Joan dice: «Oh, Bob, come sarebbe stato se ci fossimo sposati?». Lui risponde che non è cambiato e che gli dispiace se ne sia andata. In realtà ad andarsene era stato lui, per sposarsi con Sara LowndsBob balbetta qualcosa di incomprensibile e ricorda di quando stavano insieme nella sua casa nel Big Sur. È un momento d’intimità quasi imbarazzante il dialogo tra Bob Dylan e Joan Baez che appare nel film Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorseseche documenta il tour del 1975. Un tour nato dalla volontà di Dylan che, stanco di volare da un’arena all’altra su aerei privati, voleva fare qualcosa di diverso e suonare in posti piccoli per entrare di nuovo in contatto con la gente. Nasce così una vera e propria carovana di musicisti — ma anche poeti, come Allen Ginsberg — tra cui Baez, che si esibirà in duetti indimenticabili con Dylan.

In quella scena magica, stupenda nel suo vestito bianco, Joan sembrava abbagliare Bob e quel fascino ora illumina anche le poesie del suo nuovo libro Quando vedi mia madre, chiedile di ballare (La nave di Teseo). Un diario che racconta persone, luoghi e momenti che hanno plasmato la sua vita. Come la lunga e tormentata storia con il “vagabondo originale” dagli «occhi più blu delle uova di pettirosso», di cui Baez parla in uno dei suoi pezzi più famosi, Diamonds and Rust. Ma nelle poesie ci sono anche ansie, paure e traumi. Torniamo a Dylan.

Baez e Dylan nel tour del ’75
Baez e Dylan nel tour del ’75 

Quella scena del film di Scorsese è incredibile.

«Indossavo l’abito bianco, vero?».

Sì, e con quel vestito lei era davvero bellissima.

«Sa da dove veniva quell’abito? Tra la gente che popolava il Rolling Thunder c’era una vecchia zingara. Mi dissero: “Devi venire a conoscerla”. Questa donna aveva un cuscino su cui dormiva. Dentro c’erano le ceneri del marito. Mi scrutò e disse: “Ho qualcosa per te”. E mi diede quell’abito bianco. Lo indossai subito: mi stava perfettamente. Lo mettevo spesso durante il tour. E poi ci fu quella scena con Bob. Eravamo in un altro mondo. Credo che lui fosse fatto di chissà quali droghe. Io no, ma comunque non importava».

In quel film Dylan e Scorsese hanno mescolato appositamente realtà e finzione: quella scena è stata ricostruita per il film o era reale?

«Sì, sì. Era una scena vera».

Non si era mai visto Dylan così in imbarazzo.

«È stato divertente (ride)».

Joan Baez e Bob Dylan alla Civil Rights March nel ’63 a Washington
Joan Baez e Bob Dylan alla Civil Rights March nel ’63 a Washington 

A proposito, ha visto il film “A complete Unknown”?

«Sì, l’ho visto. È un film gradevole, ma chi cerca di controllare l’esattezza dei fatti perde tempo».

Ha conosciuto Monica Barbaro, l’attrice che interpreta Joan Baez?

«Ha recitato bene la sua parte. Le ho detto: “Quando finirà questa storia del film, prendiamoci un caffè e conosciamoci un po’ meglio”».

E il film, secondo lei, era fedele alla realtà, o...?

«In parte sì, in parte è esagerato. Per esempio, non credo che Dylan sia mai andato a trovare Woody Guthrie quando stava morendo. Ma forse è successo. Non lo so».

Il Dylan interpretato da Chalamet funziona?

«Ha fatto un buon lavoro. Ho una sola obiezione: era troppo pulito (ride ricordando l’unwashed phenomenon, come lo aveva apostrofato una volta mentre era con lei un portiere d’hotel pensando fosse un barbone)».

Veniamo alle sue poesie. Ce n’è una commovente sulla scuola, in cui emerge la sofferenza di chi vive la sensazione di essere diverso. La vostra generazione ha fatto della diversità la propria bandiera, a partire dai capelli lunghi. Che futuro c’è in questa nuova America per chi non si sente allineato?

«Beh, al momento direi: che futuro c’è per chiunque? Mia nipote ha 21 anni e ha deciso che vuole diventare avvocato costituzionalista. Onestamente, non so se avremo ancora una costituzione».

La situazione è davvero così brutta?

