giovedì 23 settembre 2021

Giuseppi

Giuliano Ferrara, Non avrà la voce da Frank Sinatra del Cav., ma Conte gira le piazze italiane da rockstar, alla faccia nostra, élite colta e arrogante, Il Foglio, 23 settembre 2021 

 Che Giuseppi fosse un’icona sexy non ce lo aspettavamo, per certe trasfigurazioni occorre essere del sud, vivere nel sud, respirare il sud, ma che potesse essere un fantastico avvocaticchio di stato e forse anche un discreto uomo di stato abbiamo cominciato a sospettarlo quando prima ha liquidato il Truce con una pacca sulle spalle in Senato, poi rieccolo trasformista e fregolista a Palazzo Gigi (senza la acca, proto, lo conosco quel palazzo), infine ci ha chiuso in casa, per primo nel mondo, e fortunatamente gli abbiamo obbedito, amandolo addirittura quando ha esteso il Reddito di cittadinanza, per quello di giornalanza e di impresanza ci avevamogià pensato noi negli anni, a mezza Italia, approntando per di più una felice trattativa con i frugali e la Merkel allo scopo di finanziare anche con i soldi del surplus europeo la nostra ricostruzione ( per la resilienza lasciamo perdere). Il tour trionfale di Conte si presta all’irrisione, come tutti i trionfi che sono effimeri e per questo tanto più gloriosi, ma dice qualcosa, scusate il luogo comune assassino, sulla differenza tra il paese reale e il paese legale. Coloro che sognano incubi di sostanza jacobonica odiano l’ex presidente del Consiglio e lo sbertucciano da mane a sera, gli altri lo portano in palmo di mano, è un blasone nazionale, quello che ha trovato la forza di chiudere l’italia e i soldi per riaprirla. La gente è fatta così, semplifica, e se sa apprezzare in Draghi il fascino gesuitico e superpolitico del Grand Commis de l’etat sa anche valutare come si deve l’uomo comune, ignoto, anonimo, che scambia il 25 aprile per l’ 8 settembre e viceversa, trucca il curriculum professionale e intanto se ne fa uno migliore nella Repubblica costituzionale più bella del mondo. Giuseppi è stato un prodigio italiano dei più vistosi, come poteva il paese reale non riconoscere il suo stellone pandemico, la sua pacatezza azzeccagarbugli, la sua tenue, soave resistenza a un grande sfratto in favore del nostro Louis XIV, l’homme fatal del whatever it takes ovvero lo stato sono io? Ora è alla prova della leadership politica, una fatica bestiale, e l’affronta con la sua solita sornioneria che tanto indispettisce l’aspetto snob, colto, arrogante e infantile della nostra personalità democratico- libbberale. Ha fatto diventare carrozze europeiste le zucche grilline di conio governativo, ripetendo in piccolo il miracolo berlusconiano della trasformazione di una massa di pubblicitari piccolissimoborghesi in un’armata con il sole in tasca. Infatti a Berlusconi è sempre piaciuto, addirittura per come era elegante ( e questo è francamente troppo, ultroneo come dicono in tribunale). Con Giuseppi vince naturalmente anche la psicologia del rimpianto, del si stava meglio eccetera. Ma non è la questione fondamentale. E’ che il senso comune, strumento pericoloso ma irrinunciabile sopra tutto se detto all’inglese nel significato originario ( common sense), sa riconoscere la sua fauna politica, non diffida di uno che è modesto, che non brilla per oratoria, che ha una voce chioccia, visto che gli hanno negato quello con la voce più bella dell’ugola di Frank Sinatra, il nostro Cav., e piace in Conte l’uomo della folla salito sul palcoscenico per puro caso e assistito da una gran fortuna e capacità di lavoro. Noi delle cosiddette élite, che poi non si dovrebbe mai esagerare, serieggiamo, studiamo, approfondiamo, ci intorciniamo intorno a schemi prettamente razionali per suscitare la bella politica, Giuseppi si accontenta di quella così così e alla testa dei grillozzi riconvertiti gira per le piazze e si fa applaudire come una rockstar.

