![]() |
Shengjin |
![]() |
Gjiader |
«Meglio il carcere che finire a Shengjin». Hamid Badoui,
suicida a Torino
Rita Rapisardi, il manifesto, 21 maggio 2025
«Ci
aveva fatto vedere una pagella di un istituto tecnico di Torino,
fiero dei suoi voti,
tutti sette e otto. Ma era visibilmente fragile,
stremato dalla sua permanenza nel cpr di
Gijader». È così che
Cecilia Strada ricorda Hamid Badoui, quarantenne di origine
marocchina morto suicida nella notte tra sabato e domenica nel
carcere di Torino,
appena tornato dopo una permanenza di oltre un
mese nel centro albanese, dove
l’europarlamentare lo aveva
incontrato.
BADOUI viveva
nel capoluogo piemontese, in Italia da quindici anni, aveva la carta
d’identità, una madre con un permesso senza scadenza e una sorella
pure con la
cittadinanza. La spirale della droga in cui era finito lo
aveva portato a fare piccoli
furti per permettersi il crack. Da lì
un circolo vizioso, tra condanne e soggiorni in
carcere, senza nessun
piano per combattere la dipendenza. Circa due mesi fa aveva
finito di
scontare l’ultima pena al Lorusso Cutugno, ma il giorno dopo,
siccome i
documenti di permanenza erano scaduti, era stato trasferito
nel Cpr di Bari, dove è
rimasto per tre mesi. Da lì l’Albania, da
cui era venuto via dopo che la giudice aveva
stabilito l’irregolarità
della sua detenzione. Una decisione arrivata «in attesa della
definizione di costituzionalità, sollevata negli analoghi giudizi,
dalla Corte
costituzionale».
ARRIVATO a
Torino venerdì, Badoui è stato arrestato nel quartiere Barriera di
Milano: pare fosse andato in escandescenza contro la polizia dopo
aver subito un
furto. Così è finito di nuovo in manette, mentre il
quartiere intero protestava perché non lo portassero via. Meno di
ventiquattro ore dopo l’uomo si è impiccato con i lacci delle
scarpe. Aveva paura di
ritornare in Albania. Al suo avvocato aveva
detto: «Meglio il carcere che il Cpr». La
procura ha aperto
un’inchiesta. «Aveva paura di non poter accudire la madre malata
di cuore e temeva di essere rispedito in Albania senza poterle essere
di aiuto –
racconta ancora Strada -. Si lamentava, perché almeno
in carcere poteva chiamare
la famiglia, ma da lì no. Tutte le
persone che abbiamo incontrato (la prima volta 39 e durante la
seconda visita, 25, ndr) erano molto fragili». Persone prese e messe
nei centri voluti dal governo Meloni: «Delle piccole Guantanamo,
senza la possibilità di sentire nessuno, senza
sapere il proprio
destino, visto che si può restare lì dentro fino a diciotto mesi»,
chiosa l’europarlamentare. «Non esiste alcuna gestione delle
migrazioni che possa
passare sopra la dignità e la salute mentale
delle persone – prosegue la deputata del
Pd Rachele Scarpa -. Ci
troviamo di fronte all’ennesimo fallimento umano e politico.
E il
fatto che l’eco di questa tragedia sia così flebile nella
discussione pubblica la
rende ancora più insopportabile. Hamid non è
una vittima casuale: è il prodotto di
un sistema costruito per
schiacciare».
STRADA insieme
a Scarpa ha presentato alla Corte europea un documento che
descrive
come questi trasferimenti e le condizioni in cui avvengono sono
paragonabili alla tortura: gli stranieri senza documenti vengono
prelevati a
sorpresa dall’Italia, legati mani e caviglie per venti
ore e trasportati in luoghi di cui
non sanno niente, non godendo dei
diritti basilari.
Che posti sono Shengjin e Gjader
Il Post Lunedì 2 dicembre 2024
Daniele Raineri
Ossia le località albanesi dove il governo italiano ha costruito i discussi centri per migranti: la prima punta tutto sul turismo estivo, nella seconda non c'è niente da vedere

