venerdì 23 maggio 2025
La filosofia morale e politica, recuperando la tradizione delle virtù messa sotto traccia dall’esaltazione dei diritti liberal, con MacIntyre recupera le energie per tornare a pensare l’uomo e la vita
Il filosofo Alasdair MacIntyre

Il filosofo Alasdair MacIntyre 

“Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso”. Sono le parole, risalenti al 1981, che concludono Dopo la virtù (Armando editore), l’opera più celebre di Alasdair MacIntyre, il filosofo spentosi l'altro ieri all’età di 96 anni. Non si tratta di un testo accademico. È piuttosto una sassata lanciata nel lago. La filosofia morale e politica, recuperando la tradizione delle virtù fino ad allora (e ancora oggi) messa sotto traccia dall’esaltazione dei diritti proposta dalla tradizione liberal, con MacIntyre recupera le energie per tornare a pensare l’uomo e la vita di là dalle astrazioni. Dopo la virtù apre una pista di riflessione per costruire un progetto alternativo sia alla modernità razionalistico-empirista d’impronta illuminista sia alla deriva nichilistica-libertaria della postmodernità. Senza nostalgie per il passato, contro conservatorismi e pensieri nostalgici, MacIntyre aspira “alla costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale possa essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale abbiano la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità”. Il filosofo scozzese, nell’ultimo scampolo del secolo scorso e dopo la pubblicazione di questo testo, incontra una grande notorietà nel mondo anglosassone e in parte pure in Italia. Ma la radicalità delle sue posizioni, l’opposizione al liberalismo trionfante e la critica ai professionisti della filosofia portano a un suo progressivo isolamento benché sia stato capace di toccare il nervo scoperto del vivere insieme e di evidenziare nell’individualismo, nell’emotivismo e astrazione etica i tre eleemtni che impediscono la costruzione di una comunità e la pratica delle virtù.

Nato nel 1929 a Glasgow, Alasdair MacIntyre studia alle università di Londra, Manchester e Oxford per poi dedicarsi all’insegnamento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Dotato di una chiarezza esemplare nello stile e di una strategia di pensiero iconoclasta dinanzi ai dogmi utilitaristi dell’epoca, passa dalla fase marxista degli anni verdi, culminata nei testi su Marcuse e in Marxismo e cristianesimo (Nova Europa), alla successiva tradizione aristotelico-tomista. La svolta avviene, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, grazie al confronto con il lavoro di Elisabeth Anscombe, e sotto l’influsso delle opere del cardinale Newman e, in tarda età, del pensiero di Edith Stein, protagonista di una delle sue ultime monografie (Edizioni EDUSC). Non si tratta solo di passaggi intellettuali. Anglicano per nascita, dopo una fase atea, MacIntyre si converte al cattolicesimo attraverso la lettura di San Tommaso d’Aquino che, con Aristotele, gli fornisce pure l’armamentario per pensare la comunità tra uomini in epoca moderna e postmoderna, sottraendosi così all’individualismo e all’economicismo presenti nel pensiero di Marx.

Edificare la comunità ai tempi della tarda modernità non è facile. A renderlo complicato sarebbe quello che MacIntyre chiama emotivismo, vale a dire la convinzione che chiunque emetta un giudizio morale adombri, dietro una dichiarata verità generale, una preferenza personale. Qualsiasi considerazione morale diventa pertanto un’espressione consapevole o non riconosciuta di preferenze individuali. Esse però difettano di qualsiasi principio di valutazione razionale rendendo ardua la costruzione di un progetto di vita condiviso. Di questo il filosofo di Glasgow ne discute, nel 1988, nei due volumi di Giustizia e razionalità (Anabasi) in cui espone la sua concezione non universale sia della giustizia sia della razionalità. Una posizione testimoniata meglio dal titolo originale del lavoro, Whose Justice? Which Rationality?. Per il filosofo scozzese infatti non esiste una morale astratta e universale. Esistono costumi specifici e pratiche locali, entrambi iscritti in una tradizione, idea presa in esame nel 1993 in Enciclopedia, Genealogia, Tradizione. Tre Versioni Rivali di Ricerca Morale (Massimo Edizioni). Le pratiche locali non nascono dal nulla, dunque, ma si costruiscono per rispondere a particolari sfide sorte in contesti particolari. Accadde in passato, per esempio, con la moralità omerica, moralità stoica, moralità vittoriana e per molte altre. A caratterizzarle però, rispetto all’emotivismo è che ciascuna di esse prevede una concezione condivisa della virtù, del coraggio, della magnanimità.

Solo entro questo orizzonte condiviso può sorgere però quell’io narrativo che consente di porre a confronto e discutere le ragioni di una scelta, impossibili a pensarsi invece per un “io emotivista, che manca di qualsiasi criterio di valutazione razionale”. La pratica delle virtù di un io narrativo offre l’opportunità di uscire dal disordine morale dei tempi della tarda modernità e rende l’uomo capace di costruire una comunità edificata da quelle reti di dare e ricevere, che sono al cuore dell’ultima tappa condotta da Alasdair MacIntyre nella sua ricerca sulla comunità, Animali razionali dipendenti (Vita e Pensiero). L'ultimo suo titolo apparso in italiano stato L’etica nei conflitti della modernità (Mimesis), del quale proponiamo un estratto QUI.

