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domenica 20 agosto 2017

Il buco nero della rete




Annalena Benini, Quanti amici? Ha annunciato il suo suicidio su Facebook. Scambiare la vita vera con la terra di nessuno, Il Foglio, 18 agosto 2017

Arrivi a un punto della vita che ti chiedi se restare o no… io non resto…", il messaggio bianco su sfondo nero che un uomo di cinquantasei anni, istruttore di equitazione per disabili, in lutto per la madre appena morta e padre di due figli, aveva postato su Facebook la notte di Ferragosto. Con l’intenzione di annunciare il suo suicidio, avvenuto nelle ore successive, o sperando di farsi aiutare da quei quasi quattromila amici? Quattromila amici sono una folla, un paese di persone dentro le case, ma quattromila amici di Facebook possono non sfiorare mai la realtà. Sono nomi in fila uno dopo l’altro, sono persone con i canederli nel piatto in montagna e le foto dei gatti e dei figli e l’indignazione contro i politici o contro la maleducazione sulle spiagge, ma sono capaci, in questo immenso mare di relazioni in cui ognuno sceglie i codici, il grado di passione e di aspettative, di mettere un like, o un cuore, sotto le parole di un uomo che dice: ora mi ammazzo.

Non per cattiveria, ma per distrazione, più precisamente per questo dondolarsi dentro un mondo in cui non ha molta importanza che cosa è vero e cosa è uno scherzo, un gioco, un falso. Non è la verità, è la vita di Facebook, adatta a raccontare le vacanze e i ristoranti e ad arrabbiarsi tutti insieme per un cane abbandonato e per Matteo Salvini. Non è il rapporto fra due persone che si chiedono: come ti senti oggi? E’ tutto ingigantito, ma allo stesso tempo attutito, reso pallido, dalla sensazione di stare soli su un palco. Il pubblico in platea applaude a volte, ma forse sono solo manichini. Gli amici sono altrove. Quindi è insensato scandalizzarsi perché nessuno dei quattromila amici abbia pensato di dare l’allarme o di telefonare a quest’uomo di cinquantasei anni e dirgli: fermati, sto arrivando. Perché il massimo della personalizzazione, la domanda dello status di Facebook: a cosa stai pensando?, rende tutto impersonale ed evanescente. Sto pensando di farla finita. Forse è una battuta, forse è il preludio di un nuovo status sui risultati della partita di calcio, forse è una citazione colta e io non l’ho capita, forse è un altro proverbio cherokee, forse è niente, è solo Facebook.

Giuseppe Pellegrin è stato trovato impiccato davanti al maneggio di cui era presidente, a Galliera Veneta in provincia di Padova. E allora qualcuno degli amici di Facebook è corso a scrivere sotto quell’annuncio di poche ore prima: riposa in pace, la terra ti sia lieve, vola per questo lungo viaggio, qualche faccina che piange, qualche pollice alzato, sempre in pubblico, sempre sul palco di una recita di scarso successo. Giuseppe Pellegrin ha messo in quelle parole il senso e il valore delle cose che aveva dentro (il dolore, la stanchezza, il lutto, la speranza), ma ha creduto di lanciare quelle parole nel suo mondo, e Facebook non è il mondo di nessuno. E’ un posto che ci riguarda, che conosciamo, che a volte ci gratifica e ci tiene compagnia, ci informa e ci fa credere in una specie di notorietà, ci fa sentire vicino anche chi vicino non è, ci fa ricordare o scoprire i compleanni, ma è un attimo e vola via leggero come è arrivato, uno status dopo l’altro, un selfie in bikini, un tuffo dalla barca, guarda Gianluca Vacchi che combina, ecco qualcuno sta festeggiando una cresima, un premio, un anniversario, mettiamo un cuore a tutti, anche alla mia compagna di liceo e a Giuseppe Pellegrin che dice: io non resto. Non è cinismo, è una circonfusione di irrealtà che ci fa entusiasmare per tutto e stupirci di niente. Non è casa nostra, ma a volte dà conforto. Non è la vita vera, ma ci assomiglia così tanto.