Il governo italiano ha costruito i due discussi centri per migranti in Albania nelle località di Shengjin e Gjader, nella zona nord-ovest del paese. Distano poche decine di chilometri, ma sono posti molto diversi: Shengjin è una città sul mare che negli ultimi anni si sta sviluppando come meta turistica, mentre Gjader è un piccolissimo centro urbano nell’entroterra, che ha ben pochi motivi per essere visitato.
Shengjin si estende tra il mare e le montagne. Ha circa 7mila abitanti, ma d’estate il numero di persone presenti aumenta parecchio. Da qualche anno la città si è riempita di grandi hotel, ognuno con decine e anche centinaia di stanze: alcuni palazzi sono relativamente nuovi, mentre altri sono visibilmente vecchi, con le facciate sbiadite e le ringhiere dei balconi arrugginite. Gli hotel si susseguono uno dopo l’altro occupando gran parte del lungomare, intervallati solo da bar o ristoranti con ampi spazi all’aperto, pensati per le giornate estive. Molti offrono piatti italiani e hanno nomi italiani, come “Azzurro” o “Blu Mare”.
La via del lungomare è il punto principale della città: è lunga poco più di un chilometro e in estate viene percorsa avanti e indietro dai tanti turisti che arrivano a Shengjin per le vacanze. Sul lato opposto agli hotel c’è una spiaggia di sabbia, larga abbastanza da farci stare comodamente una decina di file di ombrelloni. La stagione inizia a giugno (anche se già a maggio i proprietari dei lidi iniziano ad aprire gli ombrelloni e posizionare i lettini) e culmina in agosto, per poi andare calando in settembre e ottobre.
Shengjin è una città che lavora e prospera solo d’estate, mentre nei mesi invernali è deserta. A fine novembre la spiaggia è completamente vuota, gli ombrelloni e le sdraio sono stati chiusi e riposti all’interno dei bar.
Passeggiando in riva al mare non si sente nessuna voce, non si vede nemmeno una persona.

Ombrelloni raggruppati sulla spiaggia a Shengjin, Albania (Il Post)
Anche molti hotel, ristoranti e negozi della città chiudono durante l’inverno: le stanze rimangono vuote, le saracinesche abbassate. I pochi locali aperti hanno qualche cliente, ma sono assai lontani dall’essere pieni, e persino i posti auto vicinissimi alla spiaggia sono liberi.
Nella parte interna della città, oltre il lungomare, si estende qualche altra via con hotel, bar e supermercati. In estate per le strade si vedono materassini gonfiabili, giochi per bambini, ombrelloni e teli mare messi in vendita. In inverno i locali rimasti aperti sono decorati per Natale, con ampio uso di lucine, sticker per le vetrate con renne e pacchi regalo, ghirlande e finti alberi addobbati.

Hotel sul lungomare a Shengjin (Il Post)
Oltre alle attività turistiche a Shengjin non c’è molto altro. C’è una scuola materna chiamata “Don Marino Pigozzi”, che può accogliere fino a cento bambini. Fu inaugurata nel 2014 grazie all’aiuto di Operae Life, un’associazione di volontariato italiana: gran parte dei primi arredi proveniva da scuole materne di Bergamo e Trento. Ci sono anche una scuola elementare e una scuola media, che sono nello stesso edificio perché nel sistema scolastico albanese i due gradi sono accorpati.
Poco lontano dal centro, un po’ nascosta, c’è una piccola chiesa cattolica: fu inaugurata nel 2017 con l’aiuto del Centro missionario diocesano di Bergamo, come ricorda una targa commemorativa posta vicino all’ingresso. A Shengjin non ci sono biblioteche, cinema, teatri o musei, e gli spazi pubblici di aggregazione sono pochi. Per avere più servizi bisogna spostarsi nella città di Lezhe, a circa un quarto d’ora di macchina, che è il capoluogo dell’omonima provincia.
La zona del porto commerciale, dove il governo italiano ha fatto costruire l’hotspot in cui dovrebbero essere identificati i migranti soccorsi dalle autorità italiane, è a meno di un chilometro dalla spiaggia, ma sembra stare in un altro mondo. Per raggiungerlo bisogna percorrere tutto il lungomare verso nord, poi girare a destra e proseguire camminando per circa cinque minuti in una zona industriale, costeggiando vari capannoni dismessi ed edifici abbandonati. Qui non ci sono più hotel o palazzoni, anche se dei cartelli indicano la presenza di campeggi e resort a breve distanza.

L’ingresso del porto di Shengjin (Il Post)
L’ingresso del porto è indicato con un cartello giallo: è impossibile non vederlo. Da lì però comincia un’area demaniale a cui non si può accedere senza autorizzazione. All’interno non è molto grande, e tutto il molo si percorre facilmente a piedi. L’area dell’hotspot è subito a sinistra dell’ingresso, recintata su tutti i lati da una sorta di muro di metallo. Non si può entrare, ma dall’esterno si scorge qualche telecamera. In linea d’aria il porto di Shengjin dista 240 chilometri da quello di Bari: più o meno la distanza che c’è tra Milano e Livorno, o tra Roma e Salerno.
Davanti al porto ha aperto da pochi mesi la Trattoria Meloni della catena albanese Rozafa Tuna. È un posto inaspettatamente ospitale per la zona in cui si trova, che invece è respingente a causa dei molti edifici abbandonati, delle strade poco trafficate e delle rigide misure di sicurezza attivate intorno al porto.
Il ristorante è ampio e tappezzato con decine di ritratti della presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni: non fotografie, ma proprio dipinti che la raffigurano in diversi abiti ed espressioni. Un venerdì di festa, a fine novembre, a pranzo c’è una cinquantina di persone. Un cameriere dice che è un numero di clienti nella media. «A volte vengono anche gli operatori italiani» che lavorano nell’hotspot, «ma non sempre», aggiunge. Di certo ci sono andati molti giornalisti.