lunedì 20 settembre 2021

Roma e Torino

Ci mancava pure Cazzullo. Adesso ha scoperto che Roma ha una coscienza, mentre Torino vagola nel buio. E dire che lui su Torino, sulla storia di Torino in specie, ha scritto interi libri. Si vede che non ha capito bene come funziona. Ci sarebbe un problema di fierezza.I segni del declino sono numerosi, in effetti, e molti su questa base pensano che non ci sia più nulla da fare. Ci sono ugualmente quelli che pensano di poter rovesciare la tendenza. Andare verso il futuro con il volto rivolto al passato, l'Angelus novus di Paul Klee, splendida immagine, ma soluzione improbabile. Bisogna risolversi a guardare avanti. Le iniziative individuali non sono in grado da sole di aprire una nuova fase di sviluppo. Ci vuole un centro propulsore e coordinatore, ci vogliono teste pensanti e quadri dirigenti capaci, bisogna allargare la sfera dei soggetti coinvolti. Tutte cose che non prendono forma in poche settimane o pochi mesi. Ci vorranno anni. Roma ha la risorsa di un grande passato. Grande e lontano. Torino possiede invece delle qualità nascoste, lo spirito civico, la qualità degli apparati, il gusto della concretezza. Nel lungo periodo questi caratteri si sono mantenuti, sia pure a volte con difficoltà, come accade oggi per l'anagrafe comunale, producendo disastri. Però una caduta verticale di vasta portata, come quella di Roma nell'ultimo decennio, non si è mai prodotta. Forse la partita non è già persa in partenza. La campagna elettorale non si gioca su questo. Un buon risultato di Francesco Tresso sarebbe un segnale. Come cittadino mi auguro che Aldo Cazzullo abbia torto nella sua diagnosi profetica. Al tempo stesso vorrei che l'allarme venisse preso in seria considerazione dai principali partecipanti alla battaglia per la conquista del Comune. Una lettura utile. Arnaldo Bagnasco, Giuseppe Berta, Angelo Pichierri Chi ha fermato Torino? Einaudi 2020

