giovedì 8 maggio 2025

Sinistra senza pensiero


La “maledetta” primavera del 2025
Franco Livorsi
Città futura on line, 8 maggio 2025

... Ma perché questo accade?

Non è questione di lotta vittoriosa della borghesia contro il proletariato, come detto da un grande sociologo come Luciano Gallino nei suoi ultimi anni, per comprensibile reazione polemica all’establishment (come in La lotta di classe contro la lotta di classe, del 2012 e poi 2018). Abbiamo letto troppo Marx per non dare per scontato che ogni collettività sociale si prende gli spazi economico-sociali che il contesto storico sociale le consente di prendersi. Viviamo in un mondo in cui con un clic si comunica con chiunque, si vede chiunque faccia a faccia all’istante, e volendo si finisce per poterlo raggiungere anche fisicamente, seppure, per i più poveri, a rischio della pelle. I capitalisti portano le imprese dove c’è più forza-lavoro da comprare, e perciò costa molto meno ((e perciò abbassa il suo “valore” pure “qua”); la comperano (l’energia o capacità lavorativa di ogni ordine e grado) dov’è non solo abbondante e desiderosa solo di vendersi sul mercato, ma più o meno senza diritti e, in più, last but not least, dove loro pagano meno tasse, o non se ne pagano affatto. Anche i cervelli emigrano dove sono pagati di più. Persino i poveretti che scappano dalla Nigeria o altri poverissimi paesi seguono la stessa logica dei migliori cervelli, andando dove sono valorizzati comunque molto meglio che a casa loro, dove i poveri fanno la fame e se si ammalano spesso muoiono presto. L’informazione via etere, che arriva ovunque, fa apparire alla povera gente l’Occidente come il paese di Bengodi, o comunque come la terra in cui si mangia tutti i giorni, e si è più o meno curati dalla nascita in poi. La marea incontenibile degli immigrati turba l’ordine interno degli Stati e comunque “scoccia” tanta gente legata alle vecchie abitudini popolari. Anche se a mio parere tra dieci anni sembrerà persino strano che si sia pensato di poter fermare un’immigrazione biblica “per legge”.

Ma andrebbe pure spiegata l’incredibile caduta del livello degli statisti del mondo, mai sceso così in basso. Questo va pure al di là di questi dinamismi economici. Ciò sembrerebbe confermare il motto latino antico, poi cristianizzato, per cui quos Deus perdere vult dementat (“Dio fa impazzire quelli che vuole rovinare”). E vale per entrambe le parti in lotta, ossia tanto in campo populista (sovranista, ma io direi puramente e semplicemente neo-nazionalista “con basi di massa”) quanto in campo democratico progressista, riformista democratico e socialista. I capi neo-nazionalisti più potenti del mondo “sembrano” mattoidi veri, e i loro oppositori spesso sono “svitati”, nel senso di leader che non sanno quello che fanno, spesso come coscritti che si sparino sulle scarpe. Ho sempre trovato assurdo dare il voto alle forze in campo nella storia o politica “vera”, come i commentatori delle partite di calcio al bar il lunedì mattina, ma ora il dato umano negativo, o inadeguato, mi pare “non-normale”. Ci son troppi “matti” che si aggirano per il mondo (i più stimabili sono progressisti “scervellati”).

Sembra che alla fine dei “mondi” della storia capiti molto spesso. Alla fine dell’Unione Sovietica ci fu un Capo, Michail Gorbaciov, che all’inizio era stato una grande speranza pure per me (come scrissi sul “Ponte” nel vasto saggio del 1990 Socialismo e libertà nel mondo di Gorbaciov). Ipotizzavo, ahimé, che potesse risultare un “Lenin liberalsocialista”, anche se avvertivo già che se non avesse potuto o saputo mantenere lo “Stato di Stati” dell’URSS “unito”, sarebbe fallito. Comunque lo sopravvalutai grandemente. Il gorbaciovismo era stato una grande speranza pure per “Il Manifesto”, che all’epoca (1985/1991) diceva che la Russia stava tornando a dare “tutto il potere ai soviet”. Ma poi il “Capo”, Gorbaciov, lasciò dissolvere un impero sovietico costato tra russi e affini morti durante la cosiddetta collettivizzazione agricola e pianificazione industriale di Stalin, e in seguito all’invasione di Hitler, da trenta a quaranta milioni di sovietici, e che avendo vinto la “grande guerra patriottica” del 1941-1945 si era esteso da Vladivostok a Berlino, senza sparare una fucilata. Altro che superamento della degenerazione burocratico autoritaria del potere sovietico da Stalin in poi, degenerazione ipotizzata come abnorme, e perciò superabile, nel ’36 persino da Trockij nella Rivoluzione tradita, con speranza di riscossa contro la “degenerazione burocratica” stessa: speranza restata viva sino al crollo dell’URSS del 1991. Allora, nel 1991, implose un impero che si estendeva da Vladivostok a Berlino come se fosse stato un vecchio infartato, come non era finito mai nessun altro impero in 2000 anni di storia anteriore. Se c’era da avere una prova irrefutabile dell’impossibilità di superare la “solita” degenerazione burocratico autoritaria dello Stato-piano, pure con falce e martello, “dall’interno del sistema”, la si ebbe, e di tale portata che avrebbe dovuto persuadere, e infatti generalmente persuase, pure i ciechi.