La Trattoria Meloni a Shengjin (Il Post)
Shengjin aspetta l’estate per sette mesi all’anno. A Gjader, invece, la vita scorre più o meno sempre uguale. È una piccola frazione del comune di Lezhe, nell’entroterra: da Shengjin bisogna raggiungerla per forza in macchina (non esistono mezzi pubblici), attraversando le montagne e fiancheggiando delle cave di roccia, su una strada a doppio senso dove però c’è spazio per una sola auto.
A Gjader c’è qualche decina di case, a uno o due piani, qualche bar gestito da persone locali, un barbiere, alcuni piccoli supermercati. C’è una scuola che offre lezioni dalle elementari alle superiori tutto nello stesso edificio, una chiesa cattolica e un centro medico: il dottore è presente due giorni a settimana, negli altri ci sono le infermiere che assistono i malati cronici. È un posto desolato, che negli ultimi anni si è gradualmente spopolato. Oggi ci sono poche centinaia di abitanti (non è disponibile un numero preciso).

LLa piccola chiesa cattolica di Gjader (Il Post)
L’unica attività aggregativa presente a Gjader è la Casa Rozalba, gestita dalla Congregazione delle Maestre Pie Venerini, un istituto religioso femminile la cui sede principale è a Roma. È una casa famiglia che ospita circa 20 ragazze che provengono da tutta l’Albania, dice suor Alma, la responsabile. Il centro «è riconosciuto dallo stato albanese: le ragazze vengono indicate dai servizi sociali nazionali e portate qui».
Sono persone tra i 6 e i 17 anni che hanno avuto esperienze di abusi, abbandono oppure sono state vittime di tratta. A Casa Rozalba ci sono tre suore e uno staff di educatori, psicologi, e assistenti sociali. Dopo il compimento dei 18 anni aiutano le ragazze a scegliere cosa fare, magari andare all’università oppure trovare un altro alloggio in una famiglia, in alcuni casi in Italia.

Casa Rozalba (Il Post)
La Casa gestisce anche un oratorio che organizza giochi e attività per tutti i bambini, bambine, ragazzi e ragazze della zona: «È l’unico luogo dove si possono incontrare, l’alternativa è solo la strada», dice suor Alma. C’è anche una casa di emergenza per le donne vittime della tratta di esseri umani o di violenza domestica: in seguito a una denuncia possono stare qui per un po’, prima di trovare un’altra sistemazione.
A pochi passi dal centro abitato, e dalla Casa Rozalba, c’è il grande centro per migranti costruito dal governo italiano. È completamente recintato da un alto muro in cemento e metallo, che non fa intravedere nulla di quello che succede all’interno. Entrare è impossibile senza autorizzazione, e non si possono nemmeno fare foto: gli ingressi sono presidiati da poliziotti albanesi incaricati di garantire il rispetto delle regole.
Scalando le montagne circostanti si riesce ad avere un’immagine più chiara dell’estensione e della forma del centro per migranti di Gjader, composto da tre diverse zone separate tra loro.

Il centro per migranti costruito dal governo italiano a Gjader, con centro di trattenimento, CPR e carcere (Il Post)
Il centro si sviluppa su parte del territorio di una base militare dell’aeronautica albanese, inaugurata nel 1974 e poi usata principalmente durante la Guerra Fredda. All’interno delle montagne che si trovano alle spalle del centro si sviluppa un’estesa rete di tunnel, che culmina in dei bunker dove venivano custoditi gli aerei.
Come ha scritto il sito albanese Telegrafi, quando fu costruita, la base militare di Gjader era una struttura all’avanguardia: all’interno dei tunnel c’erano anche un centro per la riparazione degli aerei e sistemi di ventilazione e antincendio considerati molto efficienti. La base aveva anche una propria centrale elettrica, in modo da poter disporre una fornitura indipendente nel caso in cui fosse stata disconnessa dalle reti dei vicini centri urbani. Oggi gran parte degli edifici della base, tra cui quelli che ospitavano gli alloggi dei soldati, è dismessa e abbandonata.
Anche qui però è impossibile fare foto: la sicurezza è stata aumentata da quando è stato costruito il centro, e ci sono sempre agenti albanesi che controllano la zona per non far avvicinare nessuno.
Nessun commento:
Posta un commento