domenica 25 maggio 2025

Padri e figli, la trama


Ivan Turgenev, Padri e figli (1862)
Francesca Lazzarin

... Il romanzo, scandito da una narrazione in terza persona di un autore che, nei confronti dei suoi numerosi personaggi, si mantiene costantemente in bilico tra empatia e ironia, può essere suddiviso in due parti, dove la prima è decisamente più ampia della seconda [cfr. Jahn 1977]. Nella prima parte, che prende il via nel maggio 1859, Arkadij Kirsanov e il suo compagno di studi universitari (nonché mentore) Evgenij Bazarov si recano nella tenuta di Mar’ino, dove risiedono il padre e lo zio di Arkadij (Nikolaj e Pavel), e vi trascorrono alcuni giorni, durante i quali Arkadij nota le condizioni pietose in cui versano le campagne di proprietà paterna: Nikolaj è infatti un uomo affettuoso e di buon cuore, ma incapace di amministrare le proprie terre e di rapportarsi ai contadini; nel frattempo Pavel, raffinato aristocratico d’altri tempi seppur cosmopolita e liberale, polemizza con il freddo materialismo di Bazarov, medico dal piglio positivista che professa il cosiddetto ‘nichilismo’ e rifiuta a priori tutto ciò che non sia descrivibile scientificamente e dimostrabile nella pratica (capp. i-xi). In seguito, Arkadij e Bazarov si spostano nel vicino capoluogo di governatorato, un’anonima e provinciale cittadina in cui si imbattono in Sitnikov, un esaltato conoscente di Bazarov che ostenta un socialismo tutto di facciata,5 e vengono invitati a colazione da una non meno macchiettistica sostenitrice dell’emancipazione femminile, Avdot’ja Kukšina; ma soprattutto, a un ballo, fanno la conoscenza dell’affascinante vedova Anna Sergeevna Odincova (capp. 5 Sitnikov indossa non a caso abiti che richiamano l’artigianato tradizionale: si potrebbe tranquillamente immaginarlo, alcuni anni dopo, tra gli intellettuali che sarebbero ‘andati al popolo’ nella speranza di instillare le idee socialiste nei contadini. 10 xii-xv). Successivamente, Arkadij e Bazarov sono ospiti a Nikol’skoe, la tenuta di Anna Sergeevna, dove vive anche la sorella minore di quest’ultima, Katja: Arkadij, all’inizio candidamente innamorato di Anna, intreccia gradualmente una discreta relazione sentimentale con Katja, mentre Bazarov, suo malgrado, si invaghisce della bella vedova, che però lo respinge (capp. xvi-xix). Infine, i due giovani decidono di far visita ai genitori di Bazarov nella loro modesta dimora di campagna, e proprio qui hanno il loro primo, serio alterco (capp. xx-xxii). A questo punto subentra lo iato che divide le due parti del romanzo: la visione del mondo ostinatamente razionalista di Bazarov, che già ha iniziato a vacillare sotto il peso della passione romantica per Anna, cessa di apparire convincente agli occhi di Arkadij e, forse, anche a quelli dello stesso Bazarov, che non arriverà però ad ammetterlo apertamente. D’ora in avanti Arkadij e Bazarov si muoveranno ciascuno in autonomia, e torneranno, con un approccio ormai mutato, ai luoghi già visitati nella prima parte: Bazarov rientrerà dai Kirsanov a Mar’ino per recuperare gli strumenti medici che vi aveva lasciato6 e verrà sfidato a duello da Pavel, accettando controvoglia di battersi e ferendo il suo anziano rivale, che però sopravvivrà (capp. xxiii-xiv); Arkadij, dopo aver trascorso pochi giorni a Mar’ino, andrà invece a Nikol’skoe, dove chiederà la mano di Katja (capp. xxv-xxvi). Nel capitolo xxvii ritroviamo Bazarov a casa dei genitori a esercitare la professione di medico tra i contadini decimati dalle epidemie che imperversavano all’epoca: proprio durante lo svolgimento di un’autopsia in precarie condizioni igieniche, Bazarov si infetterà e morirà di tifo. Segue