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domenica 10 agosto 2025

Marx ibrido


Alfonso Berardinelli, Riecco Marcuse. E ha ancora qualcosa da dirci Ritratto di un “filosofo-guru” delle rivolte studentesche mentre viene ripubblicato un suo saggio. Oggi è dimenticato, ma parlò di fenomeni che continuano ad affliggerci Venerdì di Repubblica del 23 ottobre 2020

Herbert Marcuse? Solo alcuni ricordano chi è stato: un filosofo ebreo tedesco emigrato nel 1934 dalla Germania nazista negli Stati Uniti, che negli anni sessanta del secolo scorso divenne così famoso da essere accostato a Marx e Mao Tse-tung come maestro di rivoluzione. Eppure da tempo non solo è dimenticato, sembra quasi innominabile.
Il fatto che oggi si riprenda a pubblicarlo (il Mulino ha riproposto Ragione e rivoluzione) si potrebbe interpretare così: la sociologia e la teoria politica sono in un tale stato di debolezza filosofica e di incapacità sintetica che forse i libri di Marcuse potrebbero rianimarle con la loro ricchezza di implicazioni culturali.
Rifiutato da sinistra Negli anni del suo maggiore successo di pubblico il marxismo libertario di Marcuse, mescolato con la psicoanalisi, l’ontologia esistenziale e l’utopismo estetico dell’arte moderna, non piacque molto a una Nuova sinistra convinta che il solo e più urgente problema fosse il salto dalla teoria alla prassi, dalla conoscenza all’azione. I marxisti militanti o di professione non tolleravano che la “scienza” di Marx venisse ancora mescolata con la dialettica idealistica di Hegel, né con la teoria degli istinti repressi dalla civiltà formulata da Freud.
Ricordo che nel 1967 il marxista scientista Lucio Colletti, allora vicino al trotzkismo, liquidava sprezzantemente Marcuse come inattendibile e confusionario, mentre il teorico del più puro “operaismo”, Mario Tronti, alludeva nauseato a «gente come Marcuse, che parla della felicità e di cose ancora più sporche».
L’uno e l’altro avevano in mente la politica, dimenticando la società. Credevano che in Marx, un secolo prima, ci fosse tutto ciò che della società bisognava sapere. Per loro il marxismo non poteva avere bisogno di correzioni e di ibridazioni, era in ogni senso definitivo e insuperabile.
Per quanto strano possa sembrare, il tema di allora era l’attualità della rivoluzione sia nell’Occidente sviluppato che nel Terzo mondo, un’idea che dalla fine del Settecento in poi era diventata il centro magnetico e l’ossessione di ogni cultura e politica. L’illuminismo francese, il romanticismo politico, la narrativa russa, le avanguardie artistiche novecentesche e ogni utopismo e messianismo morale e filosofico avevano prospettato o presupposto l’idea di una trasformazione radicale della società e della vita. Marcuse non aveva mai smesso di mettere in conto questa grande e tumultuosa corrente culturale in cui estetica e politica, esistenza e produzione si implicavano l’una con l’altra come negli scritti giovanili di Marx.