mercoledì 8 settembre 2021

Le certezze di un candidato

Angelo d'Orsi, Micromega, 3 settembre 2091 Ho già raccontato in interviste, dichiarazioni e articoli che la mia candidatura a Sindaco di Torino non è stato il frutto di una decisione personale, maturata dopo esperienze analoghe, o partorita dalla mia personale ambizione. Le cose stanno in altro modo: ricevetti, poco prima del 25 aprile, una telefonata del segretario torinese di Rifondazione Comunista, Ezio Locatelli, il quale parlava a nome di un vasto insieme: la pressoché totalità della sinistra in città, ossia il variegato e largo panorama che si dispiega a sinistra del Partito democratico la cui natura di sinistra oggi appare del tutto cancellata, persistendo soltanto nel cuore degli ultimi vecchi militanti del PCI, che ritengono, per fedeltà, per abitudine o per volontà di non ammettere una sconfitta epocale che li coinvolge direttamente, che quel partito sia l’erede del partito di Gramsci Togliatti e Berlinguer… Era del resto stata questa, da sempre, la mia precondizione per accettare un invito a candidarmi, non importa a quale carica: l’unità, o quanto meno uno schieramento larghissimo, che mi sostenesse. Così era, e dunque il primo ostacolo veniva meno. Accanto a Rifondazione, a Sinistra anticapitalista, a DeMa (la forza che si richiama a Luigi De Magistris, oggi impegnato nell’ardua contesa per la Regione Calabria), che avevano accettato di coesistere in un’unica Lista, denominata “Sinistra in Comune”, si erano posizionate altre due forze: Potere al Popolo e Partito Comunista Italiano, l’erede del Partito dei Comunisti Italiani; con l’aggiunta di Torino Eco Solidale e di Fronte Popolare. In totale, sette sigle, in uno sforzo unitario eccezionale. E si è trattato del primo risultato positivo raggiunto. Il secondo sarà quello elettorale, che tuttavia non posso anticipare, naturalmente, dato che la vera competizione sta iniziando soltanto ora. PUBBLICITÀ La mia candidatura in fondo nasceva da due requisiti del sottoscritto: 1) non essere mai stato iscritto a nessun partito politico (pur avendo il massimo rispetto dei partiti, strumento essenziale della vita democratica); 2) aver sempre avuto una posizione da intellettuale militante, impegnato in innumerevoli battaglie per altrettante “buone cause”, coerentemente critico verso l’involuzione della sinistra, e verso la catastrofe della dirigenza post-comunista, sotto le varie sigle: PCI-PDS-DS-PD, e verso i suoi cespugli come Articolo 1, Sinistra Italiana et similia. In altri termini, come mi è stato detto esplicitamente, i diversi soggetti politici di cui sopra hanno creduto di individuare nel sottoscritto la figura in grado di rappresentare unitariamente la sinistra cittadina, non essendo mai stato parte di alcuna delle forze che la compongono, ed avendo avuto sempre come stella polare l’unione della sinistra. Arrivare dall’unione realizzata oggi, con la mia candidatura, a una stabile unità è altro affare, assai più complesso e difficile, la cui possibilità concreta sarà sicuramente legata al risultato elettorale: è probabile che se esso fosse una disfatta tutto il discorso unitario apparirebbe fragile e probabilmente non resisterebbe alle spinte centrifughe, che peraltro sono state presenti fin dalla decisione di allearsi nella battaglia elettorale. C’è stata però una seconda motivazione che mi ha indotto ad accettare l’inattesa proposta. Ho insegnato Storia del pensiero politico, nelle sue diverse formulazioni disciplinari, per un quarantennio, nell’università italiana, con alcune esperienze di docenza anche all’estero. Ho studiato e scritto di politica, pubblicando una cinquantina di volumi, oltre un centinaio di saggi, e forse un migliaio di articoli: avendo ormai traguardato i sette decenni di vita, la prospettiva di passare dalla condizione di osservatore/studioso della politica ad attore, tanto più nell’occasione topica delle elezioni, sia pure a livello locale, mi ha suscitato una certa emozione che è stata la molla prima a indurmi ad accettare la proposta. E dentro di me ho pensato: “Se non ora, quando?”. Era in fondo la possibilità di applicare lo studio della politica, e la conoscenza della storia all’azione politica. Mi sono reso conto, tuttavia, solo in corso d’opera, delle difficoltà. E ora che, dopo un paio di mesi di preliminari, la campagna elettorale parte davvero, le difficoltà sono diventate macigni. Sembrava lunghissima, ma dopo l’annuncio della data del voto (3-4 ottobre) a me e ai miei sodali pare di avere troppo poco tempo e troppe cose da fare, persone da incontrare (e convincere), eventi da organizzare, operazioni burocratiche da capire e tradurre in pratica, permessi da chiedere, code negli uffici da affrontare, idee da partorire; e denaro da spendere, che manca. Ti ritrovi di colpo in un universo a te ignoto, una città parallela, sotterranea, sconosciuta; fatta di innumerevoli incombenze, di pratiche da sbrigare, in uffici diversi, con autorità diverse, con tempistiche diverse, un vero labirinto di autorizzazioni, concessioni, e norme e leggi da conoscere, sanzioni da evitare… Tanto più quando non esistono rimborsi elettorali pubblici e, nel caso, non ci sono finanziatori né palesi né occulti. E l’autofinanziamento sembra avere fatto il suo tempo, con la crisi della militanza, lo stato precario delle tradizionali organizzazioni politiche e il moltiplicarsi di campagne di crownfunding per gli scopi più nobili e talvolta anche per quelli più bislacchi o addirittura sospetti. Una campagna elettorale, insomma, ho scoperto che è cosa assai diversa dal semplice “fare politica”, o meglio si tratta di una formidabile accelerazione del tempo dell’azione politica, perché ci si trova dinnanzi a scadenze pressanti, alle quali non sono possibili deroghe o ritardi, perché devi accentuare le differenze con la concorrenza, perché devi aumentare il tasso di aggressività verso i competitors, perché devi, invece, tentare di evitare i temi controversi, quelli su cui rischi di scontentare una parte di elettorato, e quindi di perdere voti, perché la logica efferata di una campagna elettorale sta tutta nella conquista del consenso immediato, quello finalizzato alla scadenza, cioè al fatidico “voto in più”. Questa dinamica finisce per corrompere le proposte politiche, e persino per modificare la normale dialettica politica, già nei linguaggi e nei toni. Tutti gli studi in merito ci dicono del resto che nella contesa elettorale conta di più il significante del significato, che l’apparenza prevale sull’agire e che, se si mira al consenso, i contenuti debbono essere labili e generici, mentre la forma deve essere roboante e clamorosa, deve “colpire” più che “convincere”. Nel contempo, mentre ti rendi conto che questa è la norma della campagna, hai qualcosa dentro di te che si oppone, che rifiuta, che vorrebbe ricondurre tutti alla normalità dell’agire politico. Una normalità impossibile, perché gli avversari non hanno lo stesso punto di partenza, perché alcuni hanno