un epilogo (cap. xxviii) con un lieto fine dal retrogusto amaro: da un lato, in conformità con il canonico stratagemma dell’‘appaiamento’ [cfr. Nabokov 2021: 132], vediamo infatti una doppia e apparentemente serena unione coniugale a casa Kirsanov (Arkadij e Katja, Nikolaj e la giovane domestica Fedos’ja, con cui il maturo pater familias decide finalmente di convolare a nozze in via ufficiale dopo anni di convivenza e la nascita di un figlio); dall’altro, Turgenev si sofferma sul triste pellegrinaggio dei coniugi Bazarov alla tomba solitaria del figlio prematuramente stroncato dall’infezione. Le interazioni umane tracciate nel romanzo, come si è visto, riguardano soprattutto figure appartenenti più o meno alla stessa classe sociale, al di là dell’illustre albero genealogico di Arkadij e della provenienza più umile del raznočinec Bazarov.7 Non mancano però, come era già avvenuto nelle Memorie di un cacciatore, numerose notazioni sui contadini e sui servi dei ‘nidi di nobili’ noti a Turgenev: anche se al loro interfacciarsi coi ‘signori’ è dedicato uno spazio più ridotto, si percepisce senz’altro la tensione tra possidenti e contadini alla vigilia dell’abolizione del servaggio; non può inoltre sfuggire la critica velata nei confronti del monopolio della nobiltà, ‘illuminata’ o meno che sia, nella ricerca di una soluzione ai problemi sociali delle campagne, senza che i contadini abbiano alcuna voce in capitolo. In tutto questo, il protagonista Bazarov è un bizzarro ‘corpo estraneo’, in fondo non riconducibile né a una precisa ‘generazione’, né a un chiaro tipo sociale: entra in conflitto sia col ‘padre’ Pavel che col ‘figlio’ Arkadij; è scettico rispetto alla religione, ma irride anche il fanatismo ‘di sinistra’ di Sitnikov e Kukšina; in più, alla fine, non riesce nemmeno a instaurare un modus vivendi davvero costruttivo coi contadini, che, nella loro semplicità, vedono in lui un ‘buffone idiota’ (šut gorochovyj). A riprova della stravaganza di Bazarov, non sappiamo nulla delle sue vicende antecedenti il maggio 1859, laddove, come già detto, i trascorsi di altri personaggi vengono narrati in dettaglio secondo il consueto procedimento della pausa biografica: per quanto riguarda il protagonista, invece, possiamo solo immaginare quale sia stato il percorso che lo ha condotto a modellare una personalità così frastagliata.
Il fascino magnetico di Bazarov suscita, in chi lo incontra, un misto di attrazione e repulsione: la sua indubbia intelligenza e brillantezza è offuscata da modi bruschi e sgradevoli; la devozione al mestiere di medico, che esercita non senza empatia (specie nei confronti del piccolo Mitja, il figlio di secondo letto di Nikolaj), cozza con l’anaffettività e il disprezzo per i sentimenti che sbandiera quando parla dei fratelli Kirsanov.8 Anche la lingua in cui si esprime è ambivalente: la sua parlata può essere forbita e arricchita da metafore anche ingegnose o addirittura poetiche, ma al tempo stesso Bazarov sfodera proverbi ed espressioni idiomatiche che rimandano al contesto provinciale e ‘popolare’ in cui è cresciuto. Contesto che si manifesta anche nel suo approccio alla religione: pur rimanendo fedele al proprio ateismo persino sul letto di morte, Bazarov rispetta infatti il genuino sentimento cristiano dei genitori, che probabilmente gli è stato instillato dalla madre durante l’infanzia e solo successivamente sottoposto a critica.9 In merito alla fede, il ‘nichilista’ turgeneviano è più possibilista rispetto a quando si scaglia contro l’estetica o la scienza teorica, quantomeno perché comprende come si tratti di un orpello superfluo per lui, ma di un rifugio indispensabile per il padre