Ivan Turgenev, Padri e figli
(1862)
Francesca Lazzarin
... Il romanzo, scandito da una narrazione in terza persona di un autore
che, nei confronti dei suoi numerosi personaggi, si mantiene costantemente in bilico tra empatia e ironia, può essere suddiviso in due
parti, dove la prima è decisamente più ampia della seconda [cfr. Jahn
1977]. Nella prima parte, che prende il via nel maggio 1859, Arkadij
Kirsanov e il suo compagno di studi universitari (nonché mentore)
Evgenij Bazarov si recano nella tenuta di Mar’ino, dove risiedono il
padre e lo zio di Arkadij (Nikolaj e Pavel), e vi trascorrono alcuni
giorni, durante i quali Arkadij nota le condizioni pietose in cui versano le campagne di proprietà paterna: Nikolaj è infatti un uomo
affettuoso e di buon cuore, ma incapace di amministrare le proprie
terre e di rapportarsi ai contadini; nel frattempo Pavel, raffinato aristocratico d’altri tempi seppur cosmopolita e liberale, polemizza con
il freddo materialismo di Bazarov, medico dal piglio positivista che
professa il cosiddetto ‘nichilismo’ e rifiuta a priori tutto ciò che non
sia descrivibile scientificamente e dimostrabile nella pratica (capp.
i-xi). In seguito, Arkadij e Bazarov si spostano nel vicino capoluogo
di governatorato, un’anonima e provinciale cittadina in cui si imbattono in Sitnikov, un esaltato conoscente di Bazarov che ostenta
un socialismo tutto di facciata,5
e vengono invitati a colazione da
una non meno macchiettistica sostenitrice dell’emancipazione femminile, Avdot’ja Kukšina; ma soprattutto, a un ballo, fanno la conoscenza dell’affascinante vedova Anna Sergeevna Odincova (capp.
5
Sitnikov indossa non a caso abiti che richiamano l’artigianato tradizionale: si
potrebbe tranquillamente immaginarlo, alcuni anni dopo, tra gli intellettuali
che sarebbero ‘andati al popolo’ nella speranza di instillare le idee socialiste nei
contadini.
10
xii-xv). Successivamente, Arkadij e Bazarov sono ospiti a Nikol’skoe,
la tenuta di Anna Sergeevna, dove vive anche la sorella minore di
quest’ultima, Katja: Arkadij, all’inizio candidamente innamorato di
Anna, intreccia gradualmente una discreta relazione sentimentale con
Katja, mentre Bazarov, suo malgrado, si invaghisce della bella vedova,
che però lo respinge (capp. xvi-xix). Infine, i due giovani decidono di
far visita ai genitori di Bazarov nella loro modesta dimora di campagna, e proprio qui hanno il loro primo, serio alterco (capp. xx-xxii). A
questo punto subentra lo iato che divide le due parti del romanzo: la
visione del mondo ostinatamente razionalista di Bazarov, che già ha iniziato a vacillare sotto il peso della passione romantica per Anna, cessa di
apparire convincente agli occhi di Arkadij e, forse, anche a quelli dello
stesso Bazarov, che non arriverà però ad ammetterlo apertamente. D’ora in avanti Arkadij e Bazarov si muoveranno ciascuno in autonomia, e
torneranno, con un approccio ormai mutato, ai luoghi già visitati nella
prima parte: Bazarov rientrerà dai Kirsanov a Mar’ino per recuperare gli
strumenti medici che vi aveva lasciato6
e verrà sfidato a duello da Pavel,
accettando controvoglia di battersi e ferendo il suo anziano rivale, che
però sopravvivrà (capp. xxiii-xiv); Arkadij, dopo aver trascorso pochi
giorni a Mar’ino, andrà invece a Nikol’skoe, dove chiederà la mano di
Katja (capp. xxv-xxvi). Nel capitolo xxvii ritroviamo Bazarov a casa
dei genitori a esercitare la professione di medico tra i contadini decimati dalle epidemie che imperversavano all’epoca: proprio durante lo
svolgimento di un’autopsia in precarie condizioni igieniche, Bazarov si
infetterà e morirà di tifo. Segue un epilogo (cap. xxviii) con un lieto
fine dal retrogusto amaro: da un lato, in conformità con il canonico
stratagemma dell’‘appaiamento’ [cfr. Nabokov 2021: 132], vediamo
infatti una doppia e apparentemente serena unione coniugale a casa
Kirsanov (Arkadij e Katja, Nikolaj e la giovane domestica Fedos’ja, con
cui il maturo pater familias decide finalmente di convolare a nozze in via ufficiale dopo anni di convivenza e la nascita di un figlio); dall’altro,
Turgenev si sofferma sul triste pellegrinaggio dei coniugi Bazarov alla
tomba solitaria del figlio prematuramente stroncato dall’infezione.
Le interazioni umane tracciate nel romanzo, come si è visto, riguardano soprattutto figure appartenenti più o meno alla stessa classe sociale,
al di là dell’illustre albero genealogico di Arkadij e della provenienza
più umile del raznočinec Bazarov.7
Non mancano però, come era già
avvenuto nelle Memorie di un cacciatore, numerose notazioni sui contadini e sui servi dei ‘nidi di nobili’ noti a Turgenev: anche se al loro interfacciarsi coi ‘signori’ è dedicato uno spazio più ridotto, si percepisce
senz’altro la tensione tra possidenti e contadini alla vigilia dell’abolizione del servaggio; non può inoltre sfuggire la critica velata nei confronti
del monopolio della nobiltà, ‘illuminata’ o meno che sia, nella ricerca di
una soluzione ai problemi sociali delle campagne, senza che i contadini
abbiano alcuna voce in capitolo.
In tutto questo, il protagonista Bazarov è un bizzarro ‘corpo estraneo’,
in fondo non riconducibile né a una precisa ‘generazione’, né a un
chiaro tipo sociale: entra in conflitto sia col ‘padre’ Pavel che col ‘figlio’
Arkadij; è scettico rispetto alla religione, ma irride anche il fanatismo
‘di sinistra’ di Sitnikov e Kukšina; in più, alla fine, non riesce nemmeno a instaurare un modus vivendi davvero costruttivo coi contadini,
che, nella loro semplicità, vedono in lui un ‘buffone idiota’ (šut gorochovyj). A riprova della stravaganza di Bazarov, non sappiamo nulla
delle sue vicende antecedenti il maggio 1859, laddove, come già detto,
i trascorsi di altri personaggi vengono narrati in dettaglio secondo il
consueto procedimento della pausa biografica: per quanto riguarda il
protagonista, invece, possiamo solo immaginare quale sia stato il percorso che lo ha condotto a modellare una personalità così frastagliata.
Il fascino magnetico di Bazarov suscita, in chi lo incontra, un
misto di attrazione e repulsione: la sua indubbia intelligenza e
brillantezza è offuscata da modi bruschi e sgradevoli; la devozione
al mestiere di medico, che esercita non senza empatia (specie nei
confronti del piccolo Mitja, il figlio di secondo letto di Nikolaj),
cozza con l’anaffettività e il disprezzo per i sentimenti che sbandiera quando parla dei fratelli Kirsanov.8
Anche la lingua in cui si
esprime è ambivalente: la sua parlata può essere forbita e arricchita
da metafore anche ingegnose o addirittura poetiche, ma al tempo stesso Bazarov sfodera proverbi ed espressioni idiomatiche che
rimandano al contesto provinciale e ‘popolare’ in cui è cresciuto.
Contesto che si manifesta anche nel suo approccio alla religione:
pur rimanendo fedele al proprio ateismo persino sul letto di morte, Bazarov rispetta infatti il genuino sentimento cristiano dei genitori, che probabilmente gli è stato instillato dalla madre durante
l’infanzia e solo successivamente sottoposto a critica.9
In merito
alla fede, il ‘nichilista’ turgeneviano è più possibilista rispetto a
quando si scaglia contro l’estetica o la scienza teorica, quantomeno perché comprende come si tratti di un orpello superfluo per
lui, ma di un rifugio indispensabile per il padre e la madre (durante la malattia, fa capire al padre di non essere contrario all’estrema
unzione proprio per questo motivo: “Io non mi rifiuto, se questo
vi può consolare” [Turgenev 2004: 318-319; pss, vii: 180]; la
cura con cui i genitori si occuperanno della sua tomba nell’epilogo, poi, è appunto un segno tangibile del potere consolatorio
della fede). A parte questo, le contraddizioni che dilaniano la coscienza di Bazarov emergono in realtà già prima del fatale incontro con Anna:
per esempio, Bazarov schernisce con tale astio e insistenza i nobili
parenti di Arkadij che, in fondo, pare covare delle frustrazioni per le
proprie origini, per la propria identità assimilabile a quella dei poco
raffinati ‘seminaristi’, guardati dall’alto in basso in tanti salotti del
tempo [cfr. Pozevsky 1995: 576]. D’altronde, i raznočincy occupavano nelle gerarchie di allora una posizione intermedia tra la nobiltà
e i contadini, senza riuscire a integrarsi pienamente né in una, né
nell’altra classe sociale, risultando in ultima analisi degli eccentrici
emarginati, con tutte le insicurezze che ne conseguivano durante la
ricerca di un proprio posto congeniale nel mondo. L’unica strategia
praticabile sembrava proporre un paradigma completamente alternativo di cui farsi portavoce, ma il ‘nichilismo’ professato da Bazarov
prevede solo una pars destruens e una critica indiscriminata a tutto
ciò che non sia riconducibile alle scienze naturali, meglio se applicate. Per non parlare del fatto che, al netto della fascinazione esercitata
sull’inesperto e facilmente influenzabile Arkadij, non risulta che Bazarov, benché conosciuto in diverse cerchie (la ciarliera Kukšina dice
infatti di aver già sentito parlare di lui), abbia effettivamente molti
alleati pronti a schierarsi al suo fianco. Certo, si potrebbe supporre
che dietro Bazarov si celi una qualche società segreta come la prima
“Terra e libertà” (Zemlja i volja) sorta nel 1861, che auspicava una
sollevazione di popolo nelle campagne mai realizzatasi, oppure come
la più integralista “Volontà del popolo” (Narodnaja volja), che invece sarebbe passata ad atti terroristici. Ma Bazarov è in fondo scettico
circa il potenziale dei contadini ‘liberati’ (“E io ho odiato questo ultimo dei contadini, Filipp o Sidor che sia, per il quale dovrei farmi in
quattro e che non mi direbbe nemmeno grazie… e cosa me ne farei
poi del suo grazie?” [Turgenev 2004: 213; pss, vii: 120]), e anche
se riferendosi all’ottuso Sitnikov pronuncia frasi sibilline come “i
Sitnikov ci sono necessari. A me, ricordatelo, servono simili allocchi. Non tutti, davvero, nascon maestri” [Turgenev 2004: 179; pss,
vii: 102], lasciando intendere un possibile uso strumentale di simili
‘pedine’ per compiere azioni estremiste, è ben difficile credere che
delle parodie di se stessi come Sitnikov o Kukšina, peraltro presi
ben poco sul serio dallo stesso Bazarov, si dimostrino funzionali allo
scopo. Non pare dunque sussistere alcun programma che i sedicenti
‘nichilisti’, eventualmente capeggiati da Bazarov, possano attuare nel
futuro a breve termine.
A proposito di emancipazione e parità dei sessi, va detto che, mentre il “Sovremennik” di Černyševskij e Dobroljubov riservava uno
spazio non indifferente alla questione femminile, Bazarov non solo
non risparmia alla Kukšina il proprio tagliente cinismo, ma, dopo
il primo incontro con Anna, condivide con Arkadij dei commenti
provocatori e al vetriolo: parlano da sé sia la battuta sull’avvenente
silhouette della donna, il cui corpo sarebbe perfetto da mettere “subito in un teatro anatomico” [Turgenev 2004: 130; pss, vii: 75], sia
lo svilimento dell’attrazione erotica, liquidata da Bazarov come mero
processo fisiologico legato alle peculiarità anatomiche dell’occhio.
Tuttavia, durante la permanenza a Nikol’skoe il discreto charme della
ricca vedova lascerà completamente disarmato lo sprezzante nemico
delle pulsioni amorose e del loro lato arcano: Anna, infatti, è anch’essa un personaggio singolare (oltre che molto distante dal cliché della
‘fanciulla turgeneviana’, tenera e fragile ma permeata di forza morale e spirito di sacrificio). Dotata di grande senso pratico, non contraria
ai matrimoni per interesse, a maggior ragione vista la magra eredità
lasciatale dal padre (un accanito giocatore), Anna è capace di calcolare
oculatamente ogni mossa, sia nella vita privata che nella gestione delle
sue proprietà, in modo da garantirsi un agio, tanto materiale quanto mentale, che costituisce il perno incrollabile della sua esistenza.
Oggi diremmo che ha scelto consapevolmente di non avventurarsi
mai al di fuori dalla comfort zone che si è ricavata, in cui ha trovato
un encomiabile equilibrio tra una fredda razionalità e un modo comunque garbato e gioviale di relazionarsi al prossimo, anche grazie
all’eccellente educazione ricevuta. L’atmosfera che regna a Nikol’skoe
è la diretta emanazione del temperamento pacato e cortese di Anna:
saltano subito all’occhio, rispetto alla tenuta dei Kirsanov, un ordine,
una pulizia e un gusto ineccepibili, che risultano ancor più piacevoli
grazie alla compagnia della padrona di casa. La cultura di Anna, estesa
alle ultime novità scientifiche, le permette di intrattenere lunghe
conversazioni anche con Bazarov, prendendolo in contropiede [cfr.
Bonamour 1998]. Di fronte alla conciliante spontaneità di Anna,
Bazarov non è più in grado di sfoggiare le pose da tetragono contestatore delle certezze altrui come faceva con il vanitoso Pavel Kirsanov.
Come se non bastasse, il rifiuto del Bello e dei sentimenti si ritorcerà
contro il nostro ‘nichilista’ quando, sopraffatto dall’amore, non sarà
in grado di incanalarlo in una dichiarazione adeguata a fare breccia
nell’imperturbabile vedova. La sua goffa e sofferta ‘confessione’ non
basterà a commuovere la donna, troppo attaccata a una quieta routine e quasi spaventata dagli impulsi che sembrano sul punto di far
deflagrare la corazza con cui Bazarov, fino a quel momento, si era
protetto dalle proprie irrazionali passioni – pur non riuscendo a camuffarle fino in fondo: lo avevano di frequente tradito i movimenti
scattosi e la fisionomia vagamente ferina, così come lo tradirà, pochi capitoli dopo, l’istintivo bacio dato a Fedos’ja nel giardino dei Kirsanov (da cui la ragazza si ritrarrà all’istante).
Tutt’altra esperienza con l’universo femminile e con l’arte della
conversazione galante è quella che, invece, si è lasciato alle spalle
Pavel Kirsanov, l’altra figura con cui Bazarov ha un confronto decisivo, peraltro con qualche forzatura: è poco realistico che un autentico gentiluomo come Pavel, sin dal primo incontro, importuni così
insistentemente con domande ‘scomode’ un giovane amico di suo
nipote, che peraltro conosce appena. Ma, d’altronde, a Turgenev
preme illustrare le opinioni divergenti tra i personaggi e i loro atteggiamenti agli antipodi, forgiando una sorta di scena teatrale, o se
vogliamo di psicodramma. È difficile non notare che Bazarov, per
quanto fermo nelle sue convinzioni, non fa proselitismo delle proprie idee, e alla parola preferisce l’azione (quand’anche si trattasse
solo di catturare delle rane in uno stagno e sventrarle per studiarne
l’anatomia). Pavel, al contrario, in maniera non dissimile dagli ‘uomini superflui’ turgeneviani come Rudin, ama conversare per il piacere della conversazione, rendere conto delle proprie opinioni, stuzzicare gli interlocutori, argomentare ogni opinione: è un estimatore
del modello (e della moda) inglese,15 della filosofia, dell’arte, e la
biografia con cui l’autore ce lo presenta ricorda una ‘novella mondana’ (svetskaja povest’) degli anni Trenta, lo stesso periodo in cui,
non a caso, lo zio di Arkadij folleggiava a Pietroburgo indossando
la maschera del dandy. Quando Pavel sfida Bazarov a duello, si basa
appunto sull’ormai anacronistico codice culturale di un’altra epoca:
a metà Ottocento simili tenzoni per avere ‘soddisfazione’ contro il
proprio rivale erano meno alla moda, e comunque potevano avere
luogo solo tra due sfidanti di pari grado per provenienza sociale.
Nonostante tutto, però, Bazarov e Pavel hanno anche dei tratti in comune: entrambi soffrono per brucianti delusioni amorose (in gioventù Pavel era stato perdutamente innamorato di una ombrosa e
sfuggente principessa che lo aveva abbandonato senza mai spiegargli
il perché del suo gesto; inoltre, è chiaro che si è incapricciato anche della giovane Fedos’ja, che però è la compagna segreta di suo
fratello); entrambi devono constatare il sostanziale fallimento delle
proprie idee all’atto pratico; entrambi rimangono soli. Alla fine assistiamo alla morte fisica di Bazarov e a quella spirituale di Pavel,16
che abbandona Mar’ino per trasferirsi in Europa e passarvi, senza
infamia e senza lode, gli anni che gli restano da vivere.
Inoltre, il momento del duello, rituale ritenuto da Bazarov un’inutile sovrastruttura dei tempi andati, è comunque foriero di suggestioni inquietanti, che non sono solo presagi di morte: la notte prima
dello scontro, infatti, Pavel Petrovič appare in sogno al protagonista
con le sembianze di un “grande bosco con cui tuttavia doveva battersi” [Turgenev 2004: 252; pss, vii: 143]. La metafora del bosco
non è ovviamente casuale: in precedenza Bazarov aveva menzionato
gli alberi di un bosco in quanto asettici e cristallini oggetti di studio,
addirittura formulando un ardito paragone con l’essere umano (“È
sufficiente un unico esemplare umano per giudicare gli altri. Le persone sono come alberi in un bosco: nessun botanico si metterebbe
a occuparsi di ogni singola betulla” [Turgenev 2004: 138; pss, vii:
78-79]), ma ora le fosche profondità silvane si rivelano impenetrabili
e sinistre, a mo’ di proiezione dell’inconscio di Bazarov (lo stesso in
cui ribolle la passione nei confronti di Anna), e in generale di quegli anfratti della natura che nessun microscopio riuscirà davvero a
sondare. Significativamente, l’immagine perturbante del bosco come
organismo dalla minacciosa vitalità tornerà anche durante il delirio febbrile che precede la morte di Bazarov e ne annulla la razionalità,
ovvero la sua arma più affilata, ora del tutto impotente di fronte alla
malattia e alla morte. Morte che, per ironia del destino, sarà dovuta
proprio a un’autopsia, cioè a una pratica fondamentale nell’ottica di
Bazarov, per cui l’anatomia e la dissezione costituivano una sorta di
feticcio: Bazarov pensa di poter conficcare il suo bisturi nelle ermetiche profondità della Natura, ma sarà lui stesso ad esserne fagocitato
tramite il varco beffardo aperto da una minuscola ferita sulla punta di
un dito. In qualche modo, il culto della scienza che rasenta il peccato
di hybris avvicina Bazarov anche al mito di Faust, altro personaggio
condotto dalla sua sete implacabile di conoscenza a scontrarsi con
qualcosa di più grande di sé [cfr. Brumfield 1977]. D’altronde, la
morte è l’unico fenomeno che nemmeno un nichilista potrebbe mai
negare (“Sì, prova a negare la morte. È lei che ti nega, e basta!” [Turgenev 2004: 316; pss, vii: 178], esclama caustico Bazarov quando è
già gravemente malato).
E a ben vedere, il morbo che coglie il protagonista nel finale è solo
l’ultima di una serie di ‘prove’ a cui l’autore, nel corso della trama,
sottopone il suo personaggio (e non è peraltro un caso che Turgenev non inserisca Bazarov in un contesto urbano che senz’altro gli
riuscirebbe più congeniale, come la città dove ha studiato, ma lo
collochi, piuttosto, nel bel mezzo della Natura, lasciandolo in sua
balìa [cfr. Strada 1969: 43]). Lo sguardo di Bazarov si rivela inadeguato non solo all’imperscrutabilità della morte, ma anche alle sfide
insite nelle relazioni familiari e più latamente umane, tant’è vero
che tutto ciò che gli capita attorno, come osservò già a suo tempo il
critico slavofilo Nikolaj Strachov [2000: 210], sembra contraddire
le sue certezze: Bazarov contesta il valore dell’amicizia, dell’amore
romantico e dell’affetto tra consanguinei, ma le immagini della famiglia allargata dei Kirsanov e dei due anziani e premurosi genitori
alla sua tomba sembrano poste nell’epilogo proprio per smentirlo.
Bazarov ha portato temporaneamente scompiglio nelle vite altrui,
ma è risultato sempre sconfitto in virtù della sua condizione di assoluto outsider. Non necessita di ulteriori commenti una notazione
dello stesso Turgenev: agli occhi del suo demiurgo, Bazarov avrebbe
assunto le fattezze di uno “strano pendant di Pugačëv” [psp, V: 59],
di creatura ctonia e dalla forza incendiaria al pari del leggendario
rivoltoso di cento anni prima, ma come lui destinato a bruciare
rapidamente.
Nella sottile rete di simmetrie tra i vari personaggi del romanzo,
che come già detto non si limitano alla contrapposizione tra ‘padri’
e ‘figli’, ma si articolano in più combinazioni trasversali, si può
rimarcare anche il canonico discrimine tra ‘ragione’ e ‘sentimento’:
Anna e Pavel, le figure con cui Bazarov vive le collisioni più drammatiche, emergono come incarnazioni di un principio razionale
artificioso e alienante, di cui è emanazione anche la loro ossessione
maniacale per l’ordine e la cura dell’aspetto fisico. Il loro futuro
così com’è riassunto nell’epilogo (un secondo matrimonio senza
amore per Anna, il già citato esilio dorato europeo per Pavel) ne
è un’ulteriore conferma. Nikolaj e Arkadij, invece, non celano le
proprie emozioni e, al di là delle loro ingenuità e inettitudini, sono
in armonia con la Natura e vi hanno trovato un proprio spazio,
come gli ‘animali addomesticati’ che Katja paragona a se stessa e
ad Arkadij in qualità di contraltare al ‘rapace’ Bazarov. Né Nikolaj,
né Arkadij, forse, avranno la meglio sulla complessità sgusciante
dell’esistenza (al di là dei discreti successi di Arkadij, più abile del
padre nell’amministrare la loro Mar’ino, che per la nuova famiglia
allargata assumerà le fattezze di una sorta di nostalgica Arcadia,
neanche il nome del giovane Kirsanov fosse a suo modo ‘parlante’):
almeno, però, saranno vivi e ameranno, con modestia e gratitudine, la propria vita, che proseguirà ininterrotta anche attraverso le ‘nuovissime’ generazioni (Mitja e il bambino di Arkadij e Katja cui
si accenna nell’epilogo). I vecchi coniugi Bazarov, invece, sono non
solo privati della gioia di avere dei nipoti, ma anche costretti al gesto dolorosissimo e innaturale di seppellire il proprio unico figlio,
sulla cui tomba, però, germogliano fiori e piante, suggerendo al
narratore le poetiche righe conclusive sulla “riconciliazione eterna”
e la “vita senza fine” [cfr. Turgenev 2004: 334; pss, vii: 188], sorta
di contrappasso dei tormentosi dissidi che la visione ‘nichilista’ di
Bazarov portava con sé.
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