un budget di diverse centinaia di migliaia di euro a disposizione, e altri devo sperare nelle offerte dei potenziali elettori; perché alcuni sono coccolati dai media e altri vengono ignorati; perché alcuni sono già interni alla macchina amministrativa e ne conoscono segreti e trucchi, e altri ne sono all’oscuro; perché alcuni, in definitiva, sono parte del “Sistema Torino”, che altri – certamente, io, in modo programmatico – vorrebbero sconfiggere. E allora ci si deve inventare una fisionomia nuova, accattivante per una parte dell’elettorato, rassicurante per l’altra parte, devi imparare a sorridere anche quando non c’è nulla da sorridere, devi stringere mani che preferiresti non sfiorare neppure (e non c’entra la pandemia da Coronavirus!), devi farti fotografare accanto a soggetti che vorresti tenere lontani mille miglia… Tutto questo è reso tanto più complicato dalla molteplicità delle forze politiche che mi sostengono e dalle relative differenze ideologiche, strategiche, tattiche. Un grande risultato è stato metterle insieme, ma conservare quella unione, al di là della stessa prospettiva che possa diventare un progetto stabile per trasformarla in unità, v’è la difficoltà quotidiana di appianare e fluidificare le relazioni tra i vari soggetti e tra loro e il Candidato Sindaco. Un lavoro diuturno, spesso faticoso, ma che mi aiuta a conoscere da vicino persone, idee, sentimenti, progetti… Ma in definitiva qual è la città che vorrei, e per la quale ho affrontato la sfida? Una città che si riscuota dal torpore, una città che rovesci il percorso di decadenza, ma che non pensi di cambiare pelle e natura; Torino è “città seria” (Gramsci), e deve rimanere tale, non vagheggiare di far concorrenza a Firenze o Venezia, puntando semplicemente sul turismo. Sono decisamente contro la “città-cartolina”. Torino deve riprendere e salvaguardare la città della produzione, in specie metallurgica e meccanica, ma innovando sul piano della tecnologia, puntando sull’innovazione, ma contemperando questo con l’ecosostenibilità. Non deve rinunciare all’automobile, ma deve porsi all’avanguardia, e se è orfana della Fiat e maltrattata da Stellantis, deve offrire opportunità a costruttori stranieri capaci di produrre, innovare e creare occupazione. Inoltre, Torino deve smettere di pensare agli immigrati come un problema da risolvere con i lager e considerarli invece una risorsa preziosa: l’immigrazione è stata storicamente un fattore straordinario di progresso per Torino, quella interna dal Piemonte, quella dal resto d’Italia e quella attuale da fuori, europea o extraeuropea. E non si tratta semplicemente della solita cantilena dell’accoglienza, del dovere morale di aiutare i fragili e i deboli; tutto giusto. Io credo che dobbiamo soprattutto far capire alla cittadinanza che si tratta di una questione economica. Gli immigrati vanno integrati, salvo il loro diritto di conservare la loro cultura, vanno aiutati a trovare casa e lavoro, pagano tasse, mandano i loro figli a scuola, il che impedisce la chiusura di classi elementari e medie, arricchiscono gli atenei cittadini con le loro rette, offrono servizi oggi respinti dagli italiani: la cura delle persone, per esempio. Nella mia campagna ho lanciato alcuni slogan che indicano una certa idea di città, che fanno riferimento alle principali criticità in cui versa la città; a partire dalla lotta al debito (Torino città più indebitata d’Italia, grazie alla politica dei “Grandi Eventi”, a cominciare dalle Olimpiadi invernali 2006); in secondo luogo, la proposta di numerosi e diffusi “Piccoli eventi”, che rechino cultura, e divertimento, possibilmente intelligente, alla massa della popolazione, invece che pochi “Grandi Eventi” a beneficio di pochi ma che gravano sulle tasche di tutti i cittadini; analogamente invece delle “Grandi Opere” (il TAV è la più gigantesca, inutile e dannosa di tutte), innumerevoli “Piccole opere” che rendano la città vivibile e sicura, dai marciapiede sconnessi agli istituti scolastici pericolanti; risanare l’ambiente (altro triste primato negativo di Torino è l’inquinamento); puntare sulla salute in città invece che sulla “Città della salute” (quei giganteschi agglomerati di strutture sanitarie a cui si pensa o si sta iniziando a costruire ai margini del territorio urbano, che prevedono addirittura riduzione di posti letto e di posti di lavoro: la pandemia non ha insegnato proprio nulla!); una politica per la casa attraverso un’agenzia territoriale (ci sono migliaia di appartamenti sfitti e migliaia di famiglie senza casa); superare o quanto meno ridurre gli steccati tra il centro e il resto della città, riportando la vita nelle periferie (“Portare il centro in periferia, non il contrario!”), il che deve tradursi in servizi là dove mancano o sono gravemente insufficienti, dai trasporti agli ambulatori, dalle biblioteche e alle farmacie, ma, infine, teorizzare come un diritto fondamentale e trascurato il diritto alla bellezza. Un diritto dal cui godimento sono escluse troppe fasce sociali, proprio quelle che ne avrebbero particolarmente bisogno e che da esso trarrebbero i maggiori benefici. Insomma, Torino è una città in decadenza che attraversa un momento assai problematico: il rischio è che finisca o nelle mani della destra (e sarebbe la prima volta nella storia cittadina, nella Repubblica), oppure ritorni al PD, che ha avviato il processo di decadenza, sotto i vessilli ingannevoli del turismo e della internazionalizzazione. Le differenze fra le classi si è accentuata, la città si è ridotta a una condizione medievale, con fossati che separano le zone urbane che delimitano a loro volta le classi sociali, e via via che ci si allontana dal cuore di Torino si perdono diritti, possibilità, benefici… Si tratta di ricostruire una comunità, e darle un senso. Che non è quello semplicemente dell’appartenenza ma piuttosto quello della volontà di contribuire al comune benessere: a fare della politica la scienza della buona amministrazione, ma in grado di “pensieri lunghi”. Se la piccola grande rivoluzione che ho in mente non dovesse realizzarsi, rimarrebbe in me non il rammarico del fallimento, ma piuttosto la speranza di aver spostato l’asse della discussione (in effetti da quando ho lanciato le mie parole d’ordine abbiamo constatato che le forze avversarie ne hanno ripreso, strumentalmente, diverse), e di aver tentato di riportare la sinistra alla gestione della città. E ancor più, rimarrebbe la soddisfazione, comunque vada, di aver lavorato per unire le sparse membra della Sinistra, rilanciandone l’azione, fornendo un modello che qualcuno ha seguito, qualcun altro ho abbandonato facendo prevalere (Roma, Bologna, Milano…) logiche separatiste, velleitarismi identitari e una idea della politica come mera testimonianza. Noi abbiamo fatto un altro percorso e il risultato lo si vedrà, se non a lungo termine, quanto meno a medio termine. In ogni caso, da Torino giunge un messaggio: Occorre dar vita a un’altra storia. Qualcuno vorrà raccoglierlo?

