Comunque finisca l'ignobile balletto del “vengo-non vengo” inscenato da Vladimir Putin neanche fossimo in una pièce comica invece che nella tragedia estrema della guerra, qualcosa si muove dopo 40 mesi di guerra in cui hanno parlato solo le armi.

Quaranta mesi sono il tempo che purtroppo c'è voluto per capire che si può, anzi si deve, rinunciare a parole d'ordine “irrinunciabili” e alle quali ci si era impiccati nella foga del linguaggio patriottico necessario per esaltare i combattenti e serrare le fila dello “stringiamoci a coorte”.

Lo stesso Volodymyr Zelensky ha compreso come siano vuoti di significato pratico proclami come quello per il quale non rinuncerà mai nemmeno a un metro di suolo ucraino, compresa la Crimea e non solo il Donbass. Vladimir Putin, dal canto suo, avendo imparato da quasi subito che non avrebbe mai preso Kiev e l'Ucraina tutta, ha dovuto via via aggiornare i suoi appetiti e conformarli alla famosa “situazione del terreno” che, realisticamente, è alla fin fine il metro da cui si parte nelle trattative. Durante le quali è ben chiaro che qualcosa si ottiene e qualcosa si cede: le famose dolorose concessioni. Altrimenti si chiamerebbe “resa incondizionata”.

Aveva vagheggiato a sua volta, lo zar del Cremlino, di prendersi, oltre a quanto già occupato, almeno anche la meravigliosa Odessa perché sta nell'immaginario russo (e però anche in quello dell'Europa tutta...), chiudendo così anche l'ultima fetta di sbocco al mare del paese invaso. Non succederà. Finirà dunque che si arriverà al compromesso per cui la Russia si prende circa il 20 per cento di ciò che non sarebbe suo. Cioè quanto si poteva concordare già due anni fa e l'unica differenza è l'impeto della resistenza che è andato via via scemando, fiaccando le forze di un popolo stremato.

È questa la causa principale del negoziato oggi possibile, non l'avvento di Donald Trump a cui piace attribuire i poteri del deus ex machina sceso dall'Olimpo per sedare le controversie degli umani. L'elezione di Trump è in realtà arrivata quando i tempi erano maturi per una trattativa. Joe Biden aveva eseguito il suo compito di sostegno a una nazione che altrimenti sarebbe sparita dalla carta geografica e così frenato le mire espansioniste di un despota assolutamente esplicito nel suo progetto di riunire tutti i russi in uno Stato dopo che trenta milioni, nella dissoluzione dell'Unione Sovietica, erano stati esclusi dalla madre patria.

L'assonanza con proclami simili di un Hitler o un Milosevic ci ricorda come la storia si ripete con alcune similitudini pur se i paragoni sono tutti zoppi. Russi ce ne stanno non solo in Ucraina e chissà cosa sarebbe successo se Putin avesse trovato troppo facilmente campo libero.

Dunque abbiamo due sconfitti nei loro propositi iniziali che hanno capito di essere vicini al punto di stallo e a cui non resta altro se non concordare quello che appare ormai come l'ovvio, ammantandolo semmai di qualche eufemismo cosmetico e attingendo al linguaggio felpato della diplomazia.

Uno scoglio insuperabile fino a martedì, ad esempio, era l'ingresso di ciò che resterà dell'Ucraina nella Nato, stante il niet di Mosca. L'ostacolo è stato aggirato dall'accordo Kiev-Washington sulle terre rare. Le migliaia di lavoratori americani che saranno impiegati nello sfruttamento di quelle risorse preziose sono una garanzia umana almeno equivalente a quella delle armi.

Quanto al territorio perduto, Zelensky ha un evidente problema con i parenti dei caduti, come giustificare un sacrificio vano. Ma aumenta costantemente il numero degli ucraini convinti che porre fine alle ostilità sia oggi un bene irrinunciabile e più prezioso.

Sgombrati dal tavolo i dossier più spinosi, a Istanbul si tratterà di addolcire certi spigoli con arzigogolate soluzioni tecniche. Del tipo: nei territori finiti ai russi magari sarà previsto un referendum gestito dall'Onu per sondare la volontà della popolazione. Ma già sapendo l'esito scontato laddove di ucraini non c'è quasi più presenza.

Questo succederà. Con o senza Putin, certo il burattinaio comunque, da vicino o da lontano. Al quale resta come obiettivo quello di cercare di far credere che è lui il vincitore. E chissà se si convincerà che è meglio restare al Cremlino o prendere un volo direzione Turchia per raggiungere lo scopo.