e tutto quello che le stava intorno, e sorrideva come se volesse dire: scusatemi, io non ne ho colpa. 

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