Jean-Paul Belmondo

Goffredo Fofi, Avvenire, 7 settembre 2021 I funerali di Jean-Paul Belmondo, morto lunedì all'età di 88 anni, si svolgeranno venerdì a Parigi nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Lo ha annunciato l'avvocato dell'attore, Me Michel Godest. La cerimonia avrà luogo alle 11. Le spoglie dell'attore saranno poi cremate. Il giorno prima, giovedì, l'Eliseo ha annunciato che gli verrà tributato un omaggio nazionale nel complesso degli Invalides. Tre erano i giovani attori che si imposero alla fine degli anni Cinquanta nel rinnovamento del cinema francese, nella rivolta della Nouvelle Vague contro il “cinema di papà”: Belmondo il più “nuovo”, Alain Delon il più bello (che “esplose” sullo schermo grazie a due grandi registi italiani uno dei quali molto “classico”, Visconti e Antonioni) e Laurent Terzieff il più bravo e il più sfortunato, che ebbe delle piccole rivincite come attore teatrale. Ma se Delon, pur bravo, si muoveva nella tradizione degli attor giovani del cinema classico, fu Belmondo a catturare l’aattenzione dei giovani critici, irriverente, aggressivo, spavaldo, e soprattutto ribelle alle convinzioni sociali, nella scelta di una quasi marginalità dei suoi primi personaggi, e non solo. E il ruolo costruito su di lui da Jean-Luc Godard nel 1960 in A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) fu decisivo, seguito da quello di Pierrot le fou, per la sua affermazione. Fu “nuovo” anche nei film italiani in coproduzione (una bellissima tradizione persa da tempo) come La viaccia di Bolognini, Lettere di una novizia di Lattuada, e perfino La ciociara di De Sica, dove era il pretino buono che incantava la figlia della ciociara. Senza dimenticare Mare matto di Castellani, sfortunato tentativo di narrare la gente di mare, dove era al fianco di una insolita Lollobrigida. Aveva già fatto credibilmente il prete nel bel film di Melville Léon Morin prete, dal dimenticato (e bellissimo) romanzo di Béatrix Beck sull’amicizia, non l’amore, tra una giovane e un prete nel mezzo dell’occupazione prima italiana e poi tedesca di una cittadina meridionale. La simpatia suscitata dalla sua spavalderia lo portò naturalmente al cinema poliziesco e d’avventura, il più fortunato di tutti i tanti film del genere fu L’uomo di Rio di Philippe de Broca, e poi Cartouche, in costume, ma fu ancora Melville a cucirgli addosso i panni di un antieroe simenoniano, in Lo spione e in Lo sciacallo, e fu in quest’ultimo che dette forse la sua migliore interpretazione. In Borsalino, un poliziesco alla marsigliese però in costume d’anteguerra, ebbe a fianco Delon, e il film spopolò, segnando il definitivo trionfo dei volti nuovi del cinema francese. La Nouvelle Vague non spaventava più, e i suoi registi e i suoi attori rientravano rapidamente nell’ordine del commercio e del successo. Belmondo era simpatico ed era bravo, e aveva avuto qualche esperienza teatrale e di scuola, prima che Godard lo scoprisse. E per il resto della sua carriera fu sempre un solido professionista senza grilli in capo, che seppe servirsi del suo aspetto e del suo fisico ma che era tutt’altro che rozzo culturalmente. Furono tanti a paragonarlo con il Gabin degli anni trenta, di cui talvolta ripeté il cliché. Un altro incontro da non dimenticare fu quello con Truffaut, per La mia droga si chiama Julie, che era però uno di quei film dove finalmente Truffaut si liberava dal “buonismo” della serie di film sul giovine piccolo-borghese perbene Jean-Pierre Léaud, e restano i noir i suoi film meno invecchiati. Da ultimo, divenuto un’icona dell’immaginario francese, Belmondo, come era accaduto a Gabin, prese a gigioneggiare, a imitare Belmondo. Ma al suo volto irregolare e al suo ghigno ci si era affezionati, il grande pubblico come i cinéphiles, fedeli questi all’immagine che ne aveva consegnato per sempre Godard, nella storia del cinema, nella storia del costume, nella storia dell’immagine del maschio nella cultura del Novecento.