e la madre (durante la malattia, fa capire al padre di non essere contrario all’estrema unzione proprio per questo motivo: “Io non mi rifiuto, se questo vi può consolare” [Turgenev 2004: 318-319; pss, vii: 180]; la cura con cui i genitori si occuperanno della sua tomba nell’epilogo, poi, è appunto un segno tangibile del potere consolatorio della fede). A parte questo, le contraddizioni che dilaniano la coscienza di Bazarov emergono in realtà già prima del fatale incontro con Anna: per esempio, Bazarov schernisce con tale astio e insistenza i nobili parenti di Arkadij che, in fondo, pare covare delle frustrazioni per le proprie origini, per la propria identità assimilabile a quella dei poco raffinati ‘seminaristi’, guardati dall’alto in basso in tanti salotti del tempo [cfr. Pozevsky 1995: 576]. D’altronde, i raznočincy occupavano nelle gerarchie di allora una posizione intermedia tra la nobiltà e i contadini, senza riuscire a integrarsi pienamente né in una, né nell’altra classe sociale, risultando in ultima analisi degli eccentrici emarginati, con tutte le insicurezze che ne conseguivano durante la ricerca di un proprio posto congeniale nel mondo. L’unica strategia praticabile sembrava proporre un paradigma completamente alternativo di cui farsi portavoce, ma il ‘nichilismo’ professato da Bazarov prevede solo una pars destruens e una critica indiscriminata a tutto ciò che non sia riconducibile alle scienze naturali, meglio se applicate. Per non parlare del fatto che, al netto della fascinazione esercitata sull’inesperto e facilmente influenzabile Arkadij, non risulta che Bazarov, benché conosciuto in diverse cerchie (la ciarliera Kukšina dice infatti di aver già sentito parlare di lui), abbia effettivamente molti alleati pronti a schierarsi al suo fianco. Certo, si potrebbe supporre che dietro Bazarov si celi una qualche società segreta come la prima “Terra e libertà” (Zemlja i volja) sorta nel 1861, che auspicava una sollevazione di popolo nelle campagne mai realizzatasi, oppure come la più integralista “Volontà del popolo” (Narodnaja volja), che invece sarebbe passata ad atti terroristici. Ma Bazarov è in fondo scettico circa il potenziale dei contadini ‘liberati’ (“E io ho odiato questo ultimo dei contadini, Filipp o Sidor che sia, per il quale dovrei farmi in quattro e che non mi direbbe nemmeno grazie… e cosa me ne farei poi del suo grazie?” [Turgenev 2004: 213; pss, vii: 120]), e anche se riferendosi all’ottuso Sitnikov pronuncia frasi sibilline come “i Sitnikov ci sono necessari. A me, ricordatelo, servono simili allocchi. Non tutti, davvero, nascon maestri” [Turgenev 2004: 179; pss, vii: 102], lasciando intendere un possibile uso strumentale di simili ‘pedine’ per compiere azioni estremiste, è ben difficile credere che delle parodie di se stessi come Sitnikov o Kukšina, peraltro presi ben poco sul serio dallo stesso Bazarov, si dimostrino funzionali allo scopo. Non pare dunque sussistere alcun programma che i sedicenti ‘nichilisti’, eventualmente capeggiati da Bazarov, possano attuare nel futuro a breve termine. A proposito di emancipazione e parità dei sessi, va detto che, mentre il “Sovremennik” di Černyševskij e Dobroljubov riservava uno spazio non indifferente alla questione femminile, Bazarov non solo non risparmia alla Kukšina il proprio tagliente cinismo, ma, dopo il primo incontro con Anna, condivide con Arkadij dei commenti provocatori e al vetriolo: parlano da sé sia la battuta sull’avvenente silhouette della donna, il cui corpo sarebbe perfetto da mettere “subito in un teatro anatomico” [Turgenev 2004: 130; pss, vii: 75], sia lo svilimento dell’attrazione erotica, liquidata da Bazarov