Ora, invece, siamo chiaramente alla crisi dell’impero americano (l’impero “dell’altra parte”), con un Trump che – tentando di frenare l’immane disavanzo americano e di contenere la tendenza cinese a diventare presto la prima potenza economica e pure politica planetaria – gioca “da matto”, in modo più ignobile, ma forse non più sapiente, dell’ultimo capo comunista del Cremlino. Trump, infatti, sembra rinunciare all’alleanza con l’Europa, su cui il primato americano nel mondo si è costruito dopo un 1918 e dopo un 1945, tramite “due” guerre mondiali affrontate nella fase decisiva e vinte, con successivo predominio del dollaro nel mondo. Egli, con i suoi dazi spropositati, rischia fortemente di provocare una recessione mondiale, e di imboccare una strada che avvicina sempre di più la terza guerra mondiale non “a pezzi” ma effettiva. Persino l’uscita di Zelensky di minacciare la festa della vittoria del 1945 dei russi, illuso che l’Europa possa farlo vincere in extremis, la vedo come follia nella follia. A parte l’idiozia di minacciare di rovinare la festa russa della grande vittoria sul nazismo, costata venti milioni di morti, da parte di una repubblica ucraina già accusata, ingiustamente, di essere nazista.

Siccome l’America ha fortissimi anticorpi democratici rispetto al pur potentissimo governo presidenziale (cinquanta Stati membri, Corte suprema autorevolissima e indipendente, elezioni a mezzo termine, eccetera); e siccome l’uomo americano – Trump compreso – è sempre pragmatico (pronto a cambiare politica se va male), dovremmo salvarci. Ma potrebbe pure esplodere – magari per smottamenti fuori controllo, ad esempio in Iran se Israele ritenesse di aggredirlo, e ora tra India e Pakistan, che rischiano di innescare un nuovo conflitto terribile – una terza guerra mondiale, e allora addio democrazia nel mondo. Credo che non accadrà, ma lo ritengo possibile.

Ma la cosa più angosciante, per me, non è la follia suicida di tanti populismi o neo-nazionalismi all’attacco, bensì la cecità – vuoi in termini di realismo spicciolo e vuoi epocale – dei loro avversari.

C’è un’assenza di realismo anche nel senso di un modesto concretismo accettabile.

Anche qui è una storia vecchia. Per far succedere il peggio basta poco. Il nazionalismo, anche con il vento più favorevole della storia come nel primo dopoguerra o oggi, ha sempre richiesto che i suoi avversari commettessero errori madornali, senza i quali, anche se la storia ne fosse incinta, sarebbe abortito. Pure in Italia.

Ad esempio sarebbe stato sufficiente che allorquando, per l’ennesima volta, il liberale Giovanni Giolitti, con il famoso discorso di Dronero del 12 ottobre 1919, aprì porta e finestre ai socialisti per un governo liberale-socialista (come poi proposero pure Nitti e il re), questi socialisti, forti quell’anno di 156 deputati, e partito di maggioranza relativa alla Camera, avessero accettato, scontando pure una limitata spaccatura interna, per fermare la successiva rivolta nazionalista, autoritaria e antiproletaria scatenatasi nel 1921 come marea nera violenta dopo quella rossa del ’19-20; e ancora nei giorni della marcia su Roma dell’ottobre 1922 sarebbe stato sufficiente che i popolari di Sturzo accettassero Giolitti, come Mussolini temeva come un incubo, per fermare il fascismo. E potrei seguitare parlando di quel che fece, o non fece, la sinistra dalla grande crisi dell’assoluta egemonia della DC (1976) al grande crollo della repubblica dei partiti del 1994.

