Jhumpa Lahiri: “Perché ho scelto di essere italiana”
La Stampa, 14 maggio 2025
E' appena uscito in Italia un mio libro, Perché l’italiano? il cui titolo finisce con un punto interrogativo. Il titolo deriva da uno dei saggi nel volume che avevo scritto circa dieci anni fa per spiegare meglio la scelta di sperimentare una nuova lingua letteraria. Quel saggio intanto deriva non solo dal fatto di essere stata tempestata da domande in merito alla suddetta scelta, ma per dare una risposta anche a me stessa. Essendo figlia di stranieri negli Stati Uniti, un perché mi ha perseguitata tutta la mia vita. Perché siete qui? Dovevamo rispondere, appianare. Perché può esprimere una genuina curiosità, oppure no. In ogni caso, la parola in sé mette in dubbio chi sei, e perché sei come sei.
Visto che la mia scelta non ha a che fare con legami personali o familiari, né con motivi palesemente politici, la frequenza della parola perché si è aumentata notevolmente nei miei confronti. Ho scelto un giorno di studiare la lingua, questo sì. Detto questo, nella mia testa, non ho scelto, io, l’italiano come lingua letteraria, anzi, la lingua ha scelto me. Mi ha attirata, mi ha parlato con chiarezza, mi ha proposto di entrare e di esplorare i suoi particolari. Ogni dizionario, ogni grammatica era un locus amoenus accogliente: bastava aprirli, studiarli. I vocaboli e le regole della lingua italiana non mi hanno chiesto di giustificare la mia attività. Non mi hanno mai chiesto un motivo preciso, un perché.
In latino, un termine per l’avverbio interrogativo perché è quid. Nelle Metamorfosi di Ovidio, un’opera che sto traducendo dal latino all’inglese in questo momento, la prima frase interrogativa con l’equivalente accezione di perché si trova nel secondo libro. Sta parlando il Sole, padre di povero Fetonte. «Quid mea colla tenes blandis, ignare, lacertis?» (2.100). «Perché mi abbracci per blandirmi?» è la traduzione di Guido Paduano. Per ignare, aggiunge, «Non sai». Ma ignare in latino è un ricco aggettivo che vuol dire non solo ignorante ma inesperto, nuovo, ignoto. Troviamo un’eco importante in un sonetto di John Milton composto direttamente in italiano: «Perche tu scrivi in lingua ignota e strana… e come t’osi?»
Fetonte vorrebbe verificare che sia davvero il figlio del Sole. La brama sventata di saperlo lo distruggerà, e distruggerà quasi il mondo stesso. La prima occorrenza della domanda perché, allora, parla della disperazione di un ragazzo che cerca un’appartenenza priva di alcun dubbio, un’identità scevra di ogni perché. La formula per descrivere l’italiano in cui vi parlo oggi, in cui scrivo da dodici anni - ossia, la terminologia dell’adozione - mi fa pensare a questo momento in Ovidio. Quel perché, benché ragionevole, insiste sullo scarto fra me e la lingua, e sulla mancanza di un legame autentico, inconfondibile. Non sono figlia di italiani, eppure, l’italiano - che entra nel cervello e nelle vene, dove scorre e dà linfa - ha cresciuto una parte significativa di me.
Per rispondere a un perché in inglese - why? - serve un’altra parola, because. In italiano invece, l’avverbio interrogativo può diventare una congiunzione con un valore causale. Scrivo in italiano, fino in fondo, perché è stato possibile farlo, perché le lingue di per sé sono luoghi aperti, senza barriere. Spesso in Ovidio, i personaggi si trovano davanti a un bivio, e si chiedono, quid faciat - che fare? Ecco, a un certo punto, davanti a un bivio fra due lingue a me straniere per due ragioni diverse, mi sono girata verso una. Lungo la strada italiana mi salutano tanti scrittori marcati, anche loro, da un perché. Perché Cesare Pavese si è tuffato così profondamente nell’inglese, nei suoi tempi un mare proibito sotto il fascismo? Perché Antonio Tabucchi ha scritto un romanzo in portoghese per elaborare il lutto di suo padre? Perché Amelia Rosselli, oscillando fra inglese, francese e italiano, è sempre sfuggita a una vera lingua madre? Lo scrittore lavora non per rispondere alla parola perché ma per lasciarci in dubbio, per creare lacune di comprensione, per farci tacere. Nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, però ch’ogne parlar sarebbe poco.
Lahiri, Jhumpa (propr. Nilanjana Sudeshna). – Scrittrice statunitense di origine indiana (n. Londra 1967). Nata a Londra da genitori indiani e cresciuta a Rhode Island (Stati Uniti), dopo la laurea in Lettere al Barnard College di New York (1989) si è specializzata in Inglese, Scrittura creativa e Letteratura comparata presso la Boston University, dove ha inoltre conseguito un dottorato in Studi rinascimentali. Nei suoi scritti, caratterizzati da uno stile asciutto e da un'impronta fortemente autobiografica, indaga le contraddizioni delle identità culturali prodotte dall’immigrazione, coinvolte nel difficile processo di ibridazione dei modelli tradizionali dei paesi di origine con le realtà dei nuovi contesti di accoglienza: così nelle raccolte di racconti Interpreter of maladies, 1999 (trad. it. 2000), accolta con vasto consenso da pubblico e critica e vincitrice di numerosi premi tra cui il Pulitzer e il PEN/Hemingway award, e Unaccustomed earth (2008, trad. it. 2008), premiata con il Frank O'Connor international short story award e l’Asian American literary award, e nel suo primo romanzo The namesake (2003), da cui nel 2006 M. Nair ha tratto il film omonimo (Il destino del nome, 2007). Tra le sue opere successive occorre ancora segnalare The lowland (2013; trad. it. La moglie, 2013), romanzo storico ambientato nella Calcutta dei tormentati anni dell'indipendenza indiana; In altre parole (2015), selezione dei racconti scritti in lingua italiana per la rivista Internazionale; il saggio The clothing of books (2017; trad. it. 2017); il romanzo Dove mi trovo (2018), il primo scritto in italiano; Il quaderno di Nerina (2021); la raccolta di racconti Racconti romani (2022). (Treccani)
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