venerdì 28 febbraio 2025

L'essere non è, il politeismo richiede un pensiero



Michele Silenzi
Non si parla più di "pensiero debole", e non è detto che sia un bene
Il Foglio, 28 febbraio 2025

Oggi non si parla più di “pensiero debole”, tema molto fino a qualche anno fa. E se da un lato può essere una fortuna, dall’altro è un peccato perché riflettere su quella prospettiva è piuttosto stuzzicante per provare a capire qualcosa dei fenomeni politico-culturali correnti. Quando, quarant’anni fa, uscì il volume curato da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti intitolato appunto Il pensiero debole, il panorama politico era radicalmente diverso ma risultava già chiaro un certo panorama esistenziale di cui quel libro, in maniera più o meno discutibile, forniva un’interessante interpretazione. Scriveva Rovatti: “Che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero ‘forte’ è ormai insostenibile?”.

Il pensiero debole non nasceva per contrapporsi al “pensiero forte” ma assumeva che il pensiero forte inteso in senso tradizionale (tomista, o razionalista, ossia che affermava la corrispondenza tra il mondo e il disegno che la ragione forniva di quel mondo) fosse ormai tramontato per sempre, e con esso tutte quelle strutture storiche su cui l’occidente si era edificato. Il tentativo del pensiero debole era quindi fornire una cornice teoretica per capire “come vivere” nel momento in cui non vi era più “un testo a cui uniformarsi”. Tuttavia, il pensiero debole, proprio perché un pensiero radicato in una sofisticata elaborazione intellettuale era, paradossalmente, “forte”, ossia nasceva da una chiara visione di cosa fosse il mondo, o, almeno, di cosa non fosse.

Nel suo saggio introduttivo, Vattimo, grande interprete di Heidegger, delinea un’ontologia in cui spiega chiaramente come ciò che viene indicato come “morte di Dio” è che “l’essere non è”. Con una tale prospettiva si supera tutta quella tradizione lunghissima che, per stare ai manuali scolastici, inizia con la formula parmenidea secondo cui “l’essere è e il non essere non è”. Dicendo, invece, che “l’essere non è” non si vuole dire altro se non che non vi è alcun fondamento ma solo fenomeni, anzi, solo diverse interpretazioni dei fenomeni che possono anche essere valide contemporaneamente. E che possono legittimamente confrontarsi e procedere insieme fino alla successiva biforcazione: scissione da cui partono nuove interpretazioni. Allo stesso tempo, però, le interpretazioni, per capirsi tra loro, devono avere un terreno comune costituito da una pietas per le rovine della storia, per ciò che la storia ha scartato, ha messo da parte: per tutto ciò che non è la Storia trionfalmente progressiva raccontata dai vincitori.

Un tale pensiero è tutt’altro che superficiale o poco sofisticato, anzi, ciò che Vattimo delinea è la necessità di un pensiero capace di leggere in maniera positiva la dissoluzione di un modello ontologico millenario: ciò che, stancamente, si definisce “il tramonto dell’occidente”. L’indebolimento dell’idea di una Storia unitaria e razionale, della dissoluzione degli assoluti tanto metafisici quanto politico-sociali-religiosi, non rappresentano per Vattimo la totale e straniante deprivazione di senso dell’esistenza ma (e qui sta il twist brillante e discutibilissimo) il senso effettivo della fase storica attuale, della nostra esistenza. E in questo smarrimento, nella prospettiva del pensiero debole, occorre trovare pratiche di vita informate dalla pietas per le rovine di quella è stata la Storia con i suoi assoluti tramontati.

E’ evidente come questa sia una costruzione piuttosto articolata, ma è chiaro, soprattutto, come alla base di una simile filosofia vi è un’idea ben precisa di mondo e di cosa sia, o non sia, l’essere (ossia la condizione di possibilità di tutto ciò che è). Questo orizzonte filosofico ha dato vita a una serie di scimmiottamenti e di dozzinali relativismi che hanno pervaso tutta quella sfera politica e intellettuale che possiamo generalizzare con il nome di “progressismo”. Un tale rischio è naturale quando si crea uno slogan indubbiamente felice e fortunato per descrivere una costruzione filosofica, ed è senza dubbio il caso della formula “pensiero debole”. Il fatto è che la sloganistica in cui si è diluito e perduto tale pensiero (destino forse inevitabile!) è divenuto un pensiero, se ancora si può chiamare tale, non più debole, bensì fiacco, inebetito e parolaio. Ed è divenuto tale perché è privo di presa sulle cose reali. Ciò è avvenuto perché la sloganistica in cui si è disperso il pensiero debole, e la politica “progressista” che si è costruita su quella sloganistica, non ha più un’idea di cosa sia il mondo, non ha più uno sguardo sul mondo. Detto in maniera più sofisticata: non ha un’idea di “essere” su cui poggiarsi. Ma ciò, concretamente, significa che non si può “cambiare il mondo”, o quantomeno provare a spingerlo nella direzione che si desidera “politicamente”, se non si ha idea di cosa il mondo sia, di cosa si vuole che sia, e di cosa esso possa quindi diventare.