come mero processo fisiologico legato alle peculiarità anatomiche dell’occhio. Tuttavia, durante la permanenza a Nikol’skoe il discreto charme della ricca vedova lascerà completamente disarmato lo sprezzante nemico delle pulsioni amorose e del loro lato arcano: Anna, infatti, è anch’essa un personaggio singolare (oltre che molto distante dal cliché della ‘fanciulla turgeneviana’, tenera e fragile ma permeata di forza morale  e spirito di sacrificio). Dotata di grande senso pratico, non contraria ai matrimoni per interesse, a maggior ragione vista la magra eredità lasciatale dal padre (un accanito giocatore), Anna è capace di calcolare oculatamente ogni mossa, sia nella vita privata che nella gestione delle sue proprietà, in modo da garantirsi un agio, tanto materiale quanto mentale, che costituisce il perno incrollabile della sua esistenza. Oggi diremmo che ha scelto consapevolmente di non avventurarsi mai al di fuori dalla comfort zone che si è ricavata, in cui ha trovato un encomiabile equilibrio tra una fredda razionalità e un modo comunque garbato e gioviale di relazionarsi al prossimo, anche grazie all’eccellente educazione ricevuta. L’atmosfera che regna a Nikol’skoe è la diretta emanazione del temperamento pacato e cortese di Anna: saltano subito all’occhio, rispetto alla tenuta dei Kirsanov, un ordine, una pulizia e un gusto ineccepibili, che risultano ancor più piacevoli grazie alla compagnia della padrona di casa. La cultura di Anna, estesa alle ultime novità scientifiche, le permette di intrattenere lunghe conversazioni anche con Bazarov, prendendolo in contropiede [cfr. Bonamour 1998]. Di fronte alla conciliante spontaneità di Anna, Bazarov non è più in grado di sfoggiare le pose da tetragono contestatore delle certezze altrui come faceva con il vanitoso Pavel Kirsanov. Come se non bastasse, il rifiuto del Bello e dei sentimenti si ritorcerà contro il nostro ‘nichilista’ quando, sopraffatto dall’amore, non sarà in grado di incanalarlo in una dichiarazione adeguata a fare breccia nell’imperturbabile vedova. La sua goffa e sofferta ‘confessione’ non basterà a commuovere la donna, troppo attaccata a una quieta routine e quasi spaventata dagli impulsi che sembrano sul punto di far deflagrare la corazza con cui Bazarov, fino a quel momento, si era protetto dalle proprie irrazionali passioni – pur non riuscendo a camuffarle fino in fondo: lo avevano di frequente tradito i movimenti scattosi e la fisionomia vagamente ferina, così come lo tradirà, pochi capitoli dopo, l’istintivo bacio dato a Fedos’ja nel giardino dei Kirsanov (da cui la ragazza si ritrarrà all’istante). Tutt’altra esperienza con l’universo femminile e con l’arte della conversazione galante è quella che, invece, si è lasciato alle spalle Pavel Kirsanov, l’altra figura con cui Bazarov ha un confronto decisivo, peraltro con qualche forzatura: è poco realistico che un autentico gentiluomo come Pavel, sin dal primo incontro, importuni così insistentemente con domande ‘scomode’ un giovane amico di suo nipote, che peraltro conosce appena. Ma, d’altronde, a Turgenev preme illustrare le opinioni divergenti tra i personaggi e i loro atteggiamenti agli antipodi, forgiando una sorta di scena teatrale, o se vogliamo di psicodramma. È difficile non notare che Bazarov, per quanto fermo nelle sue convinzioni, non fa proselitismo delle proprie idee, e alla parola preferisce l’azione (quand’anche si trattasse solo di catturare delle rane in uno stagno e sventrarle per studiarne l’anatomia). Pavel, al contrario, in maniera non dissimile dagli ‘uomini superflui’ turgeneviani come Rudin, ama conversare per il piacere della conversazione, rendere conto