domenica 26 aprile 2015

A lezione da Gianni Morandi sull'uso di Facebook

Dieci regole d'oro per l'uso delle reti sociali
Stefano Rizzato
La Stampa 25 aprile 2015  
Autoironia
 ... Morandi non ha avuto paura di mostrarsi con le rughe o in bermuda o a pallini. Dentro un negozio o in stazione. Senza pose da star e con la capacità di sorridere delle situazioni e di se stesso.

Semplicità
Niente effetti speciali, pose forzate, eccessi. Morandi di sé mostra la vita quotidiana, quella di un artista che viaggia e incontra colleghi e persone importanti, ma anche quella di un signore oltre i sessanta, che si gode un piatto di pasta o una giornata di sole.

Empatia
Fra le tante è la dote più importante, forse quella che risulterebbe più difficile da imparare. Su Facebook Morandi dimostra un'innata e sconfinata capacità di entrare in comunicazione con chi lo segue. Sempre perfettamente allineato sulle frequenze dei tempi che corrono, sulle domande che si pongono le persone comuni, sulle vere questioni dell'attualità e della vita reale.

Disponibilità
 
Costanza

Essenzialità
Il diario di Gianni è cadenzato ma essenziale, mai eccessivo nella lunghezza dei messaggi e dei contenuti. Si legge in un attimo, strappa un sorriso, non impegna.

Equilibrio
L'equilibrio, quello di una persona matura, ragionevole, piena di buon senso si nota ancora di più davanti alle critiche e agli insulti. Con il botta e risposta sui migranti l'ha dimostrato: Morandi riesce a fare quello che a pochi riesce. Non si scompone e risponde con garbo anche alle offese. Non cade nelle provocazioni e prova a trovare il buono di ogni argomentazione. Resta fermo sulle sue posizioni, a volte con ironia, con il risultato immediato di rendere palese e ridicolo ogni assolo becero.

Positività

Eleganza 

Multimedialità

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http://www.lastampa.it/2015/04/25/multimedia/tecnologia/a-lezione-da-gianni-le-regole-social-di-morandi-YQGfrU5m81nNqNfe60Vy8L/pagina.html

domenica 8 marzo 2015

L'esibizionismo digitale di massa






Carlo Bordoni


Dilaga il rito dell’intimità pubblica
Addio incontri riservati con prete e analista
Domina l’esibizionismo digitale di massa