giovedì 19 agosto 2021

Lucio Caracciolo sull'Afghanistan

Il territorio afghano – non lo Stato Afghanistan, miraggio forse indotto dalla locale abbondanza di oppiacei – misura da un paio di secoli la temperatura dei grandi o miseri giochi che le potenze ingaggiano nel cuore impervio dell’Asia. Fossero gli imperi zarista e britannico, l’altro ieri, o siano quelli americano e cinese, con la partecipazione speciale di quel che resta del russo, oggi e certamente domani. La fuga insieme tardiva e affrettata del più agguerrito esercito del mondo da quel campo minato ha già conseguenze rilevanti. La prima è la perdita di credibilità del Numero Uno. Riflesso della crisi di fiducia in sé stessa che investe la società americana e ne confonde la razionalità strategica (ma anche viceversa). Sarà una tempesta destinata a mutare in schiarita entro fine decennio, come pronosticava l’anno scorso il geniale geopolitico George Friedman nel suo La tempesta prima della calma , il più originale studio sul momento americano? Nelle cancellerie europee riecheggiano quale profezia le parole di Angela Merkel dopo il suo non-incontro con Trump del maggio 2017: «I tempi nei quali potevamo completamente affidarci ad altri sono passati da un pezzo. Noi europei (eufemismo per tedeschi, n.d.r. ) dobbiamo riprendere il nostro destino nelle nostre mani». Il discorso con cui Biden ha giustificato il ritiro davanti al suo pubblico era d’altronde di stringente logica trumpiana. È l’America che sta cambiando registro, non questo o quel presidente. Più ambigue le conseguenze nel teatro asiatico, epicentro del duello Stati Uniti-Cina. Il provvisorio vincitore di questa mano è il Pakistan. I talebani sono prolungamento dei servizi segreti (Isi) e delle Forze armate pachistane, impegnate a tenere insieme un edificio tarmato dalla nascita, vero arsenale del jihadismo. Soprattutto destinate a controllarne l’arsenale nucleare, allestito per bilanciare quello dell’arcinemico indiano. Con l’evacuazione degli occidentali l’Afghanistan talebano disegna per Islamabad l’agognata profondità strategica contro il vicino. E ne rafforza il vincolo con la Cina, frutto della medesima fissazione anti-indiana. A prima vista, dunque, occorre registrare il trionfo pachistano in terra afghana, su cui l’Isi contava fin dall’autunno 2001, quando correttamente prevedeva che il tentato suicidio americano in quel teatro di “guerra al terrorismo” sarebbe andato a buon fine. Ne deriva la speculare sconfitta dell’India, che negli ultimi anni ha messo tutte le sue uova nel paniere americano venendone ripagata con la cessione dell’Afghanistan al nemico esistenziale. Al grado superiore, questa concatenazione segnerebbe un punto per Pechino nella partita con Washington. Specie se, come pare, i cinesi riusciranno ad esercitare un certo grado di influenza su Kabul. E se i talebani, pragmatici e concreti come vogliono oggi apparire, eviteranno di esportare le loro tecniche terroriste nella vicina provincia cinese del Xinjiang a vantaggio dei ribelli uiguri. Sarà interessante verificare se la Turchia, che in Asia centrale sente di giocare in casa, darà mano alle intese sino-pachistano-afghane. Di sicuro Erdogan intende investire nella regione, con l’equilibrismo necessario a non trovarsi contro gli “alleati” a stelle e strisce. Il formidabile successo delle serie televisive di propaganda neo-ottomana in Pakistan testimoniano, fra l’altro, del soft power turco. Per niente tranquilli sono invece i russi. Il timore che l’estremismo islamista sedimentato nell’Afpak penetri nello spazio regionale ex sovietico e persino in casa propria induce Mosca a cercare fra i talebani referenti che garantiscano contro questa tentazione. Ancora meno sereni i persiani, che hanno perso la loro sfera d’influenza attorno a Herat e sono esposti ai devastanti flussi di droga e alle ondate di profughi afghani in fuga via Iran-Turchia verso l’Europa. Tutto ciò conforta chi a Washington, un po’ credendoci e altrettanto per consolarsi, confida che questa sconfitta possa presto volgere in rivincita: noi ce ne andiamo da quel pantano, ora sono affari di cinesi, russi e iraniani. La storia non è finita. Tantomeno nella terra del Grande Gioco. La Repubblica, 19 agosto 2021