Anche in America, in anni recenti, sarebbe stato sufficiente che i democratici – sapendo benissimo ai vertici, come tanti sospettavano di qui, che Biden era un vecchio semirimbambito – avessero scelto per tempo un anti-Trump vero, per fermare Trump; ma non fu fatto, evidentemente perché la crisi d’identità della sinistra in questa fase è planetaria. Essa trasfonde persino il suo sangue, spesso “operaio”, a favore della destra. Sempre nella “logica” del “dio” che fa impazzire chi vuole rovinare.

Ma vale pure per l’Italia conquistata da Giorgia Meloni e compagnia bella. Infatti qui il governo di centrodestra si regge non per speciali virtù taumaturgiche o sovrabbondanza di voti del centrodestra, né tantomeno per la sua compattezza (che non c’è), ma solo per l’insania dei suoi avversari. Di suo ci mette solo, a parte una notevole capacità di essere, o almeno sembrare, pontiere tra Unione Europea e Stati Uniti, l’impegno a garantire stabilità di governo (“quieta non movere”, come da tanto tempo vuole “il Capitale”); a tenere un po’ i conti in ordine senza gettare i soldi dalla finestra, come si fece garantendo il 110% a chi ristrutturava la casa di prima e pure seconda proprietà sotto il secondo governo Conte. Il governo di destra non ha fatto nient’altro: se non piccole idiozie semireazionarie, come provare a limitare preventivamente manifestazioni “illegali” in cui si verifichino blocchi stradali o picchetti, o l’educazione sessuale nelle scuole, o abbandonandosi a sortite ideologiche che denotano carenza di cultura costituzionale. Il peggio in materia è stato il tentato “sviluppo” della demenziale riforma Bassanini e del nuovo articolo 5 della Costituzione, tramite l’”autonomia differenziata”, che è l’anti-Risorgimento che avanza sotto le insegne nazionaliste (anche se forse Penelope di notte scioglie la tela reazionaria che di giorno tesse per i Proci della Lega; ma non è chiaro; non si capisce ancora se siamo al neo-nazionalismo che arriva, oppure agli ultimi scampoli del berlusconismo).

Ma, ripeto, il problema sono “gli altri”. A “sinistra” si dà per scontato che per tutta la legislatura non potrà succedere niente. Grave errore, anche dei commentatori televisivi una sera sì e una anche. E così il vero obiettivo del Movimento Cinque Stelle di Conte non è quello di unirsi con il Partito Democratico di Elly Schlein, ma di strappargli consensi, in vista della leadership “contina” su un futuro governo tutto di là da venire. Ma proprio tale tattica, perseguita con piglio “di sinistra” caro ai massimalisti in pensione, potrà fare il gioco della Meloni. Questa forse intende bene l’antico amore degli italiani per una forza moderata di lungo corso (come erano stati i liberali dal 1848 o 1861 al 1922; i fascisti dal 1922 al 1943, e i democristiani dal 1945 al 1993). Se riuscirà a durare al governo sino alle prossime elezioni politiche, il suo partito, Fratelli d’Italia, potrà diventare la nuova Democrazia Cristiana “di destra” fallita nel 1960 con Tambroni, e tentata invano da Silvio Berlusconi dal 1994; esso diverrebbe il destra-centro sempre sognato in tale area compresa tra destra e centro. Basta durare, come agli italiani piace, in presenza di avversari di sinistra che pure di fronte ai momenti storici decisivi non si mettono mai d’accordo. L’astuzia (cioè insania) di questa sinistra per cui “divisi si vince”, e bisogna sempre “attaccare chi governa invece di dividerne le forze a partire dalle meno distanti”, è una vera “cucca” per la destra.

La Schlein, leader del PD, molto ragionevolmente cerca di tessere l’unità con Conte e il M5S, oltre che con l’Alleanza Verdi Sinistra, tramite la “politica delle alleanze”, come si chiamava una volta nel PCI. Ma l’unità non può essere un fine, ma un mezzo. Altrimenti Conte, pronto fuori dal governo, e finché lo sarà, a fare il partito di sinistra che più di sinistra non si può, giocherà sempre a chi è più “contro” (salvo tornare saggio al governo, chissà con chi). Invece tutta la tessitura andrebbe spostata sulle cose importanti da contrapporre al governo per risolvere i problemi del Paese e pure per favorire la pace nel mondo. Chi accetta questo o quello, dopo fraterno e profondo confronto programmatico, è alleato; e se no, vada pure dove Grillo anni fa voleva mandare gli avversari (sinché non rinsavisca). Insomma, senza unità sulle cose da fare, ogni alleanza è fasulla.