L’idea di Vattimo, per quanto interamente contestabile, era potente e intrigante per fornire un orizzonte interpretativo a una sinistra cosiddetta post marxista, ma è franata alla prova pratica della storia. Nulla di strano, capita alla maggior parte delle idee che si scontrano con il mondo. Ma avere un’idea e provare a diffonderla è già combattere la buona battaglia. Del resto il mondo emerge e si dà forma attraverso tentativi ed errori. Invece, la cosa attraente del progressismo contemporaneo, attraente, si fa per dire, perlomeno per chi guarda come semplice osservatore, è che non ha neppure un’idea (più welfare, più diritti, più tutele, più green, più… non è un’idea). Senza una filosofia, senza una “proposta di mondo” (sia pure quella di renderlo debole), non esiste alcuna costruzione politica, e quindi nessuna capacità di persuadere della propria idea. Del resto, come farlo se non se ne ha neppure una?

giovedì 27 febbraio 2025

Ebrei italiani contro la pulizia etnica



"Trump vuole espellere i palestinesi di Gaza. Intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani. Ebree ed ebrei italiani dicono: No alla pulizia etnica, l'Italia non sia complice".
Seguono le firme di duecento ebrei italiani 
Tra gli altri Dunia Astrologo, Marina Astrologo, Giorgio Canarutto, Anna Chiarloni, Renata Colorni, Bruno Contini, Elio De Capitani, Donatella Di Cesare, Silvia Finzi, Anna Foa, Bice Fubini, Federico Fubini, Giovanna Garrone, Siegmund Ginzberg, Alessandra Ginzburg, Carlo Ginzburg, Davide Lerner, Gad Lerner, Stefano Levi Della Torre, Simon Levis Sullam, Guido Ortona, Tamar Pitch, 
Roberto Saviano, Nadia Yedid, Filippo Zevi

Maria Novella De Luca  Zita Dazzi
Gaza, polemiche sull'appello dei 200 ebrei italiani contro "la pulizia etnica"
la Repubblica, 27 febbraio 2025

Commenta più pacatamente Daniela Gean, presidente Beth Hillel, comunità ebraica progressiva di Roma, che non ha firmato l’appello, ma ne condivide l’intento: “Credo che sia diritto di ogni ebreo o ebrea esprimere la propria opinione privatamente o pubblicamente su quello che pensa di questa situazione tragica. Alcuni si sono sentiti feriti dal fatto che il comunicato sia uscito lo stesso giorno del funerale dei poveri bimbi Bibas e della madre, ma forse ogni persona esprime il proprio pensiero proprio perché non vuole più funerali di innocenti, nè da una parte né dall'altra. Se la stessa famiglia Bibas non ha voluto rappresentanti politici e ha voluto un funerale in forma privatissima, vuol dire che qualcosa si é rotto nel popolo israeliano, un senso di fiducia e di coesione che é alla base di qualsiasi nazione e che é obbligo di ogni ebreo cercare di ricostruire. Ognuno trova il suo modo. Dobbiamo semplicemente accogliere tutte le opinioni con rispetto”.

Ucraina. La leggenda della guerra per procura





Andrea Lavazza
"Putin era pronto a concessioni". Perché fallì il negoziato nel 2022
Avvenire, 16 febbraio 2024

I negoziati di pace tra Russia e Ucraina avviati dal 28 febbraio 2022 (a 4 giorni dall’invasione delle truppe di Mosca) erano molto più vicini a un accordo di quanto potesse allora apparire, e forse non c’è stato un unico elemento che li ha fatti poi fallire. Di certo, non fu un intervento dell’allora premier britannico Boris Johnson, come spesso sostenuto dal Cremlino, anche se l’Occidente rimase tiepido dinanzi alla trattativa. Quello che si può imparare da quella vicenda, ora rivelata in dettagli inediti da una ricostruzione degli storici e analisti politici Samuel Charap e Sergey Radchenko su Foreign Affairs, è che anche Putin era pronto, almeno fino alla vigilia di un potenziale incontro con Zelensky, a "concessioni" importanti (non dimenticando che era ed è l'aggressore).


