Giovanni Bianconi
Il figlio della vittima e l’ex Br L’incontro fra due memorie per dare senso a una tragedia
- Corriere della Sera, 9 maggio 2025
- Da una parte c’è il dolore che devasta un bambino di 12 anni quando scopre, prima dalla radio e poi dalla foto stampata sull’edizione straordinaria di un quotidiano, che suo padre non tornerà più a casa perché è stato crivellato di colpi mentre guidava la macchina, a un angolo di strada; dall’altra l’esaltazione di chi, a quell’angolo di strada, vede spuntare «il sol dell’avvenire» mentre spara per rapire il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, facendo strage dei carabinieri e dei poliziotti di scorta. Tra i quali il papà del bambino.
Due sensazioni opposte che la mattina del 16 marzo 1978 segnarono in maniera indelebile le vite di Giovanni Ricci — figlio dell’appuntato Domenico Ricci, l’autista di Moro — e del brigatista rosso che partecipò all’agguato di via Mario Fani e alla gestione del sequestro fino all’omicidio dell’ostaggio, il 9 maggio. Quarantasette anni fa.
Due esistenze che parevano votate all’incomunicabilità, e invece sono arrivate a incontrarsi per avviare un percorso comune. Raccontato ora in un libro dello storico Ludovico Testa, scritto con il contributo di Giovanni Ricci (Il tempo sospeso – Dalla lotta armata alla giustizia riparativa, un dramma a due voci, edizioni Pendragon, pagg. 263, euro 18,00), che ricostruisce le tappe di due destini marchiati dagli spari di quella mattina, prima divisi e poi intrecciati nel successivo dialogo tra l’ex bambino e l’ex terrorista.
Alla base di tutto c’è l’infanzia spezzata e l’adolescenza mutilata dalla perdita di un papà, con il suo portato di odio, frustrazione e rabbia verso chi l’aveva ucciso; un incubo da cui sembrava impossibile uscire, come se Giovanni fosse stato scaraventato in un pozzo da una specie di «orco delle fiabe» impersonato dai volti degli assassini scrutati e detestati dietro le sbarre delle gabbie durante i processi alle Br. E, sul fronte opposto, il sogno di riscattare la «Resistenza tradita» e riprendere la «rivoluzione interrotta», l’idea che imbracciando le armi e colpendo alcuni simboli dello Stato (fino ai più alti, come Moro) si sarebbe arrivati alla conquista del potere in nome del proletariato e del comunismo; salvo poi arrendersi di fronte alla sconfitta, «militare» e politica, di un progetto sanguinario e irrealizzabile.
Dopo però è arrivato il risveglio. Per entrambi: Giovanni quando decide di liberarsi da quel fardello alla nascita di suo figlio, perché gliel’avrebbe inevitabilmente trasmesso e non sarebbe stato giusto, racconta; il brigatista attraverso la riflessione in carcere sul dolore inflitto trasformando gli esseri umani in bersagli da abbattere, sfociata nelle lacrime sgorgate durante un’intervista televisiva in cui rievocava la strage di via Fani. Da lì il desiderio dell’uno e dell’altro di guardarsi in faccia, grazie all’occasione offerta dai mediatori del progetto di giustizia riparativa che ha coinvolto due gruppi di familiari delle vittime e di ex terroristi; tra i quali Giovanni Ricci e tre protagonisti del sequestro Moro: Franco Bonisoli, Adriana Faranda e Valerio Morucci. Ricomposti nel libro in un unico personaggio narrante.
Il risultato non è una impossibile memoria condivisa, perché troppo differenti e distanti sono i punti di vista e di partenza, bensì una condivisione di memorie inevitabilmente diverse che può dare un senso alle tragedie che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio del secolo scorso. Un processo non alternativo ma complementare a quelli giudiziari, che hanno individuato colpevoli e inflitto condanne. Non sempre, e — come nel caso delle stragi neofasciste — sotto il peso di depistaggi che hanno protetto gli assassini e ostacolato la verità.
Lo ha ricordato ieri Manlio Milani — sopravvissuto alla bomba di piazza della Loggia a Brescia che il 28 maggio 1974 uccise sua moglie Livia e altre sette persone, ferendone oltre cento — in un incontro promosso ieri alla Camera dalla deputata del Pd Michela Di Biase. Pure lui ha partecipato a quel cammino di giustizia riparativa, e spiega: «I processi giudicano i reati, senza rispondere alle domande su chi e perché ha spinto i colpevoli ad agire senza valutare le conseguenze dei loro gesti. Io invece avevo bisogno di quelle risposte, possibili solo con l’ascolto e il dialogo con il colpevole che l’accetta, dopo che pure lui torna a riumanizzarsi comprendendo la nostra sofferenza. Raggiungere la verità significa scoprire anche le ragioni di chi ha ucciso; non per giustificarle, ovviamente, ma per calare il nostro dolore di vittime nella storia che l’ha prodotto».
A questo servono le memorie condivise.
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