«Furio Colombo raccontava sempre che da bambino sentiva i soldati marciare per strada. L’ho chiamato prima che morisse. E gli ho detto: “Furio, sembra che ci stiamo avvicinando al fascismo”. E lui: “Sì, purtroppo sono nato sotto il fascismo e morirò sotto il fascismo”».

Amavamo l’America, per le sue canzoni, Bob Dylan, Leonard Cohen, e per i poeti come Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti: cosa è successo?

«Nessuno lo sa. Parliamo tra noi e cerchiamo di imparare a non dire “ho paura” ma “cosa facciamo?”. Bisogna trovare un nuovo linguaggio, ma non so come. La gente chiede: “Era così anche negli anni ’60?” e io dico: “Gli anni ’60 sembravano una festa di compleanno, rispetto a ora”. Quando sono andata in prigione, anche se solo per poco tempo, erano giorni in cui noi manifestanti non violenti salutavamo i poliziotti e sorridevamo, cantavamo. Ma quei giorni sono finiti. Ora sta diventando brutale, e combattere la crudeltà è forse la priorità numero uno perché sono sadici, amano vedere la gente umiliata, soffrire. È una brutta situazione per chiunque. Quarant’anni fa sono stata nel Cile di Pinochet. E tutto questo lì succedeva. Era terribile, ma sapevamo che non era qui. Ora è qui. E oggi stiamo tutti cercando di adattarci. Come viviamo con questo? Come lo denunciamo? Sono andata a una manifestazione e ho cantato una canzone scritta da un mio amico, Josh Ritter. Gli avevo detto, un anno fa: “Devi scrivere una nuova canzone di protesta. Dobbiamo smettere di usare We shall overcome. Deve essere qualcosa di nuovo”. E lui ha scritto un bellissimo brano che si chiama I carry the flame. Cerchiamo modi per... mantenere la speranza. Qualcuno mi ha detto: “La speranza è un muscolo”. E credo sia proprio così».

Com’è possibile che oggi i musicisti non facciano nulla per denunciare questa situazione?

«Non so se ci siamo impigriti, non so perché negli anni ’60 e ’70 alcune persone abbiano deciso di usare la musica come abbiamo fatto io o Pete Seeger. È un mistero per me come tutto questo sia sparito. Forse è per via dei soldi: oggi ci sono molte giovani donne che sono seguite da quantità incredibili di persone e guadagnano milioni di dollari ma non fanno niente per migliorare la società. Ma c’è anche qualcuno di diverso, per fortuna. Al raduno di Bernie Sanders, per esempio, c’era questa ragazza che si chiama Maggie Rogers che mi ha detto: “Dimmi dove devo essere e ci sarò”. Ho trovato una bellissima canzone che possiamo cantare insieme. Se non siamo disposti a rischiare, non succederà nulla. Ma siamo spaventati, anch’io lo sono».

Alla manifestazione “Fighting Oligarchy” a Los Angeles (aprile 2025) insieme a Bernie Sanders
Alla manifestazione “Fighting Oligarchy” a Los Angeles (aprile 2025) insieme a Bernie Sanders 

Oggi in America è davvero così pericoloso esporsi?

«Sì, ora è un rischio terribile dire qualcosa. E penso: “A cosa servo qui fuori? A cosa servono le mie canzoni?”. Ho 83 anni e ho bisogno delle mie medicine. Una volta, in prigione te le davano, ora non credo che a nessuno importi. E allora cosa posso fare nel frattempo? Sto lavorando con un gruppo di persone per cercare di dare voce alle famiglie di coloro che scompaiono, letteralmente. Non si sa dove siano e non ricevono grande attenzione dalla stampa. E poi c’è la gentilezza. E la cura. La parola empatia è quasi bandita dalla destra perché considerano la pietà come debolezza».

Ma perché, per esempio, lei, Neil Young e Bob Dylan non organizzate un concerto che coinvolga i giovani e tutte le nuove band?

«Perché è molto complicato. Ci vuole tempo. Devi trovare il posto, i permessi. Se fossero tutti coinvolti, compresi i produttori, come fu per Woodstock, si potrebbe... Ma oggi quello spirito non c’è. E poi, prima di tutto, Bob Dylan non parteciperebbe a niente di tutto questo. Neil Young è adorabile ma purtroppo oggi anche lui non “cattura” davvero i giovani. Se si impegnano persone come Maggie, ecco, forse c’è una buona possibilità che anche i giovani ascoltino».

In effetti Dylan oggi non sembra più interessato alle proteste. Non parla mai di ciò che succede.

«Non è mai stato interessato, che io sappia, alle proteste».