Ad esempio si dovrebbe elaborare e far avanzare una proposta di pace sulla guerra russo-ucraina da proporre all’Unione Europea. L’idea espressa dal quasi svitato ex presidente americano Biden di un Putin come Hitler, che ove gli si dia parecchio sull’Ucraina come si fece con Hitler nel ’38 invaderà l’Europa, non sta in piedi. Dopo tre anni di guerra e un milione di morti Putin non è neanche arrivato a Kiev. Bisognava da subito cercare il compromesso nella contesa sanguinosa e sanguinaria scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, ma tanto più dopo anni di guerra. L’Unione Europea, dopo anni di guerra, dovrebbe sì seguitare a sostenere gli ucraini, senza dare ai russi tutto quello che volevano come sembrava volere fare Trump sino a pochi giorni fa, ma l’UE dovrebbe farlo prefigurando apertamente i contenuti di una pace realistica dignitosa per le parti in lotta: la non-guerra come tra le due Coree? La rinuncia definitiva alla Crimea da parte dell’Ucraina e referendum internazionalmente garantiti per vedere con chi vogliano stare nel Donbass oppure per farne Stati cuscinetto di tipo svizzero? E così via. Non si può dare a Putin tutto quel che voleva e vuole per fare la pace, ma neppure sostenere, probabilmente “per finta” senza che questa lo intenda, sostenere l’Ucraina sino alla vittoria finale. Bisogna sostenerla in vista di una pace “onorevole”, ma da fare al più presto.

Una sinistra che lottasse per legare sostegno all’Ucraina e prospettiva di pace per un futuro prossimo farebbe il suo dovere da area socialista e democratica, secondo le sue migliori tradizioni.

Pure in materia di riforme istituzionali in Italia, è vano attaccare il ducismo della destra se non si scatena una vera battaglia contro l’autonomia differenziata, anticipata dalla demenziale riforma Bassanini e successiva modifica dell’articolo quinto della Costituzione. L’Autonomia differenziata avrebbe dovuto e dovrebbe essere combattuta come l’anti-Risorgimento. Ma, soprattutto, non ha senso combattere i progetti di premierato del governo da un lato dimenticando tutti i discorsi fatti dal 1994 in poi sul “sindaco d’Italia” (sin dalla presidenza D’Alema), o sul monocameralismo e sul premio di maggioranza (quando Renzi era il segretario del PD e Presidente del Consiglio); ma, soprattutto, si dovrebbe elaborare come sinistra, possibilmente d’intesa tra PS, M5S e Alleanza Verdi Sinistra, o altrimenti, e ben presto, come PD, una proposta di legge che ridia all’elettore almeno una preferenza nello scegliere il deputato o per un maggioritario di collegio e generale a due turni o con un congruo premio di maggioranza alla prima lista. Ma qui non voglio fare ragionamenti troppo astratti. Il punto chiave è che in Italia c’è da sempre un’instabilità di governo da sanare, una necessità di fare del potere esecutivo non già il “dominus” rispetto al legislativo e giudiziario, ma un potere autorevole come il legislativo e giudiziario, e perciò stabile tra un’elezione e l’altra, quale che sia la via per ottenerlo. Regalare tale terreno alla destra, significa aiutarla a diventare, da partito di maggioranza relativa, forza addirittura egemone nel Paese (una DC tricolore, di destra-centro, che è poi il suo sogno vero, al di là dei cascami dei fessacchiotti delle estreme). L’istanza della governabilità non va regalata alla destra, se non si sia politicamente rimbambiti.

Ma da un tale far politica con forti proposte di riforma sui maggiori nodi si è lontani.

La forma di opposizione più concreta sembra essere il tentativo di mutare i rapporti di forza tra le classi per referendum (con Pannella che dalla tomba è tutto contento essendo riuscito a dare la linea ai nipotini di Togliatti e Berlinguer, e persino di Moro). Ma sui referendum di giugno non voglio esprimermi, se non sottolineando che bisogna andare a votare. Su qualcosa posso pure avere dei dubbi di merito, ma per ora non dirò nulla perché non mi è mai piaciuto mettermi di traverso quando i lavoratori scendono in lotta per diritti conculcati, mettendo io stesso dubbi sulle proposte caldeggiate dalle loro maggiori organizzazioni sociali. Semmai si potrà farlo dopo. Al lavoro del Segretario della CGIL ho sempre guardato con simpatia, nel consenso come nel dissenso.