I colloqui che avrebbero potuto porre fine alla guerra in Ucraina

Una storia nascosta di diplomazia che non ha funzionato, ma che contiene lezioni per i negoziati futuri

Foreign Affairs,16 aprile 2024


In questo articolo mostreremo come, sulla base delle informazioni fino ad oggi disponibili, questa tesi in tutti i suoi aspetti risulti infondata dal momento che:

La narrazione della ‘pace sabotata’ è stata promossa dai media di regime russi e dal Cremlino stesso nel tentativo di imputare la responsabilità della guerra all’Ucraina ed ai suoi alleati. Il fallimento dell’accordo è a volte attribuito all’intransigenza ucraina, altre alle pressioni occidentali, in particolare degli ‘anglosassoni’ (Regno Unito e Stati Uniti), per usare il gergo del Cremlino. Queste due tesi, sebbene contradditorie, soddisfano in realtà la necessità di puntellare due diverse correnti nella campagna di disinformazione russa: quella che vuole l’Ucraina come responsabile del conflitto e quella che la dipinge invece come ostaggio e vittima di una ‘guerra per procura’ occidentale contro la Russia.

  1. Nonostante le negoziazioni avessero fatto dei progressi, non è affatto vero che le parti fossero pronte o vicine a firmare un accordo.
  2. La bozza, o meglio le bozze, del presunto accordo oggetto di negoziazioni erano tutt’altro che esaustive e tralasciavano molte delle questioni cruciali, inclusa quella territoriale.
  3. Il fallimento delle trattative ha avuto poco a che fare con un presunto sabotaggio occidentale e sembra invece il risultato dell’incompatibilità delle posizioni delle parti, della malafede dimostrata da parte russa, e della debolezza delle condizioni e garanzie messe sul tavolo.
  4. Le presunte condizioni offerte all’Ucraina non erano particolarmente favorevoli e sembrano non esservi ragioni per sostenere che fossero migliori allora di quanto sarebbero [state] in un’ipotetica trattativa futura.
https://www] .liberioltreleillusioni.it/articoli/articolo/davvero-i-negoziati-fra-russia-e-ucraina-furono-sabotati-dalloccidente-tra-realta-e-propaganda?fbclid=IwY2xjawItIzBleHRuA2FlbQIxMAABHRc6kcM75O-Qv72CPqTnj_LyR2I6qRgmUGP3P-Dzt-9Mp8rjBTIk3efRjg_aem_Dnc2jucaJ0KGzFTmg9X_1g

Calvino, la leggerezza abusiva



Ilaria Gaspari, Salviamo Calvino dalla leggerezza
La Stampa, 27 febbraio 2025

Lo sento dire da tutte le parti, lo si ripete ovunque. La leggerezza è fondamentale!, Ci vuole un po’ di leggerezza, altrimenti… – non c’è nemmeno bisogno di finire la frase. Altrimenti soccombiamo, altrimenti non ci resta che l’orrore del presente. Altrimenti ci annoiamo, altrimenti ci arrabbiamo. Io della leggerezza sono una grande sostenitrice; sono stata una bambina mingherlina e malinconica, caratteristiche che mi hanno presto incoraggiata a scoprire il potere dell’allegria, lo scalpiccio che spinge verso l’alto chi conosce troppo bene ugge e paturnie, chi avverte il peso del mondo in forma di malumore e sa la forza attrattiva della gravità perché ogni tanto si sente scivolare verso pozzi invisibili in cui cadrebbe, se non fosse appunto per quello scarto imprevisto. È lo slancio della leggerezza, ginnastica dell’umore che non corregge la scoliosi ma aiuta a ridere anche di quella, e così ti costringe a sollevare le spalle un po’ curve e, ancora, a vincere la gravità. Non conoscerei questo slancio se non fossi attratta dalla pesantezza; non conoscerei l’allegria, se non sapessi essere triste. La parola allegria ordisce questo garbuglio dialettico nell’etimologia che l’annoda all’aggettivo alacer: alacre, come chi si premura di mantenersi in movimento, l’unico modo per stare in piedi fra le nuvole. Insomma, sono una fautrice e una praticante della leggerezza. Eppure, quando la sento invocare come qualità essenziale, necessaria, imprescindibile, per vivere, pensare, esistere nella maniera migliore, la più auspicabile (da chi, poi? Forse dalla generica estetica pubblicitaria che ammanta le nostre vite nel tempo che ci vuole fotogenici dentro e fuori)… ecco, di fronte a questi appelli, dentro di me scatta una dissonanza. Sottile, ma distinguibile. Mi sento a disagio: perché?

Sicuramente per via della mia abitudine a spaccare il capello in quattro. Prescrivere di essere leggeri è come prescrivere la spontaneità. Ovvero un atteggiamento che non si può imporre né simulare. Mi sembra un’indicazione ingenerosa nei confronti della grazia gentile della leggerezza: la grazia non si può falsificare. Ma c’è dell’altro. Per esempio, il fatto che prima di questo momento di gloria, la leggerezza è stata a lungo bistrattata da una reputazione discutibile: in una notevole convergenza fra pregiudizi misogini e diffidenze nei confronti di tutto ciò che, lieve, si contrappone alla gravitas più profonda e professorale, fino a non molto tempo fa accusare una donna di essere leggera era una forma di scherno, una contumelia tanto più volgare per via della forma elegante, tesa a mettere in luce comportamenti considerati poco virtuosi, volubilità capricciose che, grazie al cielo e a oltre un secolo di lotte femministe, oggi hanno cambiato segno e ci appaiono sintomo di carattere e di vitalità. Ma è ancora relativamente vicino il tempo in cui l’etichetta di leggera (o leggerina, o leggerotta), funzionava da congegno di controllo di condotte, corpi, desideri.