lunedì 16 agosto 2021

Un museo a Ferragosto

SIMONE LORENZATI ROSSANA (CN) - E' un giorno agostano caldissimo. A tutto si pensa tranne che ad una visita ad un Museo. Eppure. Eppure senti che devi andarci, senti che quel piccolo passo non è un passo qualunque. Perché in effetti non lo è. Intanto è la prima volta in cui (ri)torni in un Museo, dopo un anno e mezzo. Nel frattempo una pandemia generale che ha sconvolto il mondo ma che, paradossalmente, ha anche aiutato a dare il giusto valore alle cose. E che ha ricordato a tutti quanti l’enorme importanza della cultura e della storia. Senza dimenticare il dovere della testimonianza, quella che ci permette di capire cosa siamo stati (e, magari, di provare a decidere dove andare). Ed è proprio allora che hai la fortuna di trovare aperto il Codirosso, ovvero il Museo della Resistenza presente a Rossana (CN). Nato vent'anni fa su iniziativa del professor Riccardo Assom, attento storiografo della Resistenza, l’Ecomuseo Il Codirosso si colloca in Val Varaita, ossia in un luogo che vide attivi i partigiani della 15esima Brigata garibaldina “Saluzzo”, poi divenuta 181esima a causa del trasferimento della prima in Val Po. Da oltre sedici anni, ormai, l'Associazione che ne cura la gestione è un Ente Onlus riconosciuto. Il museo si caratterizza per una collezione estremamente ricca di cimeli, tra cui alcuni rari o finanche unici, cui si aggiungono attente descrizioni didascaliche, documentazioni fotografiche e cartacee. Da rimarcare, poi, i numerosi disegni realizzati dal comandante Ernesto Casavecchia negli anni che precedettero la guerra, disegni che arricchiscono ulteriormente il complesso museale, sito all'interno delle sale dello storico Palazzo Garro in via Mazzini 67 a Rossana. L'allestimento è permanente e la visita può proseguire in contesto montano a Borgata Grossa di Lemma (a sette chilometri da Rossana) su di un sentiero partigiano inaugurato nel giugno 2013. Qui, su diversi pannelli dislocati lungo il percorso, vi si leggono nomi e vicende che caratterizzarono quelle giornate di oltre settant’anni fa. Riccardo Assom, fondatore dell’originale museo proprio a Lemma, ricordava che il tutto era stato fatto "per essere da insegnamento alle nuove generazioni e fare in modo che i nostri giovani crescano nel rispetto delle idee di ognuno, coltivando lo spirito di fratellanza che deve esserci tra i popoli, a garanzia dei più alti valori della democrazia riconquistata nei venti mesi di quella dura lotta che vide coinvolta, oltre ai partigiani, anche la popolazione civile". Ma, al di là dei numeri, è cosa fa da contorno al tutto ad essere speciale. Intanto la gentilezza, la cortesia e la professionalità di Ginevra e Paolo, che sono poi alla base di quest’ora e mezza che ci riporta nell’Italia che fu. Si percepisce la loro passione, la loro voglia di raccontare cosa fu la Val Varaita in quel triennio, tra il 1943 ed il 1945. E sono proprio queste tre annate a scandire, temporalmente e fisicamente, gli spazi delle tre sale. Ti ritrovi a sentire le storie di ragazzi poco più che ventenni. Ragazzi, quindi, giovanissimi e che, pure, non ebbero dubbi sulla scelta da compiere. E i partigiani furono davvero di ogni colore politico, dai monarchici fino agli anarchici. Nelle zone di pertinenza del Museo, tuttavia, la parte del leone la fecero i partigiani garibaldini comunisti ed i giellini. Nonostante anni, viene da pensare sin dall’infanzia, imbevuti da una dottrina unicamente di stampo fascista, decisero di combattere a favore della Libertà, affinché si potesse ritornare a leggere, a manifestare, a fare politica, in sostanza a vivere, liberamente. Ed è bello pensare che le parole di Pietro Calamandrei (se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione) e di Antonio Gramsci (istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi perché abbiamo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra forza) vengano ora riprese da chi quella storia non vuole cancellare. Da chi comprende come l’italica tendenza all’oblio, al mettere insieme e al far equivalere ogni cosa – nella notte in cui tutte le vacche sono bige anche tutti i morti divengono uguali – non debba passare. E allora il mio consiglio, per quanto possa contare, è di farvi questo regalo. Di quelli inaspettati quanto preziosi. Il museo apre la prima e la terza domenica di ogni mese, dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18, oltre che su appuntamento (3332966316).