Landini per me è un vero sindacalista rivoluzionario. Lo apprezzo molto, ma mi piacerebbe ancora di più quale leader di un partito di nuova sinistra, come un Melenchon italiano, che qui potrebbe pure avere senso e convergere, purché da posizioni apertamente neosocialiste e lavoriste, oggi assurdamente azzerate in Italia. Non basta l’Alleanza Verdi Sinistra, che comunque non può esprimere l’anima delle grandi masse lavoratrici. E non credo affatto che il Melenchon italiano sia Conte, che mi sembra un abile politicante levantino, come secondo me la sua storia come capo di opposti governi in una sola legislatura ha già dimostrato. Se sarò smentito dal futuro, ne sarò contento.

Ho letto che Landini si sente molto vicino alle elaborazioni dottrinarie di Mario Tronti, su cui su queste pagine ho scritto articoli vasti, che nell’insieme costituiscono un libro e che sono stati riproposti, per decisione loro, pure sul sito e sulla bella rivista, che si fa a Parma, “dalla parte del torto”.

Ma per ora tutto quello che sarebbe per me possibile e necessario non accade. Questo è evidente nella “politica concreta”, ma mi pare pure il segno, nel mondo e in Italia, di un male della sinistra che concerne non solo “capi” e “tattica”, ma una carenza nel “pensiero”.

Se la destra è all’attacco a livello planetario, ciò indica pure una maggior forza, da Berlusconi a Trump per non dir di Meloni, di innovare il proprio pensiero tradizionale. Quello vecchio, repubblicano come pure fascistoide, resta sempre lì come una specie di vecchia canzone, come l’italocomunismo resta vivo nella coscienza latente degli ex comunisti italiani, o l’allure democristiana negli ex democristiani anche migliori.

Ma mentre non vedrei nel “destri” più rilevanti nel mondo e in Italia, nella politica e pure nella teoria politica, dei meri sopravvissuti del passato, che pure lascia le sue tracce in tutte le parti in lotta, ho l’impressione che il pensiero ideal-politico della sinistra che conta sia o morto oppure immutato. Siamo sempre al socialismo senza socialismo, al comunismo senza comunismo e persino alla democrazia cristiana senza cristianesimo. La sinistra non sa più fare sognare, e accade in un modo così palese da apparire persino disarmante. Deve svegliarsi dal suo lungo sonno non già dogmatico, ma post-moderno, di un disincanto da poveri diavoli, da nichilisti “costituzionali” della domenica.

Infatti senza un forte pensiero, giusto o sbagliato che sia (ma creduto tale da milioni e milioni di persone di un Paese), non si fa un vero partito. Un’ideologia davvero condivisa profondamente, sia pure a livelli diversi di consapevolezza, è alla base di ogni partito vero, nuovo o rinnovato.

Nel vuoto di “nuovo pensiero”, si è arrivati al punto che la rappresentanza del pensiero rivoluzionario, democratico e solidale, è passata addirittura al papa (il compianto Francesco), le cui encicliche sulla fraternità, che sono veri libri (Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia, del 2020, e Laudato si’. Lettera enciclica sulla casa comune, del 2015), sono l’anticapitalismo vivo. Non ci si fa più carico neanche del dialogo diretto con gli immigrati, che sono proletari. Manca un pensiero-prassi in proposito, come manca in materia di grandi crisi belliche, di governabilità dello Stato, o di lotta salariale e sviluppo. Sino a quando?

Sino a quando non so. Quello che so è che una sinistra che non sappia unirsi neanche mentre cresce la marea nera, e che non abbia una tattica per dividere gli avversari invece di dividere sé stessa, darsi un vero programma riformatore e deporlo in proposte di legge, e non sappia ridefinire il proprio pensiero politico, deve per forza perdere. Qui ho provato a ragionare da politologo. In pratica la sinistra riprenderà a vincere, nel mondo come in Italia, quando smetterà di dividersi sia sul piano politico che sindacale; quando la tattica del “divide et impera” la praticherà a danno delle forze di governo invece che di sé stessa; quando potrà presentare progetti veri su punti nodali, e quando tornerà a pensare grandi, ma aggiornati (senza rifritture, sempre indigeste), pensieri di liberazione umana. Non so né se, né quando, lo farà, in Italia e nel mondo. So solo che sinché non lo farà, o lo farà troppo poco, seguiterà a perdere; e quando invece lo farà, tornerà a vincere. Siccome sono un vecchio ottuagenario stagionato, non so se lo vedrò. Ma siccome a pagare e morire c’è sempre tempo, spero di sì. Tante volte, nella storia, quello che non accade in sei anni, accade in sei mesi. C’è speranza.



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