martedì 6 maggio 2025

Sognando una Papessa

 


Viola Ardone
Sognando una Papessa: cosa manca per un Vaticano egualitario
La Stampa, 5 maggio 2025 

Da piccola volevo diventare prete. Non suora, proprio prete. Frequentavo assiduamente la Chiesa per prepararmi alla prima comunione e durante l’anno di catechismo avevo imparato a memoria tutte le preghiere, anche il Credo, che sapevamo a menadito solo in due o tre in tutto il corso.

Rispondevo con prontezza alle domande sulle questioni teologiche più complesse: dov’è Dio? Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo. Qual è la natura di Dio? Dio è uno e trino. Che cosa ci ha insegnato Gesù? Ama il prossimo tuo come te stesso.

Cantavo nel coro della chiesa e dopo la funzione raccoglievo i fogli della messa abbandonati sulle panche e poi, a casa, dicevo messa per le mie bambole disposte in fila. La mia fede si incrinò quando maturai la consapevolezza che, essendo donna, non avrei mai potuto officiare, né indossare i paramenti sacri, neppure fare la predica ai fedeli.

E infine che ogni opportunità di carriera nel mondo ecclesiastico mi era preclusa per nascita. Non avrei mai potuto seguire il fulgido esempio di Giovanni Paolo II, affacciarmi benevola su piazza San Pietro, proferire parole di conforto e di fede urbi et orbi.

La mia delusione non aveva a che fare con un senso di ingiustizia di genere. Non ero offesa dal fatto che nessuna donna avrebbe mai potuto essere a capo della Chiesa. Mi dispiaceva che io non sarei mai potuta diventare papa. Forse mi ci sentivo portata, non so, da bambini sembra tutto possibile.

Ora, a pochi giorni dall’inizio del Conclave, mi riaffiora quel ricordo di bambina ma da una nuova prospettiva. Se fino a non molti anni fa assistere a un dibattito tra soli uomini era la norma, oggi un convegno, un’iniziativa, una trasmissione televisiva o radiofonica in cui manchi il punto di vista femminile appare inconcepibile.

I club delle cravatte esistono ancora, certamente, ma sono socialmente inaccettabili. Certo, è una strada in salita e costellata da criticità, e non tutte le donne (nelle istituzioni, nella finanza, nella cultura) sono o si sentono rappresentative anche delle altre.

Però è indubitabile che un cambiamento è in atto, e per questo assistere oggi all’elezione di un capo di Stato e del capo della cristianità da parte di 133 cardinali è una scena che, anche solo visivamente, appare straniante. Un’immagine che appartiene al passato.

Non voglio certo entrare in una disputa teologica né toccare questioni di diritto canonico sull’elezione del pontefice o sul sacerdozio femminile. Non sono (più) credente da molti anni ma resto convinta che ogni religione debba darsi le regole che vuole, a patto che non confliggano con la laicità dello Stato e con i diritti delle persone. Chi non approva quelle regole o non si riconosce in esse è libero di professare il suo ateismo o di rivolgersi a un’altra Chiesa, a un altro credo.

Mi resta però un dispiacere, che ha origine forse nelle mie ambizioni infantili: come può un’istituzione così radicata nel tempo e nello spazio, quale è la Chiesa cattolica, come può una voce così autorevole e influente per milioni di persone, quale è quella del papa, prescindere dalla visione femminile del mondo, della fede, della dottrina? Come si fa a essere pastore di anime senza confrontarsi con il punto di vista, le istanze, i bisogni, la ricchezza di pensiero di quello che Simone de Beauvoir definiva provocatoriamente il “secondo sesso”?

Se le donne della Chiesa avessero voce in capitolo (fuor di metafora, stavolta), quale sarebbe la posizione del mondo cattolico su temi come le coppie omosessuali, le persone transessuali, l’eutanasia, l’aborto, il divorzio? Certo, Papa Francesco, che ho avuto modo di incontrare in Cappella Sistina, in occasione di un’udienza dedicata alle scrittrici e agli scrittori, ha insegnato che la Chiesa è aperta a tutti, a todos, come non si stancava mai di ripetere.

Una posizione di enorme apertura (spesso criticata dai conservatori) che però non è bastata a modificare l’assetto di un’istituzione patriarcale basata sul potere degli uomini, in cui agli uomini sono riservati i ruoli apicali e che affida agli uomini la designazione del suo capo, il quale deve essere necessariamente un uomo.

Nel Medioevo si era diffusa, intorno al settimo secolo, la leggenda della Papessa Giovanna, che avrebbe regnato sulla Chiesa col nome pontificale di Giovanni VIII dall’855 all’857. Questa storia, quasi certamente priva di fondamento, ci testimonia un’atavica paura, quella che una donna potesse con l’inganno mettersi a capo della comunità cristiana.

Nacquero altre leggende, tra cui quella di una fantomatica sedia papale provvista di un foro centrale adibito a un’accurata ispezione intima. Per evitare altri spiacevoli incidenti, un incaricato avrebbe avuto il compito di sottoporre il papa a una sorta di “prova di virilità”, tastare con mano la presenza di attributi maschili, e solo in caso positivo esclamare a gran voce: “Virgam et testiculos habet”. A queste sue parole, i cardinali, sollevati, avrebbero risposto “Deo gratias!” procedendo alla ratifica della consacrazione.