Corriere della Sera La lettura, 8 marzo 2015

«A partire dal Medioevo, le società occidentali hanno posto la confessione fra i riti più importanti da cui si attende la produzione della verità». Tanto che l’uomo «è diventato una bestia da confessione». L’affermazione di Michel Foucault, del quale ora Feltrinelli pubblica le lezioni del 1971 per il corso al Collège de France, è ancora fatalmente attuale. Il dispositivo della confessione, come forma di autodenuncia, volontà di espiazione, liberazione dal senso di colpa e desiderio di condivisione pubblica, si è però adattato ai tempi, utilizzando i nuovi media come sostituti del sacro. Una tra le forme di spettacolarizzazione dell’intimità che la postmodernità ha introdotto, spingendo l’individuo a mostrarsi, ad autopromuoversi con disperata invadenza nel tentativo di affermarsi. E se per questo non basta Facebook, la Rete offre siti specifici (Erba del vicino, PostSecret, Insegreto, Sfoghiamoci.com) in cui rivelare il proprio intimo attraverso la sottomissione al giudizio collettivo.
Si prefigura una società a intimità diffusa, dove la condivisione della vita privata si fa valore espositivo che si misura nella quantità di like: è sempre più trendy confessare le colpe e gli episodi imbarazzanti della propria sfera personale.
Il dispositivo della confessione, inizialmente formulato dal cristianesimo come ricerca della verità del sé, fondamentale ai fini della propria salvezza, si è poi fatto strumento terapeutico nella psicoanalisi e procedimento laico riservato alla letteratura. Nel Tropico del Cancro Henry Miller dichiarava la sua motivazione alla scrittura promettendo: «Mi stenderò sul tavolo operatorio e metterò in mostra le budella». Solo all’autore era concessa la libertà, in nome dell’arte, di svelarsi in pubblico senza ritegno; agli altri conveniva esercitare la pratica della confessione privatamente. Dal sacerdote, nell’anonimato del confessionale, o sul lettino dello psicoanalista. Colloqui strettamente riservati, la cui funzione era penitenziale o terapeutica. Ma comunque sempre di fronte a un interlocutore singolo, un ascoltatore con il potere di assolvere, alla cui mercé ci si affidava nella consapevolezza che solo quella ritualità permette il sollievo. Perché la confessione è sempre una sorta di assoluzione, anche quando prevede un castigo, poiché contiene in sé il desiderio di espiare. Non a caso in tutte le legislazioni il reo confesso ottiene una riduzione della pena.
Ma come è stato possibile rompere i limiti del privato e riversare in pubblico, senza remore, ciò che appartiene alla sfera più intima dell’individuo?
Secondo Norbert Elias il «muro invisibile posto tra mondo interiore e mondo esterno» è soprattutto una questione «specifica di formazione della coscienza». Fa parte del nostro retaggio, è un fatto culturale. Come tale il mondo interiore dovrebbe restare segreto, un tabù insuperabile. Invece è stato travolto dall’imprevista corsa all’esibizione di sé, vero selfie dell’anima che si fa sempre più generalizzato e invadente. Supera i confini della decenza e, in video come sul web, appare più un coro di voci dissonanti che reclamano attenzione e chiedono con forza di essere ascoltate e riconosciute. È proprio il riconoscimento, l’attesa di una rivalutazione pubblica del sé, che muove alla confessione. Rispondere alla domanda «perché l’hai fatto?» significa a un tempo rivivere l’azione e, traducendone il fatto nelle parole, darne una spiegazione razionale per redimersi. Più che a soddisfare il bisogno inconscio di liberarsi del proprio senso di colpa e cercare la punizione, come sosteneva Theodor Reik, sulla scorta di Freud, qui si assiste alla purificazione della colpa attraverso la pubblica condivisione. Non si cerca la verità, la razionalizzazione dell’errore commesso, la sua trasposizione sul piano della parola che sostituisca l’azione e la rimuova.
L’ammissione, lo svelamento dei propri errori, delle colpe, dei tradimenti, del disamore, degli egoismi, ricerca l’approvazione pubblica, il riconoscimento della propria umanità e debolezza. Diventa una modalità di partecipazione, un rito di passaggio che sancisce l’appartenenza alla comunità. Si dissolve così ogni rapporto di potere, da quello che costringe a confessare, persino sotto tortura, a quello che s’instaura col confessore. L’assoluzione non è più data da un singolo, sia esso il giudice, il prete o il medico analista, ma da una moltitudine di pari che assorbe, ingloba il nuovo e se ne rafforza.
L’odierna pratica della confessione pubblica attraverso i media si potrebbe allora configurare come una riammissione nel corpo della comunità, quasi un aggiornamento dell’ exomologesi , cioè di quella drammatica rivelazione di sé attraverso la quale il peccatore chiede di essere riaccolto nella Chiesa.
Resta l’ambiguità che nella confessione risieda il vero, quale presupposto della libertà: invece della liberazione c’è il rischio di essere presi in trappola da un potere senza volto, la cui forza può essere distruttiva. Converrà, in fondo, seguire il suggerimento dello stesso Foucault, espresso un decennio più tardi in Mal fare, dir vero , e che suona come un tentativo di difesa a oltranza dell’individualità: «Non confessare mai!».