giovedì 8 luglio 2021

Un ricordo di Angelo Del Boca

Matteo Dominioni, Ciao Angelo Questa mattina abbiamo dato un ultimo saluto ad Angelo Del Boca. Credetemi, in questo momento mi è molto difficile scrivere. Ci proverò, raccontando in modo disordinato qualche storia personale. Tutto incominciò tanti anni fa. Una sera, ero con la famiglia in Alto Adige a trovare i parenti materni, la Rai a tarda ora fece vedere un documentario sulla Libia e cominciò un’aspra discussione tra mio padre e uno zio di mia madre che era rimasto mutilato in Libia e per questo, insieme al fatto che era ancora fascista, odiava i libici e Gheddafi. Fra i due contendenti ‘volarono gli stracci’ come si suol dire. Mia madre che anteponeva gli equilibri famigliari si arrabbiò parecchio e rinfacciò a mio padre di avere bevuto troppo e avere esagerato. Ho visto mio padre litigare con altre persone al massimo quattro volte in tutta la vita, e quindi rimasi molto colpito ma diedi ragione a lei. Tornati a Como, dopo qualche giorno, chiesi ulteriori delucidazioni. Mio padre andò verso la libreria e, a colpo sicuro, estrasse e mi passò un libro. Era ‘La guerra d’Abissinia’ di Angelo Del Boca, pubblicato nel 1965 da Feltrinelli e che mio padre aveva preso ai tempi dell’università. Lo lessi d’un botto, lo sottolineai indelebilmente col trattopen, lo rilessi e lo rilessi ancora. Avevo 14 anni e cominciai a domandarmi perché a scuola non mi venivano raccontate certe cose, e come mai nemmeno negli ambienti democratici non vi era memoria sui crimini fascisti in Africa. Mi resi conto in quel momento che c’erano cose del nostro passato che i grandi sapevano e non ci avevano raccontato. Come sempre. Altro che Gramsci, Bordiga o Togliatti, io volevo sentir parlare degli altri, di Abebè Aregai e Zellechè Liku, dei fratelli Kassa e degli anonimi meslenié e cantastorie che sostennero la resistenza al fascismo. Cominciai a informarmi leggendo tutti i libri di Del Boca; con gli anni crebbero interesse e passione che mi hanno permesso di fare ricerca. Adigrat, Adua, Gimma, Macallè sono divenuti luoghi famigliari come Ponzate, Longone al Segrino o i sestrieri veneziani. La prima volta che incontrai Angelo, molto probabilmente rimase perplesso, ‘Il solito rasta scappato di casa’ si sarà detto vedendo i miei dreadlock di 1 metro, ma ricordo ancora il momento dei saluti. ‘Quanti anni hai?’, ‘27’ risposi, ‘allora non sei più giovane’. Aveva ragione, disse 5 parole che mi cambiarono, che poi, negli anni successivi, quando sentivo dire ‘giovani storici’ nei confronti degli over 27 mi tornavano regolarmente in mente e mi giravano le scatole. Grazie tante, dite giovani per tenerci precari, sottopagati, umiliati e per garantire la gerontocrazia. Andare in corso Inghilterra a Torino a chiacchierare con Angelo, scambiare idee, ricevere suggerimenti è stata la cosa più edificante della mia vita. Passavano le ore senza che ce ne accorgessimo e gli incontri finivano sempre con un ‘devo scappare ho il treno’ oppure ‘adesso ti lascio mia moglie ha preparato la cena’. Grazie ad Angelo ho conosciuto Martha Nassibou che a sua volta mi mise in contatto con Abate Ghetacciù figlio di ras Ghetacciù e Mikael Immirù, figlio di ras Immirù. Non c’è più nessuno purtroppo ma le storie le ho raccolte e registrate. Racconti di un mondo tradizionale che non c’è più, ma anche testimonianze di stragi, massacri, deportazioni. Grazie ad Angelo ho pubblicato alcuni articoli su ‘Studi piacentini’ e ‘I sentieri della ricerca’ che furono due esperienze editoriali importantissime per gli studi italiani sul colonialismo. In diverse circostanze mi diede degli input per delle ricerche. Alcune andate a termine come quella su Fekini che portò alla pubblicazione di ‘Ad un passo dalla forca’, altre finite nel nulla. Una in particolare la voglio raccontare. Un giorno mi arrivò una busta nella quale Angelo aveva inserito una lettera della comunità di esuli somali in Gran Bretagna originari di Barca. Questi chiedevano informazioni, documenti, fonti insomma per potere ricostruire la propria storia. Purtroppo, non sono mai riuscito ad esaudire quella richiesta che era un vero e proprio grido d’aiuto. Credeteci, ma ogni tanto ci penso e mi sento in colpa, per non avere fatto il mio dovere e per non avere aiutato i fratelli e le sorelle somale. Angelo, fosse stato più giovane, lo avrebbe fatto. Quando ero via di casa e arrivava una lettera da Torino, chiedevo di aprirla e leggermela subito al telefono. In un caso mio padre aprì la busta ma non mi volle leggere il contenuto. Scannerizzò le due pagine e mi inviò un file. Era una bella lettera, troppo bella per essere letta da un’altra persona. Perdonatemi la caduta di stile ma devo ammettere di essere stato fortunato nella vita, perché tutto sommato ho fatto quello che sin da pischello avrei voluto fare: scrivere un libro sul colonialismo italiano lavorando fianco a fianco con persone e studiosi di altissimo livello. Qualcuno ha detto – è una citazione sciocca me ne rendo conto – che i sogni sono progetti da realizzare. Io il mio sogno l’ho realizzato. Ciò detto, di solito, quando qualcun^ mi dice ‘Sto leggendo il tuo libro’, rispondo ‘salta il capitolo 2’, oggi direi ‘leggi l’introduzione e poi chiudilo, non perdere tempo. Leggiti Del Boca’. Ieri mio figlio a cena mi dice ‘hai sentito? È morto Del Boca. E adesso?’. Non sono riuscito a rispondere subito e lui ha capito il mio dolore. Alla fine ‘andiamo avanti Carlo’ gli ho detto. Ci sono tantissim^ studios^ che negli anni hanno dato contributi straordinari. L’eredità di Angelo è nei libri, nelle riviste, nei convegni, nei seminari, nelle iniziative militanti. Andiamo avanti studiando, ricercando, divulgando. Nessuno per favore in questo momento mi chieda cosa si potrebbe fare. Lasciatemi nel mio dolore. Ho solamente un rimpianto: mi sarebbe piaciuto trascorrere un pomeriggio al castello di Lisignano con Angelo, Davide e Manulo a parlare di Etiopia, di India, di Afghanistan, dell’Ossola e dei partigiani piacentini.