L’immagine perturbante della Papessa è rimasta nei Tarocchi, che le dedicano uno degli arcani maggiori più importanti, la sua apparizione annuncia infatti l’intuizione, la saggezza e la capacità di affrontare le sfide con consapevolezza e forza interiore.

Un papa donna, in realtà, non è mai esistito e forse non esisterà mai, perché le religioni si basano su un sistema valoriale statico e tradizionale e proprio da questo traggono la loro forza e persistenza. Possiamo però augurarci che il nuovo papa, chiunque sia, abbia la capacità di comprendere anche il punto di vista femminile. Come sarà possibile? Per opera e virtù dello Spirito Santo. Così ho imparato da bambina.

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Raffaella Romagnolo
Il mondo è cambiato, la chiesa no: così le donne restano invisibili
La Stampa, 5 maggio 2025

Suore ne ho incontrate tante. Le prime, all’asilo. Una si chiamava suor Clemente, nome da maschio e piglio da generale prussiano, indimenticabile. Un’altra lavorava nell’ospedale della piccola città dove sono cresciuta, suor Tersilla. Era così solerte, esperta e benvoluta che a un certo punto la premiarono come cittadina dell’anno. Conobbi poi molte suore a scuola, alle medie mi insegnavano Italiano, Storia, Geografia, Musica e Ginnastica (sì, Ginnastica).

Ne conosco diverse che mandano avanti l’ospizio vicino a casa mia. Di altre mi sono arrivate solo le voci, le ho sentite cantare nella chiesa del convento di clausura a due chilometri da dove abito. L’ultima che ho incontrato ha circa la mia età e ha preso i voti da grande, dopo averne fatte di ogni (parole sue). Donne diverse, anche molto, simpatiche, antipatiche, accoglienti, respingenti, ambiziose, pazienti, generose, manipolatrici. Donne dai differenti talenti, nel senso evangelico del dovere da compiere per far fruttare al meglio il dono che il Padreterno ti ha fatto mettendoti al mondo. In comune due tratti essenziali: hanno consacrato la vita a Dio e, a differenza dei consacrati maschi, non possono immaginarsi parroco, vescovo, cardinale, papa.


Si dirà che è sempre stato così, che lo sapevano prima di prendere il velo. Che il “secolo” (cioè il mondo, nel linguaggio antico della Chiesa) non è per loro. Regola arcaica almeno quanto la parola (forse di più). Ma nel frattempo il secolo/mondo è cambiato e oggi le donne possono immaginarsi e poi diventare dirigente, magistrato, astronauta, capo di Confindustria, segretario generale della CGIL, ministro, presidente del Consiglio e, almeno in via teorica (ma confido sia solo questione di tempo), presidente della Repubblica. Non è facile, non è una strada in discesa, ma è una strada percorribile e percorsa. Per le donne consacrate, no.

L’uguaglianza è orizzonte e progetto di ogni democrazia, che è altro dalla monarchia assoluta che in questi giorni si appresta a celebrare il rito di sostituzione del capo. Cerimonia officiata da una sorta di consiglio degli anziani che sceglierà un proprio membro (funziona così dal 1389, dice Wikipedia).

Per i credenti, me compresa, saranno guidati dallo Spirito Santo. Che però, e spero non sia blasfemia, non me lo immagino a questionare se le donne in quanto donne siano indegne della massima carica o anche solo di dir messa. Ma si troverà comunque con le mani legate, lo Spirito Santo, legate da umani maschi che hanno stabilito le regole, e su un maschio gli toccherà quindi indirizzare le preferenze dei votanti. E così si rinnova ancora una volta il disagio, di più, l’insofferenza che provo ogni volta che, laddove si decide qualcosa di importante, al tavolo non sono invitate donne. La sensazione di non essere viste, rispettate, valorizzate nel nostro talento, sempre in senso evangelico, il dovere di vivere in pienezza la propria vita. È un’insofferenza crescente, la proviamo in tante, sempre di più.


Sul tavolo dove lavoro ho una bella immagine della Madonna. È una cartolina che la ritrae come l’ha dipinta Piero della Francesca nel Polittico della Misericordia, conservato al Museo Civico di Sansepolcro. Fondo oro abbagliante, Maria in posa ieratica, il volto un ovale perfetto, creatura solida, potente, ultraterrena. Sotto il mantello accoglie uomini e donne, buoni e cattivi, anche il boia. Si tratta di un soggetto tradizionale, medioevale, che dice protezione e a me parla del presente. Dice che non bisogna aver paura, che c’è speranza. Non basta però che il papa passato e quello futuro s’inginocchino alla Vergine. Se la Chiesa vuole stare nel secolo/mondo, qualche ragionamento in più, nelle segrete stanze, andrà pur fatto. Si ricordano i passi di Francesco in questa direzione, le nomine femminili in posti chiave. Persone (non uomini, non donne), persone giuste al posto giusto.

Serve ancora coraggio. L’alternativa è starne fuori, dal secolo/mondo, chiusi cerimoniosamente a chiave in una stanza meravigliosamente affrescata, in cui però metà degli umani, tenuti alla porta, hanno sempre meno voglia di entrare.




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