Non sarà dunque che l’urgenza di spennellare leggerezza a destra e a manca sia un tentativo di ammenda per i tanti torti che ha subito? Quella che conosce oggi è vera gloria, o nasconde un equivoco simile a quello che per troppo tempo l’ha confinata al rango d’ingiuria?

E qui vengo al malinteso che credo sia la vera causa della mia sensazione dissonante di fronte agli elogi di quest’adorabile qualità aerea. Al centro c’è una frase che compare con frequenza impressionante, quando si parla di leggerezza: sui social, nei monologhi televisivi, nelle recensioni di libri, nelle conversazioni. Una frase che si cita attribuendola a Calvino, addirittura situandola nelle sue Lezioni americane; solo che non compare nelle Lezioni americane, e non è nemmeno una frase di Calvino. La frase la conoscete: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».

È una parafrasi della prima delle Lezioni americane - dedicata, in effetti, alla leggerezza - a opera di un’autrice di Cuneo, Mattea Rolfo, che non ha nessuna responsabilità nella mistificazione: semplicemente, quella sua glossa al testo calviniano, come una bottiglia dispersa nel mare della rete è finita nel vortice delle condivisioni sui social, che ne hanno decretato il successo trasfigurandone l’origine, senza che di controllare la fonte si prendesse la briga nessuno, o quasi. Giovanna Calvino, la figlia di Italo, aveva segnalato già anni fa, proprio via social, i suoi dubbi sull’autenticità della frase, e la vicenda della citazione apocrifa, ricostruita con divertita acribia filologica da Giuseppe Regalzi, è ricapitolata nei dettagli da Luigi Bruschi nel suo blog “La città invisibile”. Colpisce, però, che malgrado l’aforisma sia stato da più parti indicato come spurio, lo si continui a citare con entusiasmo e, senza dubbio, con molta leggerezza. Le ragioni del successo della massima coincidono, credo, con quelle della mia diffidenza. Laddove la riflessione di Calvino sulla leggerezza è una riflessione di poetica, la parafrasi trasferisce il discorso dal piano letterario a quello puramente esistenziale. Ma Calvino nelle Lezioni riflette sul lavoro autoriale, non dispensa consigli di vita: consigli di cui, come rivela il successo dell’apocrifo, oggi siamo tanto affamati da precipitarci a raccoglierli senza concedere alla letteratura la possibilità di rimanere un gioco che proceda non per prescrizioni, ma per sottrazioni di peso.

Soprattutto, penso che se fossimo davvero capaci di leggerezza, sapremmo distinguerla, senza bisogno di giustificazioni, dalla superficialità. Sapremmo che non esiste baritonale intonazione di profondità che valga quanto la magnifica, lieve sprezzatura del non prendersi sul serio, dell’osare essere gentili, aerei, lievi, anche guardando in faccia quello che ci spaventa.

https://machiave.blogspot.com/2025/03/cosa-resta-di-calvino.html

mercoledì 26 febbraio 2025

Il tempo immobile di Casorati




Chiara Gatti, Il caos calmo di Felice Casorati, la Repubblica, 26 febbraio 2025


Milano – Il tempo non esiste per la fisica teorica e neppure per Felice Casorati. Il tempo, per il grande pittore italiano, maestro assoluto dell’attesa e dell’oblio, è un’esperienza interiore, è la forma del nostro percepire il mondo e ciò che si agita nel cuore. Il resto è silenzio. Per questo le sue mele non marciscono, gli sguardi delle sue donne eteree si perdono nel vuoto, la polvere si ferma in sospensione e i bambini, sotto le frange sforbiciate, non invecchiano mai. «Quanta poesia nelle cose immobili!» confessa all’alba del 1912, stregato da portagioie celesti, collane di corallo e da quelle scodelle bianche che diventeranno l’icona muta e potente dei suoi enigmi quotidiani.

Si percorre così, in uno stato di rapimento vagamente sensuale, la mostra dal titolo nudo e puro Casorati, allestita al Palazzo Reale di Milano (fino al 29 giugno), prodotta da Marsilio e curata da Giorgina BertolinoFernando Mazzocca Francesco Poli, massimi studiosi dell’artista di Novara, classe 1883, morto a Torino nel 1963 dopo aver attraversato mezzo secolo e i suoi stravolgimenti: il vortice delle avanguardie storiche dichiarandosi antifuturista; il primo conflitto combattendo sulla frontiera del Tirolo; poi il ventennio e il secondo conflitto aggrappandosi alla lezione del passato per sfuggire ai drammi del presente.