delle proprie opinioni, stuzzicare gli interlocutori, argomentare ogni opinione: è un estimatore del modello (e della moda) inglese,15 della filosofia, dell’arte, e la biografia con cui l’autore ce lo presenta ricorda una ‘novella mondana’ (svetskaja povest’) degli anni Trenta, lo stesso periodo in cui, non a caso, lo zio di Arkadij folleggiava a Pietroburgo indossando la maschera del dandy. Quando Pavel sfida Bazarov a duello, si basa appunto sull’ormai anacronistico codice culturale di un’altra epoca: a metà Ottocento simili tenzoni per avere ‘soddisfazione’ contro il proprio rivale erano meno alla moda, e comunque potevano avere luogo solo tra due sfidanti di pari grado per provenienza sociale. Nonostante tutto, però, Bazarov e Pavel hanno anche dei tratti in comune: entrambi soffrono per brucianti delusioni amorose (in gioventù Pavel era stato perdutamente innamorato di una ombrosa e sfuggente principessa che lo aveva abbandonato senza mai spiegargli il perché del suo gesto; inoltre, è chiaro che si è incapricciato anche della giovane Fedos’ja, che però è la compagna segreta di suo fratello); entrambi devono constatare il sostanziale fallimento delle proprie idee all’atto pratico; entrambi rimangono soli. Alla fine assistiamo alla morte fisica di Bazarov e a quella spirituale di Pavel,16 che abbandona Mar’ino per trasferirsi in Europa e passarvi, senza infamia e senza lode, gli anni che gli restano da vivere. Inoltre, il momento del duello, rituale ritenuto da Bazarov un’inutile sovrastruttura dei tempi andati, è comunque foriero di suggestioni inquietanti, che non sono solo presagi di morte: la notte prima dello scontro, infatti, Pavel Petrovič appare in sogno al protagonista con le sembianze di un “grande bosco con cui tuttavia doveva battersi” [Turgenev 2004: 252; pss, vii: 143]. La metafora del bosco non è ovviamente casuale: in precedenza Bazarov aveva menzionato gli alberi di un bosco in quanto asettici e cristallini oggetti di studio, addirittura formulando un ardito paragone con l’essere umano (“È sufficiente un unico esemplare umano per giudicare gli altri. Le persone sono come alberi in un bosco: nessun botanico si metterebbe a occuparsi di ogni singola betulla” [Turgenev 2004: 138; pss, vii: 78-79]), ma ora le fosche profondità silvane si rivelano impenetrabili e sinistre, a mo’ di proiezione dell’inconscio di Bazarov (lo stesso in cui ribolle la passione nei confronti di Anna), e in generale di quegli anfratti della natura che nessun microscopio riuscirà davvero a sondare. Significativamente, l’immagine perturbante del bosco come organismo dalla minacciosa vitalità tornerà anche durante il delirio febbrile che precede la morte di Bazarov e ne annulla la razionalità, ovvero la sua arma più affilata, ora del tutto impotente di fronte alla malattia e alla morte. Morte che, per ironia del destino, sarà dovuta proprio a un’autopsia, cioè a una pratica fondamentale nell’ottica di Bazarov, per cui l’anatomia e la dissezione costituivano una sorta di feticcio: Bazarov pensa di poter conficcare il suo bisturi nelle ermetiche profondità della Natura, ma sarà lui stesso ad esserne fagocitato tramite il varco beffardo aperto da una minuscola ferita sulla punta di un dito. In qualche modo, il culto della scienza che rasenta il peccato di hybris avvicina Bazarov anche al mito di Faust, altro personaggio condotto dalla sua sete implacabile di conoscenza a scontrarsi con qualcosa di più grande di sé [cfr. Brumfield 1977]. D’altronde, la morte è l’unico fenomeno che nemmeno un nichilista potrebbe mai negare (“Sì, prova a negare la morte. È lei che ti nega, e basta!” [Turgenev 2004: 316; pss, vii: 