Per questo, il sessantenne Marcuse rappresentò teoricamente i movimenti anticapitalisti e antiautoritari degli anni sessanta più fedelmente che non i giovani marxisti neo-ortodossi. Marcuse non separava Marx e Rousseau, Freud e Weber, Schiller e il surrealismo. I neomarxisti dottrinali non vedevano altro che lotta fra classi sociali contrapposte e predefinite. Marcuse vedeva nel capitalismo avanzato una trasformazione dell’umano, una nuova antropologia “unidimensionale” che permetteva l’amputazione indolore di ogni prospettiva di cambiamento sia nel modo di vivere che nella dislocazione del potere. La fama di Marcuse fu dovuta soprattutto a due libri, Eros e civiltà (1955) e L’uomo a una dimensione (1964), in cui più che di proletariato si parlava di psiche e di ideologia, di tecnocrazia e di “paralisi della critica”.
Tempestivo e preveggente Come Max Horkheimer e Theodor Adorno, i “francofortesi” con cui aveva collaborato prima in Germania e poi in America, anche Marcuse non è mai stato un pensatore politico. Quella che offriva al lettore era una diagnosi sociale e culturale, non una terapia programmatica e attivistica. L’errore prevalente dei suoi critici è stato di cercare in Marcuse quello che non c’era, portandoli a sottostimare la pregnanza e validità storica delle sue analisi.
L’uomo a una dimensione è stato in realtà un libro sia tempestivo che preveggente. Basterebbe la genialità del suo titolo a orientare anche oggi una riflessione sul mondo e sul modo in cui viviamo. Vi si parla di “desublimazione repressiva” da cui è investita l’alta cultura, amministrata come “patrimonio” o “democratizzata” come intrattenimento di massa e risorsa commerciale. Vi si parla di tecnologia come “strumento di politica distruttiva”, di psicoterapie come semplici scuole di adattamento e di apparati produttivi che producono non solo merci, ma gli individui più adatti a produrre e consumare quelle merci.
Società, cultura e esseri umani unidimensionali, universo politico bloccato da false alternative, filosofie e arti prive di forza critica e antagonistica, sono fenomeni che tuttora ci affliggono. Gli anni sessanta sono lontani, ma ancora una volta e più che in passato abbiamo a che fare con un’estrema difficoltà a far emergere tendenze sociali liberatorie e non distruttive, da sottrarre al dominio delle istituzioni e alle nuove forme di lavoro alienato. Lavoro che non è più lavoro, è sorveglianza che garantisca il buon funzionamento di macchine sempre più sofisticate e complesse.
Dove cercare oggi le energie necessarie per passare da una teoria critica della società a una politica critica? Al totalitarismo dolce, inavvertito, efficientistico e narcotico dei nuovi media informatici nessuno sembra avere l’istinto di ribellarsi. L’uomo unidimensionale del Duemila preferisce una “servitù volontaria” ai rischi di un’alternativa. Ma se è così, a cambiare la nostra vita sociale saranno solo crisi economiche inaspettate, emergenze sanitarie e catastrofi ambientali.