Davanti alla realtà di cristallo di oltre cento opere, tutti capolavori, fra dipinti, sculture e incisioni della stagione simbolista, si capisce come il suo tacere sia un caos calmo, una fuga non spostandosi di un metro e anche un atto di accusa che striscia in sottotraccia, rispondendo alla retorica di regime con «la dolente malinconia del nostro tempo», come dirà l’amico scrittore e pittore Carlo Levi in un articolo struggente all’indomani della sua scomparsa.

L’andamento cronologico accompagna lungo la sua ricerca, indagando nel dettaglio ogni passaggio e debito. Gli esordi dal gusto liberty di un ragazzo autodidatta cui scoppia nel petto «il demone della pittura», studiando Botticelli e Kandinskij, sono superati dall’attrazione fatale per l’estetica decadente dei “salottini in disuso” alla Gozzano. Ecco allora le figure allegoriche delle quattro Signorine, acquistate dal Comune di Venezia in Biennale per destinarle a Ca’ Pesaro, seminare oggetti come sciarade su un tappeto di fiori secessionisti, mentre stelle cupe e baci avvinghiati, eredi di Klimt, stillano uno spirito dannunziano e onirico in pezzi strepitosi della giovinezza come La via lattea del 1915, sintesi lirica di «notti popolate da “esseri invisibili”, “spiriti” e “allucinazioni”».

Frequentando le Biennali di Venezia, assorbe il succo delle novità in circolo, vivendole come luogo di dialogo e scoperta; la stessa cerchia di Ca’ Pesaro è densa di stimoli, visto il confronto coi colleghi Arturo Martini o Ubaldo Oppi. Muovendosi fra Verona (dove allestisce l’atelier in una sala da ballo), Torino (alla Promotrice) e Roma (in Quadriennale) la sua strada si intreccia a quelle di de Chirico Carrà, i dioscuri della Metafisica, la poetica dell’eternità rappresa in un manichino, destinata a segnare il periodo maturo delle sue «nature morte artificiali», così definite da Lionello Fiumi nel 1919.

Le famose scodelle o le uova algide di Casorati – amatissime dall’amico antifascista Piero Gobetti – sono infatti solidi geometrici, architetture minime, tanto quanto le bottiglie di Morandi. Con la differenza che sulle bottiglie scorre il tempo scandito dalle ombre, mentre le uova che Felice ruba alla Pala di Brera di Piero della Francesca o alle ceste di Cézanne (ammirato in Laguna nel 1920), sono moduli per misurare e trasfigurare lo spazio.

Rinascimento e astrazione si toccano pure nei nudi fanciulleschi (La donna e l’armatura, visione erotica) ma, più che mai, nei ritratti ipnotici. Silvana Cenni è una madonna, una sfinge, un oracolo, una dea. È una figura immaginaria, custodita gelosamente nello studio di Torino e adesso allestita a due metri d’altezza per acuire la prospettiva del pavimento che s’arrampica verso un paesaggio ispirato al Quattrocento, come lo sono i davanzali memori di Antonello o di Bellini, nei mezzi busti di Cesarina Riccardo Gualino.

Lui, imprenditore e mecenate, commissiona a Casorati il progetto per un teatrino nel suo palazzo torinese, prima di finire al confino per via delle critiche espresse alla politica economica di Mussolini. È il 1931: nello stesso anno il “suo” critico Lionello Venturi migra a Parigi per aver rifiutato il giuramento dei docenti al fascismo, mentre Casorati sposa l’allieva inglese Daphne Maugham (nipote del grande scrittore Somerset) giusto un mese dopo il rogo al Glaspalast di Monaco, sede dell’Esposizione internazionale, che riduce in cenere nove sue opere capitali, fra cui Lo studio, presentato alla Biennale del ’24 in una sala personale oggi ricostruita coi pezzi superstiti. Fra questi, spicca il Meriggio, dove tre corpi spogli sono assopiti fra coperte di panno. «L’immobilità delle figure ancora perfetta non è più assoluta...» spiega egli stesso in una conferenza del 1943 all’Università di Pisa.

La coscienza dell’epoca tragica sembra riattivare improvvisamente il tempo, che ora fluisce sulla pelle tradito dai raggi di sole.

Il vero e il falso


Margherita Marvulli, Storie per credere alla storia, Corriere della Sera, 26 febbraio 2025

Alcuni saggi sono come spiragli. Non pretendono di esaurire il proprio oggetto, né di offrirne una rappresentazione sommaria. Socchiudono piuttosto una porta, dal cui uscio si intuisce uno spazio che non afferriamo del tutto ma di cui percepiamo la vastità. Appartiene a questa tipologia Cambiare la storia. Falsi, apocrifi, complotti di Adriano Prosperi, di recente uscito nelle «Vele» Einaudi (collana che, a suo merito, conta al proprio interno molti simili «spiragli»): una riflessione che si sviluppa a partire da quattro falsi celebri per affrontare l’immenso tema del senso della ricerca storica. Infatti, se «la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità è quello che si chiede allo storico», come scrive l’autore nelle prime righe, emerge qui che le categorie del vero e del falso sono molto più ambigue e problematiche di quello che sembra quando si tratta di determinare l’oggettività di un «fatto storico». Problema non da poco, se dall’accertamento e dalla combinazione di tali «fatti» ci si attende l’agognata «verità».

Il discorso di Prosperi comincia da quello che è considerato il «falso dei falsi, la madre di tutti i falsi»: il Constitutum Costantini (l’editto, datato 315 d.c., con cui l’imperatore Costantino, guarito dalla lebbra dal battesimo di Papa Silvestro, gli offre in dono la parte occidentale dell’impero, con Roma, e le insegne del potere). Documento sensibile, perché ha costituito la base giuridica per l’affermazione del potere temporale del papato. Già attaccato nella sua legittimità (secondo i critici, né l’imperatore aveva il diritto di alienare territori e poteri spettanti all’impero, né il pontefice, in quanto guida spirituale dei credenti, diritto di riceverli) fu duramente contestato anche nella sua autenticità dall’umanista Lorenzo Valla nella sua orazione De falso credita et ementita donatione Constantini (1440). Il suo esame è innovativo perché si avvale non solo di argomenti che confutano la validità formale e la plausibilità storica della donazione, ma cerca (e trova) la prova decisiva in elementi interni di natura testuale. Rileva una serie di anacronismi che dimostrano senza ombra di dubbio come quel documento non possa essere attribuito al IV secolo d.c.: il suo latino è pieno di barbarismi e si fa menzione di istituti evidentemente non dell’epoca. La Chiesa tentò di silenziare la Declamatio ma alla fine giustizia fu fatta: nella donazione fu riconosciuto un apocrifo e il testo di Valla segnò l’atto di nascita della filologia come libero esercizio della critica — e dunque dell’intelligenza razionale — contro «canonisti e teologi», vale a dire contro il principio di autorità. Una storia gloriosa, parrebbe, in cui la verità celebra il proprio trionfo.

«Ma è proprio vero?» scrive Prosperi. «E fino a che punto il falso ha contribuito a modificare il processo storico? Esiste un qualche rapporto fra la lunga polemica intorno al Constitutum Constantini e la questione del potere temporale del papato, dibattuta fino all’appuntamento del concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede?» (il che ci porta fino al 1929!). Come dire: riscontrato il falso, si chiude la partita? Oppure si apre una nuova indagine, che ha a che fare con le ragioni che lo hanno prodotto e le conseguenze che ne sono scaturite? Ha scritto Federico Chabod: «il Constituto non serve a nulla per la storia del secolo IV, ma serve moltissimo per quella del secolo VIII», cioè per capire «le aspirazioni e gli intendimenti politici della Chiesa» nel momento in cui il documento fu allestito (Lezioni di metodo storico, 1969).

Ma seguiamo Prosperi nel suo ragionamento fino all’ultimo degli esempi scelti: i Protocolli dei Savi anziani di Sion. Se il problema fosse riconoscere il falso in quanto tale, qui il racconto sarebbe molto breve: è sufficiente arrivare agli anni Venti del Novecento per accertare come questi presunti «verbali», apparsi tra il 1903 e il 1905 a testimonianza di una cospirazione mondiale ebraica, fossero una falsificazione per alimentare la propaganda antisemita in Russia. Tuttavia, «l’efficacia è stata del tutto indipendente dalla fede nella loro autenticità»: esportati all’estero dopo la Prima guerra mondiale hanno continuato a fomentare l’antisemitismo. La tesi a sostegno della loro perdurante circolazione è che, pur essendo falsi, rappresenterebbero il vero. La convinzione fideistica nell’esistenza reale di un complotto ebraico ha fatto sì che il documento che lo attesta, pur malamente confezionato, sia stato considerato «veridico». E tanto è bastato.

Con questo il cerchio si chiude: siamo partiti da una prova che smaschera il falso con la forza della ragione per arrivare a una credenza che rende vero ciò che è di conclamata inautenticità. In questi passaggi, il falso ha avuto il potere di «cambiare la storia» grazie al suo «effetto risonanza», che ha prodotto una distorsione nella percezione del passato. E questo, ci avverte Prosperi, vale anche per operazioni retroattive come quelle classificate con la moderna e anglofona etichetta di cancel culture (ma sempre esistite) con cui si seleziona quanto del passato corrisponde a una sensibilità o interesse presenti, espellendo ciò che turba, imbarazza oppure nuoce al racconto che si vuole diffondere (lo storytelling, si direbbe oggi).

La storia non è dunque una realtà fissa e immobile davanti ai nostri occhi: muta di continuo, e non solo perché studiandola la comprendiamo più a fondo. I casi citati da Prosperi sono noti, istruttiva è l’avvertenza che l’autore ne trae, affidandola alle parole di Marc Bloch: «L’errore non si propaga, non si amplia, non vive se non a una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita» (Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, 1921). L’inautenticità non invalida un documento, anzi. Lo trasforma in un testimone di qualcos’altro, che potrebbe essere persino più importante. Vero, falso o finto che sia, un testo è un messaggero e dunque un portatore di informazioni, che è compito degli studiosi decifrare con tutti gli strumenti del «mestiere». Ma il principio è valido anche per chiunque senta come necessario instaurare un rapporto critico e consapevole con il passato. Perciò questo piccolo libro è una preziosa indicazione di metodo che giova a tutti.





martedì 25 febbraio 2025

La Germania di Merz



Adriana Cerretelli, L'Unione europea riparte da Berlino, Il Sole 24ore, 25 febbraio 2025

Chi mai avrebbe potuto immaginare, in quell’alba tragica del 24 febbraio 2022, quando i carri armati russi aggredirono l’Ucraina, [...] che tre anni dopo quella stessa guerra avrebbe travolto l’intera l’Europa e insieme ad essa quasi 80 anni di Alleanza atlantica?

Che, all’improvviso, Ucraina ed Europa avrebbero dovuto ricominciare da zero, ricostruirsi su fondamenta pericolanti, strangolate dalla manovra di accerchiamento orchestrata dal violento imperialismo territoriale di Vladimir Putin e dalla conclamata complicità dell’America First di Donald Trump, lo spregiudicato rider di alleanze intercambiabili, fuori l’Europa, dentro la Russia sognando di sbaragliare insieme la Cina?

Per l’Europa tradita dal suo storico alleato, unica notizia positiva in coincidenza di un fosco anniversario e ore disgraziate, l’esito delle elezioni in Germania: la vittoria, non trionfale, della Cdu-Csu del futuro cancelliere Friedrich Merz e la rinascita della Grosse Koalition con i socialdemocratici sconfitti e allo sbando del cancelliere uscente Olaf Scholz.

In breve, la promessa del recupero di stabilità politica, capacità di azione, autoriforme e decisionismo da parte del suo Paese leader, reduce da un triennio trascorso in ibernazione tra liti politiche, una profonda crisi industrial-infrastrutturale, recessione economica. E, soprattutto, un modello di sviluppo coltivato da 15 anni di merkelismo - petrolio russo a buon mercato, stretto connubio economico con la Cina, sicurezza garantita dallo scudo americano - clamorosamente bocciato dalla nuova geopolitica mondiale.

Merz, l’arcinemico di Angela, sconfitto e risorto 20 anni dopo, dovrà ripartire da quelle macerie per rifare la Germania e l’Europa, che inevitabilmente ha introiettato negli anni virtù ma anche vizi tedeschi.

Non sarà facile. E non solo perché le urne, che hanno registrato un’affluenza dell’84% senza precedenti dal 1990, l’anno della riunificazione, hanno anche rafforzato gli estremismi di destra (raddoppiata) e sinistra e ribadito la palese spaccatura Est-Ovest del paese.

Ma anche perché, con una maggioranza di soli 12 voti, Merz dovrà riuscire a riformare, investire e far ripartire un modello di sviluppo ingolfato, diventare il regista di una nuova Europa quasi tutta da rifare, risolvere il rebus dei rapporti con la nuova America di Trump, l’Ucraina da sostenere e la Russia di Putin.

Tutti terreni minati.

Quello europeo sarà il test più decisivo. Saltate le garanzie atlantiche di sicurezza militare e anche economica, dazi docet, Germania ed Europa dovranno serrare i ranghi superando il vecchio dilemma, Germania europea o Europa tedesca: solo insieme potranno sopravvivere. Cooptando l’Ucraina, aiuti alla sua ricostruzione e sicurezza.

Impresa titanica: passa per una rivoluzione culturale, dal pacifismo al neo-militarismo, una istituzionale mirata a una nuova governabilità fatta di efficienza e tempestività decisionale oggi inesistenti, una rivoluzione deregolatoria e integrativa per rilanciare competitività, industria anche militare, high tech, transizioni verde e digitale più sensate, rivoluzione finanziaria per mobilitare gli enormi capitali necessari alla svolta.

«L’Europa deve essere in grado di difendere se stessa, non può più contare sul fatto che Trump onori le garanzie Nato»: l’ammissione di Merz abbatte con una frase il muro di incomunicabilità tra l’irriducibile atlantismo della Germania del dopoguerra e il solitario autonomismo della Francia e pone le basi di un’integrazione prima impossibile.

Punta al recupero dell’intesa franco-tedesca, il nuovo cancelliere, ma aggiornata alla nuova geopolitica dell’Unione a 27, il cui baricentro guarda sempre più a Est. Quindi governance formato Weimar, triumvirato tra Berlino, Parigi e Varsavia, senza ignorare Italia, Spagna. E nemmeno Baltici e Scandinavi. Magari una Nato europea da “riciclare” nel modello e strutture operative.

Come procedere e finanziare la rinascita dell’Europa e con quale consenso politico tra Governi deboli nazionalismi forti di estrema destra e sinistra, cioè margini di manovra ridotti?

Con il cemento della paura, la consapevolezza che il vecchio mondo è finito. Peccato che in giro non si vedano grandi leader per spiegarlo ai cittadini. No, uno c’è, Volodymyr Zelensky, il piccolo grande uomo che si batte e non molla, Davide contro i Golia russo e americano.

Un esempio.



Una cartolina di Antonicelli



Mario Sicilia  Lorenzo MargiottaGente di Agropoli,  Ernesto Apicella editore, Agropoli 2003

In una ingiallita cartolina postale che porta la data del 19 novembre 1935, inviata alla fidanzata Renata Germano, Franco Antonicelli trascrisse i versi di una bella canzoncina cilentana:

Vurria vulare e non posso vulare
la tua bellezza ligato me tene,
vurria passà lu funno re lu mare,
pe te venì a truvà, caro mio bene;
lu mare è grande e non si pò passare, 
le prete re la via stella serene.
Nun 'mporta, bella mia, ca sì luntana,
quanto luntana sei, te voglio bene. 



https://machiave.blogspot.com/2019/02/autunno-in-agropoli.htm
https://machiave.blogspot.com/2024/11/canti-cilentani.html

Un dialogo tra sordi



Macron
, il "sussurratore di Trump", fa la sua magia, ma gli Stati Uniti e l'Europa rimangono un oceano a
parte, Andrew Roth a Washington per The Guardian Mescolando adulazione e fermezza, il presidente francese ha cercato di sanare lo scisma transatlantico sull'Ucraina, dando a Keir Starmer un segnale energico da seguire


"Solo perché capiate, l'Europa sta prestando i soldi all'Ucraina", ha detto [Trump]. "Avranno indietro i loro soldi".

"No", Macron ha posato delicatamente la mano sul polso di Trump. "Ad essere sinceri, abbiamo pagato il 60% dello sforzo totale... Abbiamo fornito soldi veri per essere chiari".

Per gran parte del vertice di oggi con Trump, Macron ha cercato di fornire una master class su come gestire un amico bellicoso. Ha elogiato Trump per la sua leadership. Gli ha dato una pacca sulla spalla e ha sorriso mentre loro due si comportavano come vecchi amici fuori dalla Casa Bianca. In un'intervista a Fox News, l'amata stazione televisiva di Trump, Macron ha definito la sua elezione un "punto di svolta" e ha detto che la sua iniziativa è stata "positiva".

Non è chiaro se una qualsiasi relazione, anche una con una bonomia così evidente come quella tra Macron e Trump, possa colmare l'abisso che si sta creando tra gli Stati Uniti e l'Europa.

Macron e Keir Starmer, che arriverà a Washington alla fine di questa settimana, stanno cercando di salvare un'alleanza transatlantica che sta attraversando la sua più grande tensione da generazioni. Sostengono che il sostegno degli Stati Uniti alla difesa europea è un buon investimento e che Trump non deve raggiungere la pace semplicemente gettando l'Ucraina sotto l'autobus.

Altri in Europa stanno esaurendo la pazienza. In Germania, Friedrich Merz, il leader dell'Unione Cristiano-Democratica (CDU) tedesca e probabilmente il prossimo cancelliere tedesco, ha detto in un'intervista durante il fine settimana che la sua "priorità assoluta sarà quella di rafforzare l'Europa il più rapidamente possibile in modo che, passo dopo passo, possiamo davvero raggiungere l'indipendenza dagli Stati Uniti". "Non avrei mai creduto che avrei dovuto dire una cosa del genere in televisione", ha detto. "Ma per lo meno, dopo le dichiarazioni di Donald Trump della scorsa settimana, è chiaro che gli americani – almeno questa parte degli americani in questa amministrazione – sono in gran parte indifferenti al destino dell'Europa".

Macron lascia Washington senza una ferma promessa di sostegno degli Stati Uniti o un chiaro cambiamento nella posizione di Trump sulla guerra in Ucraina.

Starmer avrà anche il suo bel da fare quando incontrerà Trump giovedì. Anche lui cercherà di convincere il presidente degli Stati Uniti ad allontanarsi dall'orlo di una rottura con l'Europa.

"Non vogliamo irritare Trump, sarebbe totalmente controproducente sia per i nostri interessi che per quelli della sicurezza ucraina ed europea", ha detto un assistente al Guardian. "Siamo molto più interessati a quello che fa davvero, piuttosto che a quello che dice. Finora, pensiamo che ci sia una differenza".