Un progetto “geoculturale”: ecco la rivoluzione di Leone
Le prime parole del nuovo papa delineano un progetto non geopolitico, ma geoculturale. Un progetto che Bergoglio ha iniziato e che Prevost proseguirà
«Dio ama comunicarsi, più che nel fragore del tuono e del terremoto, nel “sussurro di una brezza leggera”», ha detto ieri papa Leone XIV ai cardinali, con la citazione biblica dal libro dei Re che racconta il suo inizio di pontificato. Un sussurro, più potente e vero del clamore incessante delle leadership mondane, ansiose di farsi venerare come vitelli d’oro ma incapaci di governare le crisi, dall’Ucraina a Gaza, fino a India e Pakistan. Sono le prime parole, i primi passi di un nuovo papa che non è stato scelto per improvvisazione, è il risultato di un lungo lavoro di preparazione.
Il suo primo discorso scritto, non buttato giù pochi istanti prima di affacciarsi di fronte al mondo, ma pensato nella pausa del pranzo, prima della votazione che lo ha eletto papa, svela la dinamica del conclave oltre ogni segreto e ricostruzione interessata (far girare il retroscena che Parolin è stato decisivo). Una scelta che non ha mai incontrato ostacoli, anche se ha sorpreso quasi tutti gli osservatori, a disagio con gli imprevisti, come sempre.
Un papa geo-pastorale: le Americhe
Il primo papa nord americano è anche il secondo papa latino-americano. L’America, le Americhe sono l’orizzonte di progetto che non è geopolitico, ma geo-pastorale, geo-culturale, dunque potentissimo. Un progetto che papa Francesco ha cominciato, che papa Leone proseguirà, che ha tenuto uniti all’inizio del conclave i cardinali statunitensi, quelli latini, i canadesi e poi si è allargato all’Asia e al Mediterraneo.
Al di là delle differenze, il newyorkese Timothy Dolan e l’argentino Víctor Manuel “Tucho” Fernández hanno sostenuto lo stesso nome, Prevost, espressione della visione comune che attraversa l’intero continente. Dalle Ande, dagli Angeles Arcabuceros della minuscola chiesa di San Francisco de Paula, nel villaggio argentino di Uquía, gli incredibili affreschi degli angeli con le pistole e gli archibugi dipinti nel Seicento dagli indios, oggi custoditi con orgoglio dai loro discendenti, fino ai canyon metropolitani di Manhattan, nella Fifth Avenue a New York, dove c’è la cattedrale di Saint Patrick, una basilica medievale a sette minuti a piedi dalla Trump Tower. Anche oggi, come ogni domenica, a Saint Patrick sarà celebrata la messa in spagnolo, sarà la prima con un papa americano. Nella navata c’è la scultura “Let the oppressed go free”, una barca carica di migranti. L’artista canadese Timothy Schmalz è lo stesso che ha scolpito le figure in bronzo “Angels Unawares”, gli angeli senza saperlo con le braccia protese, opera voluta in piazza San Pietro da papa Francesco.
I migranti, nelle Americhe, sono il fondamento di un cattolicesimo non più figlio delle emigrazioni europee, ma originale, che non annulla nessuno e che accoglie tutti. Il conservatore cardinale Raymond Leo Burke recita novene online per la messicana Madonna di Guadalupe. Oscar Arnulfo Romero, il vescovo del Salvador assassinato dagli squadroni della morte nel 1980, isolato dal Vaticano in vita e canonizzato nel 2018, è venerato in tutto il continente. Prevost, americano e peruviano, è figlio di questo cattolicesimo sempre in missione, per cui il male è la volontà di ridurre le persone a una sola cultura, è il fondamentalismo politico e nazionalista che vuole diventare fondamentalismo religioso.
Dopo Francesco, è il portatore di un progetto di rinnovamento della chiesa universale e del mondo, l’opposto di uno spirito egemonico occidentalista. Lo stesso che nel Medioevo in Europa animava i monasteri, e poi i francescani, i gesuiti. Con il percorso opposto a quello del Cinquecento, quando il cristianesimo arrivò in America con i conquistadores spagnoli e i loro genocidi. Oggi sono gli americani, sono le Americhe chiamate a annunciare il Vangelo nel mondo, anche alla stanca, impaurita, vecchia Europa.
