lunedì 17 febbraio 2025

Calvino, la vita appesa a un filo



 

Questo è il secondo dei racconti dedicati da Calvino al tempo della guerra civile. L'episodio considerato risale nella realtà all'autunno del 1944. Il 15 novembre 1944 per l'esattezza il giovane Italo viene arrestato con altri partigiani durante un rastrellamento e passa una notte nel carcere carcere di Santa Tecla, sopra il porto vecchio di Sanremo. È poi trasferito in una villa albergo che funge da carcere. Da qui il titolo del racconto: Attesa della morte in un albergo. Non proprio un posto tranquillo. Quello è un tempo nel quale, per i prigionieri, la morte si presenta come un evento del tutto probabile. A Santa Tecla, al mattino, vengono letti i nomi di coloro che restano prigionieri, mentre gli altri, quelli che non sono stati chiamati, dovranno essere fucilati. Anche nella prigione albergo, il traditore Pelle di biscia «ora salvava, ora uccideva». Ogni giorno un certo numero di loro veniva smistato: alla vita o alla morte. È questa l'«attesa della morte». Consiste nel sapere che da un momento all'altro puoi passare dall'essere al nulla. 

Attesa della morte in un albergo

 A una cert’ora del mattino cominciavano ad arrivare le mogli dei prigionieri e si mettevano a far gesti, con il viso alzato verso le finestre. Dall’ultimo piano loro si sporgevano a domandare, a rispondere; e le mani delle donne, a basso, e le mani degli uomini,  poi lassù, sembrava volessero raggiungersi attraverso quei metri d’aria vuota. Il grande albergo da poco degradato a caserma e a prigione non aveva oggetti che servissero all’animo per concretizzare quel senso di libertà perduta, come inferriate o muraglie. A nutrire la loro angoscia restava solo quella verticale lontananza dagli uni agli altri, breve ma pure disperata, da quelli con i piedi sulle aiole, ancora padroni di se stessi, fino a quegli altri condotti lassù come già a paesi senza via di ritorno.
Ogni tanto uno dei prigionieri che erano alla finestra si voltava verso il corridoio e chiamava un nome: - Ferrari! Ferrari! C’è tua moglie di sotto! Il chiamato si faceva largo alla finestra già affollata e cominciava a fare magri sorrisi, gesti che volevano essere rassegnati.
Diego non s’affacciava mai; la sua famiglia era lontana, dispersa dalla guerra. Egli era stanco di quell’ininterrotto ondeggiare di previsioni, di supposizioni, di notizie buone e cattive che l’andirivieni nel giardino dell’albergo spingeva fin lassù. S’infiltrava in lui con la stanchezza dei nervi un gusto di lasciarsi andare alla deriva, verso la rovina o verso una sempre sperata miracolosa salvezza, una voglia di estati trascorse steso sull’arena a fior d’acqua, voglia lasciata in lui dalle sue troppe estati d’acqua e arena che l’avevano portato fin là, pigro e sprovveduto, a quella sua prima estate utile, che ora finiva. Ma il tempo era una ragnatela di nervi tesi, un “puzzle” che si può comporre in mille figure, tutte senza senso. Smarriti, gli uomini imprigionati a caso per le vie camminavano avanti e indietro sul linoleum delle stanze nude, dove solo ghignavano le labbra bianche dei lavabo e dei bidè, otturati d’acqua putrida.
Il giorno prima, condotto là dalle prigioni del forte, dove era stato un giorno e una notte con altri uomini ora forse uccisi, gli era sembrato di venir dissepolto, a ritrovarsi nell’albergo arioso, con intorno il calore di quegli uomini ignari e facili alle speranze. Aveva riso e scherzato, ritrovandoli; anche Michele, il compagno insieme al quale era stato preso, era tra i prigionieri dell’albergo. Si fecero festa al rincontrarsi sani e uniti, dopo che per un giorno e una notte, divisi, avevano temuto l’uno per l’altro. Diego s’era sentito commosso e insieme più forte a accarezzare il ruvido del cappotto di Michele, il liscio della sua grossa testa calva che gli arrivava al petto. