In briciole Solo 115 camion di aiuti entrati da domenica, la gente combatte per un po’ di pane. Il cibo utilizzato come arma per disintegrare la società e spingere i palestinesi a sud. Saccheggiati 15 tir, Unrwa: «Non stupitevi». Un raid israeliano colpisce gli agenti che proteggevano un convoglio, sei uccisi. 50 ammazzati a Jabaliya
Chiara Cruciati
il manifesto, 24 maggio 2025
Ayah ha fame. Non trova le parole per descrivere cosa significhi. «Non sono capace di dire che vuol dire essere affamati per così tanto tempo, vivere in luoghi sovraffollati di persone disperate», ci dice. «La fame è così profonda, sembra di toccarla». Parla da Khan Younis, profondo sud di Gaza. È al suo quarto sfollamento.
Le famiglie mandano avanti i più giovani a fendere un varco in mezzo alla folla, le braccia alte sopra la testa, le mani aperte per afferrare una busta di plastica trasparente con dieci pite dentro. Quelle buste chiuse con un nodo così stretto che non si slaccia mai, appannate dal calore del pane appena sfornato, sono ciò che di più quotidiano c’è in Palestina; oggi sono quasi una visione, un miraggio. Succede a Deir al-Balah e a Nuseirat, nel centro-nord della Striscia: qui giovedì è arrivata la prima farina dopo 81 giorni senza aiuti.
I FORNI HANNO lavorato a ritmi forzati per tutta la notte, i panettieri non hanno concesso ai loro corpi nemmeno un minuto di riposo per sfornare più pagnotte possibile. Fuori la folla cresceva, si moltiplicava, diventava una massa unica di persone. Sui volti smagriti e pallidi si legge l’urgenza di una missione: una busta significa che oggi la tua famiglia mangerà qualcosa, niente che basti a soddisfare un vuoto grande due mesi e mezzo.
A Nuseirat dei ragazzi si arrampicano sui muri, altri sulle spalle delle persone in fila. C’è un buco sul muro: la panetteria non ha aperto le porte, è troppo pericoloso, verrebbe travolto. I fornai passano le buste di pite attraverso la piccola breccia, non le vedono nemmeno le facce di chi sta al di là, solo mani che afferrano. Non c’è un centimetro libero tra un corpo e l’altro.
La fame sembra di toccarla, insieme all’urgenza e al senso di umiliazione che sale sopra le teste di quella massa informe. E invece sono volti, anime, persone tramutate in meri corpi che anelano un minimo di sollievo ai morsi dello stomaco e alla vergogna di non poter sfamare i propri figli, che piangono per il dolore, perché la fame è fisica, sembra di toccarla.
Israele ha reso palese da mesi l’uso politico che fa degli aiuti umanitari e del divieto a farli entrare. Domenica scorsa l’annuncio tanto atteso: il governo aveva votato la ripresa all’ingresso dei camion umanitari dai valichi sigillati dal 2 marzo scorso. Il premier Netanyahu aveva rassicurato l’ultradestra, si tratterà di consegne «limitate». È stato di parola.
Da allora a Gaza sono entrati un centinaio di camion, una presa in giro. O l’ennesimo metodo di punizione collettiva e di guerra: una quantità così insignificante vuol dire spingere persone disperate a fare di tutto per una pagnotta. «A Gaza il supporto comunitario, la solidarietà collettiva, era qualcosa di scontato – dice Ayah – Ora non lo è più. È istinto di sopravvivenza».
VUOL DIRE ANCHE preparare la strada alla pulizia etnica, come ribadito pochi giorni fa da Netanyahu: la disperazione della fame farà da calamita, verso sud e i centri che la fondazione Usa aprirà, un girone infernale di umiliazione e difficoltà a reperire i viveri. Elemosina prima della cacciata.
Ieri è successo quello che la Mezzaluna rossa aveva previsto: 15 camion del World Food Programme sono stati presi d’assalto nella notte tra giovedì e venerdì, nel sud di Gaza. «Trasportavano aiuti alimentari vitali alle panetterie del Wfp», si legge nella nota dell’agenzia. Il problema, scrive, è che gli aiuti sono troppo pochi e troppo lenti. Non specifica chi abbia saccheggiato i camion, se gang organizzate o civili. Un tassello lo aggiungono le agenzie stampa che ieri riportavano di un raid dell’esercito israeliano contro il gruppo di poliziotti palestinesi – quel poco che resta di un corpo decimato in venti mesi di offensiva – che si era posto a protezione di tir umanitari a Deir al-Balah.
Sei agenti sono stati uccisi. Il bombardamento è giunto in contemporanea al tentativo di gang di assaltare gli aiuti: un attacco coordinato, denunciano i palestinesi, «parte di un piano di ingegneria della fame…volto ad assicurare che forniture essenziali non raggiungano i beneficiari», commenta l’ufficio stampa del governo di Gaza.
Di «fame come arma di guerra» ieri è tornato a parlare Philippe Lazzarini, il capo di Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Dice di non stupirsi dei saccheggi, «la gente di Gaza è stata affamata e deprivata per oltre undici settimane». Parla anche Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, insieme a Unrwa tra i target preferiti del governo Netanyahu: questa è «la fase più crudele di un conflitto crudele», 115 camion e procedure complesse imposte da Israele sono «un cucchiaino da tè di aiuti quando servirebbe un’inondazione».
GAZA NON PUÒ però preoccuparsi solo della fame. Le bombe continuano a cadere. Ieri la strage peggiore è avvenuta a Jabaliya, con oltre 50 palestinesi tra uccisi e dispersi nel bombardamento israeliano di un edificio di cinque piani, letteralmente spianato. La maggior parte delle vittime erano membri della famiglia Dardouna.
«Israele uccide per divertimento – dice un sopravvissuto ad al-Jazeera – Il mio nipotino è morto. Mio figlio lo aveva chiamato Mohammed, come suo fratello, ucciso a ottobre 2023». Venti mesi fa: in mezzo 70mila uccisi, compresi 15mila dispersi, e 122mila feriti. 629, dice l’Onu, sono i palestinesi uccisi nell’ultima settimana; almeno la metà ammazzati in attacchi contro le tende o gli scheletri di case dove avevano trovato rifugio.
Intervista. Bollen (Unicef): «A Gaza c’è cibo soltanto per un bimbo su tre»

Rosalia Bollen, portavoce dell'Unicef nella Striscia di Gaza
La notizia buona: «L’entrata di aiuti alimentari Unicef». Quella cattiva: «È una goccia nel mare e abbiamo dovuto aggiornare per aggravamento le stime sulla malnutrizione infantile». Rosalia Bollen è la voce dei bambini di Gaza. Al telefono controlla ogni sillaba perché da portavoce nella Striscia dell’agenzia Onu per i minori sa che può bastare un niente, un pretesto qualsiasi, per far interrompere il flebile flusso di aiuti appena ripartito.
Nei magazzini c’è da mangiare per un bambino su tre e per meno di un mese. E questo nonostante la riapertura delle consegne, che vengono però autorizzate con il contagocce.
Il 40,4% della popolazione, secondo dati dell’autorità palestinese, ha meno di 14 anni: su 2,2 milioni di abitanti, 900 mila sono minori. E’ come se Torino o Napoli fossero popolate solo da piccoli da tenere alla larga dalle bombe e dalla pancia vuota.
Tra le missioni delle Nazioni Unite a Gaza e in Cisgiordania, l’Unicef è pressoché l’unica organizzazione internazionale mai accusata dal governo israeliano di essersi lasciata infiltrare da Hamas. Nonostante questo deve fronteggiare limitazioni e ostacoli, mentre il conto alla rovescia verso la dichiarazione di carestia
Cominciamo dagli aiuti. L’emergenza può dirsi alle spalle?
Anche se accogliamo con grande favore questo sviluppo, devo subito sottolineare che stiamo parlando di una goccia nel mare. Abbiamo ricevuto poco più di 500 bancali. Sono alimenti che chiamiamo “ready to use” e “complementary food”. Cibo pronto all’uso e di rinforzo a una alimentazione di base, che però a migliaia non hanno più.
Quanti bambini potete sfamare?
Abbiamo porzioni per 320mila bambini (su oltre 900mila praticamente un bimbo su tre, ndr) per un solo mese. Quello che serve è dare alle famiglie la possibilità di mangiare a sufficienza. A questo punto, dobbiamo misurarci con la possibilità che l’intera popolazione possa andare incontro al rischio di carestia. Non dobbiamo aspettare che venga dichiarata ufficialmente, ma agire per impedire che si arrivi al punto di non ritorno.

Distribuzione di aiuti - Unicef
Avete fatto previsioni?
Unicef, che segue protocolli internazionalmente riconosciuti, ha dovuto stabilire che il numero di bambini colpiti da malnutrizione acuta sarà più alto di quanto previsto.
Quanti?
Pensavamo che quest’anno avremmo dovuto affrontare le necessità di cure urgenti causate dalla malnutrizione per 60mila bambini. Pochi giorni fa abbiamo dovuto aggiornare i programmi: prevediamo che almeno 71mila bambini e più di 17mila madri avranno bisogno di cure d’emergenza per la malnutrizione acuta.
Disponete di dati aggiornati sui piccoli morti per fame?
Riceviamo rapporti dagli ospedali e documentiamo tanti casi di insufficienza di cibo. Secondo il ministero della salute di Gaza (gestito da Hamas, ndr) dall’inizio della guerra sono morti almeno 57 bambini a causa di malnutrizione acuta e inedia. Ma il decesso dei bambini non avviene sempre in un contesto ospedaliero. Perciò riteniamo che il numero sia in realtà più alto.
Si può scongiurare?
La cosa più scioccante è che le famiglie rischiano di morire di fame, il cibo di cui hanno bisogno è fermo al confine, a pochi chilometri. Solo noi come Unicef abbiamo l’equivalente di mille camion di aiuti bloccati da mesi. Hanno a bordo viveri, kit per l’infanzia, assorbenti per le donne, farmaci, incubatrici. La sofferenza non è solo la violenza quotidiana, non è solo la pancia vuota, è anche la serie di deprivazioni che, soprattutto i bambini e le loro madri, devono subire.
Si riescono a trovare alimenti nei mercati?
Quasi nulla. I market hanno gli scaffali vuoti. Anche il cibo in scatola è diventato prezioso e introvabile. Nelle condizioni di conflitto attuale noi non riusciamo a raggiungere tutti e migliaia di persone non riescono a raggiungere noi. Ci sono bambini che muoiono nei ripari improvvisati, per malattie provocate dalla malnutrizione o che si aggravano a causa della mancanza di cibo adeguato. Di loro non si sa nulla e non finiscono neanche nelle statistiche. Una mamma ci ha mostrato del pane con la muffa che era riuscita a procurarsi. Il marito è stato ucciso e lei è da sola con cinque figli. Ha messo a bollire il pane sperando di sterilizzarlo. Non aveva altro. Ci sono madri di neonati che mangiano solo una volta al giorno e non riescono ad allattare i bambini. Giorni fa i nostri operatori sono riusciti a raggiungere e soccorrere una bimba di 6 mesi. Pesa 2,7 chili, quanto un neonato appena venuto al mondo. Era nata sana, ora non ha quasi più muscoli perché l’organismo li sta “mangiando” per sopravvivere. Era così debole che quando piangeva quasi non si sentiva. Non sono episodi né casi isolati.
Le autorità israeliane denunciano il furto degli aiuti da parte di Hamas che così ne controlla a piacimento la distribuzione. A voi è successo?
Rispondo per Unicef, e per quanto riguarda noi la risposta è no. E non ci hanno mai fornito le prove del furto di materiali destinati a Unicef Palestina da parte di Hamas. Si è detto che perfino i vaccini venivano depredati, ma neanche di questo è stata fornito alcun riscontro. Gli aiuti che riceviamo arrivano anche da donatori a cui dobbiamo documentare l’intero processo di consegna, e lo abbiamo sempre fatto.
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