Le geografie umane delle città
Nella sua prima omelia davanti ai cardinali Leone XIV ha parlato della Chiesa come di «una città posta sul monte, arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia». L’arca è una immagine di speranza, lontanissima da quella che usò Joseph Ratzinger prima di essere eletto papa nel 2005: la piccola barca agitata dalle onde, sballottolata «qua e là da qualsiasi vento di dottrina». La città è Gerusalemme, nel libro dell’Apocalisse, la Civitas Dei di Agostino. Ma è anche il luogo in cui gli uomini e le donne vivono, soffrono, amano. «La rivelazione ci dice che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città», scriveva papa Francesco nella Evangelii Gaudium.
«Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane... Una cultura inedita palpita e si progetta nella città». Prevost, nato a Chicago negli anni Cinquanta, è il secondo papa nato in una grande città, dopo Bergoglio a Buenos Aires, la città-labirinto di Borges, «inestricabile d’immagini, un magma che cancella identità e tracce. Per Bergoglio il centro metafisico di una nuova rilettura della pietà», ha scritto Silvina Pérez. «Dio vive nella città», si leggeva nel documento finale della conferenza di Aparecida (2007), presieduta dal cardinale Bergoglio, un modello di chiesa, di teologia del popolo. Il pueblo fiel cui si è rivolto, in spagnolo, papa Prevost nel primo discorso da San Pietro, perché non esiste un vescovo senza il suo popolo.
Da vescovo peruviano Prevost ha parlato in nome del suo popolo, ha affrontato a viso aperto il fujimorismo, il regime del presidente Alberto Fujimori, tecnocratico, liberista e poi autoritario. E quando i seguaci di Fujimori chiesero l’indulto e il perdono, il vescovo Prevost disse pubblicamente che prima avrebbe dovuto chiedere scusa alle sue vittime: i poveri, gli indios. Sono i primi indizi di come si muoverà con i grandi del mondo.
Leone fa la rivoluzione
Sabato 10 maggio, incontrando i cardinali, il papa ha spiegato la scelta del nome: Leone come Leone XIII, il papa dell’enciclica Rerum Novarum del 1891. Fino a quel momento la chiesa era rinchiusa nei palazzi, in lutto per la perdita del potere temporale, avvizzita nel generone, l’aristocrazia nera e papalina destinata a essere spazzata via.
«Voi la leggete tranquillamente, coll’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di quaresima. Alla sua epoca, piccolo mio, ci è parso di sentirci tremare la terra sotto i piedi. Quest’idea così semplice che il lavoro non è una merce, sottoposta alla legge dell’offerta e della domanda, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini come sul grano, lo zucchero o il caffè, metteva sottosopra le coscienze, lo credi?», scrisse Georges Bernanos in Diario di un curato di campagna.
La Rerum Novarum fu una rivoluzione. Il modo di essere dentro la modernità senza farsi travolgere. Un cambiamento d’epoca. «Oggi», ha detto Leone XIV, «la chiesa deve rispondere agli sviluppi dell’intelligenza artificiale e alle nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro».
Ma non è soltanto questa la sfida. Ora, si dice, Leone XIV non avrà bisogno di andare a vivere a Santa Marta, di compiere gli scossoni che furono necessari a Francesco, nel poco tempo che aveva, per aprire i processi, per spianare la strada nel deserto di una struttura ecclesiastica spenta e depressa.
Ma il cambiamento proseguirà. Per Leone XIV la navigazione non sarà mai sicura, ci saranno sempre i venti, i flutti che sovrastano lo scafo, il rischio di perdersi o di affondare. I morti delle guerre e delle migrazioni lo urlano ogni giorno. Ma chi ha fede è qui per dire, come ha fatto il papa con un sussurro, che il male non prevarrò e che gli uomini e e donne non sono mai lasciati soli. Sull’arca che attraversa i contenenti e i secoli, su cui viaggiano gli angeli che non si conoscono e che salvano il mondo.
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