178], esclama caustico Bazarov quando è già gravemente malato). E a ben vedere, il morbo che coglie il protagonista nel finale è solo l’ultima di una serie di ‘prove’ a cui l’autore, nel corso della trama, sottopone il suo personaggio (e non è peraltro un caso che Turgenev non inserisca Bazarov in un contesto urbano che senz’altro gli riuscirebbe più congeniale, come la città dove ha studiato, ma lo collochi, piuttosto, nel bel mezzo della Natura, lasciandolo in sua balìa [cfr. Strada 1969: 43]). Lo sguardo di Bazarov si rivela inadeguato non solo all’imperscrutabilità della morte, ma anche alle sfide insite nelle relazioni familiari e più latamente umane, tant’è vero che tutto ciò che gli capita attorno, come osservò già a suo tempo il critico slavofilo Nikolaj Strachov [2000: 210], sembra contraddire le sue certezze: Bazarov contesta il valore dell’amicizia, dell’amore romantico e dell’affetto tra consanguinei, ma le immagini della famiglia allargata dei Kirsanov e dei due anziani e premurosi genitori alla sua tomba sembrano poste nell’epilogo proprio per smentirlo. Bazarov ha portato temporaneamente scompiglio nelle vite altrui, ma è risultato sempre sconfitto in virtù della sua condizione di assoluto outsider. Non necessita di ulteriori commenti una notazione dello stesso Turgenev: agli occhi del suo demiurgo, Bazarov avrebbe assunto le fattezze di uno “strano pendant di Pugačëv” [psp, V: 59], di creatura ctonia e dalla forza incendiaria al pari del leggendario rivoltoso di cento anni prima, ma come lui destinato a bruciare rapidamente. Nella sottile rete di simmetrie tra i vari personaggi del romanzo, che come già detto non si limitano alla contrapposizione tra ‘padri’ e ‘figli’, ma si articolano in più combinazioni trasversali, si può rimarcare anche il canonico discrimine tra ‘ragione’ e ‘sentimento’: Anna e Pavel, le figure con cui Bazarov vive le collisioni più drammatiche, emergono come incarnazioni di un principio razionale artificioso e alienante, di cui è emanazione anche la loro ossessione maniacale per l’ordine e la cura dell’aspetto fisico. Il loro futuro così com’è riassunto nell’epilogo (un secondo matrimonio senza amore per Anna, il già citato esilio dorato europeo per Pavel) ne è un’ulteriore conferma. Nikolaj e Arkadij, invece, non celano le proprie emozioni e, al di là delle loro ingenuità e inettitudini, sono in armonia con la Natura e vi hanno trovato un proprio spazio, come gli ‘animali addomesticati’ che Katja paragona a se stessa e ad Arkadij in qualità di contraltare al ‘rapace’ Bazarov. Né Nikolaj, né Arkadij, forse, avranno la meglio sulla complessità sgusciante dell’esistenza (al di là dei discreti successi di Arkadij, più abile del padre nell’amministrare la loro Mar’ino, che per la nuova famiglia allargata assumerà le fattezze di una sorta di nostalgica Arcadia, neanche il nome del giovane Kirsanov fosse a suo modo ‘parlante’): almeno, però, saranno vivi e ameranno, con modestia e gratitudine, la propria vita, che proseguirà ininterrotta anche attraverso le ‘nuovissime’ generazioni (Mitja e il bambino di Arkadij e Katja cui si accenna nell’epilogo). I vecchi coniugi Bazarov, invece, sono non solo privati della gioia di avere dei nipoti, ma anche costretti al gesto dolorosissimo e innaturale di seppellire il proprio unico figlio, sulla cui tomba, però, germogliano fiori e piante, suggerendo al narratore le poetiche righe conclusive sulla “riconciliazione eterna” e la “vita senza fine” [cfr. Turgenev 2004: 334; pss, vii: 188], sorta di contrappasso dei tormentosi dissidi che la visione ‘nichilista’ di Bazarov portava con sé.

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