Nemmeno agli inizi, con lei?

«Per anni, a ogni marcia, a ogni protesta, la gente chiedeva: “Bob Dylan sarà qui?”. E io dicevo: “Quando è stata l’ultima volta che l’avete visto a una manifestazione di protesta? Non preoccupatevi, non succederà”. Va bene così. Ci ha dato le sue canzoni. Non deve per forza vivere in quelle».

Durante a manifestazione “Fighting Oligarchy” a Los Angeles (aprile 2025) con Neil Young e Maggie Rogers
Durante a manifestazione “Fighting Oligarchy” a Los Angeles (aprile 2025) con Neil Young e Maggie Rogers 

Ha parlato del Cile, ma ha viaggiato anche in Vietnam, Bosnia e recentemente in Ucraina. Ci sono differenze tra le guerre odierne e quelle passate?

«Oh, probabilmente le armi sono più efficienti. Una cosa che hanno in comune, ora che ci penso, è che la giornata va avanti. I bombardamenti sono di notte o nella casa accanto. La gente va a fare la spesa, esce. Quando ero in Ucraina, qualcuno ha detto: “Andiamo al centro commerciale”. C’erano esplosioni ovunque. Sono andata e ho comprato una maglietta. Una polo. Ho pensato: “È folle”. Completamente folle. E poi ho realizzato che ad Hanoi era lo stesso. La gente si occupava di cose quotidiane, poi suonava la sirena, i bambini saltavano dentro ai rifugi lungo le strade. Finito l’allarme, uscivano e tornavano a giocare. Ed è ancora così ovunque. La vita continua...».

Baez arrestata nel ’67 a Oakland
Baez arrestata nel ’67 a Oakland 

È scioccante vedere questa continua violazione dei diritti umani nonostante tutti i trattati. Si sarebbe mai aspettata di trovarsi a questo punto?

«Il senso di umanità non interessa più, i diritti umani non interessano. Succede anche qui oggi in America. Abbiamo un’amministrazione che gode ad avere potere sulle persone, a vederle ferite e umiliate. Ora Trump mette a tacere anche i giudici che cercano di fermarlo. E tutto ciò che in questo Paese era buono, Trump e i suoi cercano di distruggerlo. E, al momento, il loro piano sta funzionando».

Le direi di venire in Italia ma anche noi non siamo messi molto bene.

«Sì, è quello che mi ha detto Furio: “Morirò. Ci vediamo da un’altra parte” (lo imita e ride, commossa)».

Oggi, dopo decenni di attivismo, come vede il ruolo della poesia come strumento di consapevolezza e cambiamento sociale?

«Credo sia come la musica, solo che la musica ha più possibilità di raggiungere la gente. In un certo senso, la poesia è più oscura. Non è ascoltata da tanti, ma tocca i cuori. Sono in un Paese dove in tanti non leggono e devo dire che sono una di loro. Non ho mai letto. Non ero una lettrice a scuola. Ma ascolto. Ascolto la parola parlata, i podcast, i libri. Ascolto i libri. È meglio se la voce è bella. Se la voce non è bella, non riesco ad ascoltare. Ma sì, la poesia per me è fondamentale. Scrivere poesie mi ha salvato la vita».

Attraverso questo libro ha parlato per la prima volta del suo disturbo dissociativo dell’identità: che cos’è esattamente?

«Forse ha visto i film di un po’ di tempo fa dove la personalità di qualcuno si divide e il protagonista si vede dal di fuori. È letteralmente così: si tratta di un’altra persona dentro di te. Gli altri, invece, vedono solo me naturalmente. Alcuni sono turbati dall’idea che io abbia, in pratica, diverse persone qui dentro, non vogliono sentirne parlare. Dicono: “No, no, sei sempre tu”. Sì, è il mio corpo. Ma in realtà ci sono altre voci che parlano. Ed è quello che è successo con il libro di poesie. Quando le scrivevo era il periodo in cui scoprivo tutto questo. Guardavo la pagina e vedevo... delle cose che pensavo fossero davvero buone. Ma non ricordavo di averle scritte io. E in fondo c’era la firma di qualcun altro. È una sindrome affascinante. E non mi dispiace affatto che la mia guarigione sia arrivata così, grazie alla poesia. Ora finalmente amo tutte le parti di me. È stato un viaggio lungo e difficile, ma sto bene».