lunedì 7 ottobre 2013

Massimo Recalcati, Una domanda latente di pausa

Massimo Recalcati
La  stanchezza dell'Occidente
la Repubblica, 6 ottobre 2013

L’esaurimento è una reazione alle sirene dell’edonismo esasperato che produce anche la precarietà sociale ed economica Il fenomeno nasce dal “principio di prestazione”, che costringe la vita a essere “produttiva” e l’individuo ad affermare se stesso. Recentemente il sociologo coreano Byung-Chul Han ha proposto l’immagine della stanchezza come chiave interpretativa della nostra epoca. Qualcosa si è esaurito, è scaduto, è divenuto privo di forza. In contrasto solo apparente con questa stanchezza di fondo il nostro tempo sembra sostenuto da una corrente eccitatoria permanente. Come intendere questa oscillazione bipolare tra frenesia e stanchezza? Tutti ci lamentiamo di come il tempo della nostra vita sia incostante accelerazione. Rocco Ronchi per definire questa tendenza ha evocato l’immagine della “mobilitazione generalizzata” con la quale Ernst Jünger aveva definito il tempo caotico della prima guerra mondiale. La nostra mobilitazione permanente non ha però come bussola la difesa del suolo, dell’identità, dei confini. Noi non abitiamo piuttosto il tempo della liquefazione di ogni identità, della contaminazione, della globalizzazione, della relativizzazione di tutti i confini?
Questo significa che l’attuale mobilitazione in cui tutti siamo coinvolti non ha un obbiettivo fuori dalla riproduzione di se medesima. Siamo tutti stanchi e al tempo stesso tutti mobilitati. Siamo bipolari, costretti a servire un principio di prestazione inflessibile e superegoico per poi riconoscerci esausti, sfiniti, senza più risorse. Questo paradosso lo indicava già Heidegger nella sua diagnosi del nichilismo occidentale: il nostro tempo è il tempo della riduzione del mondo a pura risorsa da sfruttare illimitatamente. In questo senso la nostra stanchezza rivela la verità dell’iperattivismo che non affligge solo le vite dei bambini occidentali ma, ben più radicalmente, la vita stessa dell’Occidente. La vita è esausta, spossata, afflitta da una stanchezza reattiva alle sirene dell’iperedonismo che, non dimentichiamolo, produce anche la precarietà sociale ed economica che è il vero volto dell’Occidente sotto la maschera della sua giostra maniacale. Marcuse aveva già messo in luce come il capitalismo avesse trasfigurato il principio freudiano di realtà nel principio di prestazione. Una nuova forma di alienazione si delineava: non solo quella relativa allo sfruttamento della forza lavoro – secondo lo schema marxista –, ma quella di una nuova forma di oppressione della vita costretta ad essere necessariamente produttiva, liberata dai vincoli oscurantisti della tradizione, ma asservita ad un nuovo padrone: la necessità della affermazione ad ogni costo della propria individualità. Ebbene, la stanchezza che ci affligge oggi non mostra forse il limite di questo mito antropologico? Non mostra la corda del sogno narcisistico di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a prescindere da quello dell’Altro?
Facciamo due soli esempi. Il primo è quello del disagio giovanile che non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma per uno spegnimento del sentimento della vita. Al centro non è più il disagio tra la giovinezza che avanza le sue esigenze di trasformazione del mondo e l’ordine granitico dell’esistente, ma il disagio di un vita spenta, stanca, lontana dal desiderio. I sintomi attuali degli adolescenti che si rivolgono allo psicoanalista (violenza, alcoolismo, tossicomanie, dipendenza dall’oggetto tecnologico, anoressia, bulimia, isolamento, ecc.) hanno questa radice in comune: non scaturiscono più dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di affaticamento del desiderio stesso. La vita che dovrebbe sbocciare nel tempo della sua primavera tende a contrarsi, a chiudersi su se stessa, a ripiegarsi. Questo movimento regressivo contrasta solo apparentemente con l’esaltazione maniacale di cui si nutre la nostra Civiltà poiché, in realtà, è solo l’altra faccia di quella medaglia.
Il secondo esempio riguarda uno dei grandi simboli dell’Occidente; è la stanchezza di Benedetto XVI che, sfinito, lascia il suo posto mostrando il volto umano del rappresentante ideale e normativo di Dio in terra. Cosa vi possiamo leggere? Non solo un dramma interno alla Chiesa Cattolica e alla necessità di un suo profondo rinnovamento. Esso rivela una stanchezza profonda nella vita di tutte le istituzioni che non sembra più in grado di essere animata da passioni profonde. Il senso religioso della vita e quello laico della polis sembrano entrambi esauriti. Si pensi solo alla stanchezza che avvolge la politica come tale. In questo tornante non è in gioco l’esperienza della perdita di tutti i valori, lo spettro minaccioso del nulla, della morte di Dio come accadde alle soglie del Novecento. Oggi quel grande smarrimento ontologico lascia il posto al frastuono della vita spensierata, all’homo felix dedito alla ricerca compulsiva della “sensazione”, prigioniera della idolatria degli oggetti, integralmente esteticizzata. Al centro non v’è più il nulla che minaccia l’essere, ma un troppo pieno che ottunde, un eccesso di presenza, una mancanza della mancanza, come direbbe Lacan.
Eppure questa ultima grande crisi economica mostra tutti i segni della gravissima patologia che affligge l’Occidente. Siamo in un punto di snodo: dobbiamo provare a leggere la stanchezza attuale dell’Occidente non solo come l’effetto di una disillusione fondamentale delle false promesse di felicità del capitalismo, ma anche come una domanda di un altro mondo possibile. L’uomo dell’Occidente è un uomo stanco della vita o di questa vita? Dovremmo provare a leggere in questa nostra stanchezza non solo una caduta depressiva della vita, ma anche l’esigenza di un’altra vita. Essa contiene già in sé una domanda latente di pausa, di sconnessione dalla connessione perpetua a cui siamo “obbligati”, contiene già una esigenza positiva di silenzio.