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“Alasdair MacIntyre: una biografia intellettuale”, di Emile Perreau-Saussine: Contro la modernità Introduzione al pensiero del filosofo anglosassone, critico del liberalismo individualista. Nicolas Weill, Le Monde, 1 settembre 2005

Alasdair MacIntyre: una biografia intellettuale. Introduzione alle critiche contemporanee del liberalismo”, di Emile Perreau-Saussine, PUF, 168 p. Chi deplora la confusione tra liberalismo economico ("neo-" o "ultra-") e libertà politica resterà perplesso quando scoprirà, grazie a questa biografia intellettuale, il pensiero del filosofo scozzese residente negli Stati Uniti, Alasdair MacIntyre. L'autore di questo saggio chiaro e preciso, ricercatore francese che da tempo insegna pensiero politico all'Università di Cambridge (Regno Unito), conosce bene il pensiero politico anglosassone e, pur presentando il suo personaggio, sa marcarne le distanze. È infatti insolito che una critica così profonda della modernità provenga dall'altra parte dell'Atlantico. Rimane rilevante nella misura in cui, mettendo una dopo l'altra le due sfide alla società liberale del XX secolo, il fascismo e il comunismo, non invoca, come loro, l'abolizione della democrazia. È questa dunque una terza via che si apre, che passa attraverso la denuncia filosofica delle conseguenze dell’individualismo moderno e non attraverso un cambiamento di regime. Torniamo ad Aristotele

La formazione di MacIntyre, le cui sottigliezze sconsigliano qualsiasi lettura riduttiva, deve molto a Wittgenstein e alla sua discepola Elisabeth Anscombe, ancora poco conosciuta in Francia. Contemporaneo di Jacques Derrida e Jürgen Habermas, MacIntyre frequentò dapprima il Partito Comunista Britannico, il trotskismo e la Nuova Sinistra antistalinista e antiburocratica, prima di convertirsi al cattolicesimo nel 1983, una fede minoritaria sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti. Egli basa poi il suo pensiero politico sul ritorno ad Aristotele e a colui che in un certo senso lo ha "battezzato": Tommaso d'Aquino. In Francia, alcuni definirebbero volentieri questa nostalgia per le comunità di pescatori della Scozia settentrionale o per i monasteri benedettini come neoreazionaria. Ma il viaggio di questo personaggio dallo stile ironico e tagliente si rivela più complesso di quanto sembri. La sua opera è in realtà legata alla corrente "comunitaria" del pensiero politico nordamericano illustrata da altri filosofi come il canadese Charles Taylor o lo statunitense Michael Walzer. Tutti sono preoccupati per l'atomizzazione provocata dall'avanzata di un liberismo che distrugge le vecchie reti di solidarietà. Ma è MacIntyre a scacciare il più possibile dal suo orizzonte ogni residuo individualismo: mentre per Charles Taylor il tipo ideale resta quello dell'artista, MacIntyre preferisce esaltare il monaco o l'artigiano, la cui pratica è "incorporata" nella vita comunitaria. Un approfondimento delle tradizioni
MacIntyre critica la modernità per aver dissociato, a partire da Hobbes nel XVII secolo, la politica dalla questione del "buon vivere", limitando, per paura delle guerre di religione, le funzioni di uno Stato ormai neutralizzato alla sola salvaguardia della sicurezza e del benessere dei suoi cittadini. In una sorta di regressione, vediamo l'attenzione esclusiva alla sopravvivenza sostituire la vita comune. I laboratori mondiali
Come superare questa modernità, oggetto delle sue frecce nelle due opere disponibili in francese, Dopo la virtù e Quale giustizia? quale razionalità? (PUF)? Né attraverso l'astrazione kantiana di un Habermas, né tanto meno attraverso il relativismo postmoderno, ma correggendo l'assenza di spiritualità liberale attraverso un approfondimento delle tradizioni, unico accesso all'universale. Tuttavia, sarebbe sbagliato cercare un programma in questo filosofo che, pur ammettendo che la vita sociale costituisce un bene in sé, resta comunque pessimista. «Come se non restasse altro che ritirarsi dal mondo», scrive Emile Perreau-Saussine. Un pessimista i cui modelli sono difficili da individuare poiché si chiamano Lev Trotsky e San Benedetto, Santa Teresa d'Avila e Friedrich Engels. "Se la tradizione delle virtù è riuscita a sopravvivere all'orrore delle tenebre passate, non ogni speranza è perduta. Questa volta, però, i barbari non ci minacciano ai confini; ci governano già da tempo", scrive questo pensatore, mai privo di paradossi, in "After Virtue".

https://www.lemonde.fr/livres/article/2005/09/01/contre-la modernite_684434_3260.html