1965: la grande manifestazione a Trafalgar Square. Joan Baez in un concerto gratuito a Trafalgar Square, Londra, contro la guerra in Vietnam, il 29 maggio 1965. Fu una delle più celebri manifestazioni dell’epoca in Inghilterra, parte di una marcia iniziata a Hyde Park. La cantautrice si esibì per la folla raccolta ai piedi della colonna di Nelson. Successivamente una rappresentanza dei manifestanti andò a Downing Street a consegnare un messaggio al primo ministro Harold Wilson, chiedendo la fine della guerra
1965: la grande manifestazione a Trafalgar Square. Joan Baez in un concerto gratuito a Trafalgar Square, Londra, contro la guerra in Vietnam, il 29 maggio 1965. Fu una delle più celebri manifestazioni dell’epoca in Inghilterra, parte di una marcia iniziata a Hyde Park. La cantautrice si esibì per la folla raccolta ai piedi della colonna di Nelson. Successivamente una rappresentanza dei manifestanti andò a Downing Street a consegnare un messaggio al primo ministro Harold Wilson, chiedendo la fine della guerra 

Perché ha deciso di raccontarlo solo ora?

«Penso che alla mia età non abbia più nulla da perdere. Ho voluto lasciare un’eredità che fosse onesta attraverso le poesie e un film. Puoi fare un film in cui vieni fuori benissimo perché mostra solo il tuo lato buono. Oppure, cosa che pochi fanno, puoi mostrare davvero dove sono iniziati i problemi e di cosa si trattava, e il rapporto con la famiglia. Compresi gli abusi, le crisi d’ansia, la depressione. Per il film I am a noise, che racconta la mia storia, quando ho parlato con la regista, ho detto: “È tuo”. Perché non potevo scegliere io cosa metterci. Avrei iniziato subito a tagliare. Sì, voglio quello, no, non voglio l’altro. Era una donna, mi fidavo. “Prendi le chiavi ed entra”, ho detto. E quando mi sono vista in quel luogo, ho scoperto che non c’ero mai stata prima».

A proposito ancora di poesia e di dolore, in “Goodbye to the Black and White Dance” lei parla apertamente del suo percorso psicologico e cioè di quando ha scoperto che l’essenza della sua persona era in realtà un “diamante”. Cosa intende? La poesia l’ha aiutata a trasformare le sue sofferenze?

«Questa terapia ha cambiato la mia percezione. Io sapevo che la mia sofferenza era profonda e con molte sfaccettature. Ho avuto una terapeuta meravigliosa che mi ha spinta a fare arte terapia, danza terapia, a rompere cose, qualsiasi cosa possibile per far uscire tutto quello che avevo dentro. Credevo che un terapeuta ti tenesse lì sul lettino, mentre la mia diceva: “Vai e fai questo, danza, dipingi, scrivi poesie”. E le poesie continuavano a venire fuori: è stata una grande parte del processo attraverso cui sono guarita».

È vero che ha distrutto una Tesla contro un albero?

«Dio benedica l’albero. Odiavo quella Tesla. L’ho comprata pensando: “Deve essere meravigliosa”. Dopo un’ora dall’acquisto l’ho schiantata contro un albero, causando settemila dollari di danni. Con quei soldi compri un’altra macchina. Ma non l’ho fatto. E invece era un segno per me e non l’ho ascoltato. Ho distrutto quella macchina altre due volte prima di capire che non era per me».

Ritornando alla politica, un dato incredibile è che anche i più poveri e gli immigrati hanno votato per Donald Trump. Come ha fatto a convincerli?

«Credo che lui e i suoi siano riusciti a creare una mentalità da setta: non c’è modo di decifrarla, non si può capire razionalmente. E loro ci odiano. Io cerco di non odiarli. Ma faccio fatica. Mi fanno stare male e... vorrei che sparissero. Non mi importa come. So solo che non potrei sparare perché sono da sempre pacifista, ma non posso impedirmi di desiderarlo».

La magia per guarire per lei è sempre stata l’arte: oggi la poesia, da sempre la musica: era questo che la univa così profondamente a Dylan al di là di tutto?

«Amavo soprattutto i momenti di canto con Bob, sì: quando lui sale sul palco, ogni cosa è perdonata».

La sua voce così limpida era perfetta con quella così “sporca” di Dylan: “Diamond and Rust”, proprio come il titolo della sua canzone.

«Beh, lui non poteva adattarsi a me, quindi mi adattavo io a lui. A volte dovevo trovare il mio posto sotto il suo cappello per avere un po’ di microfono».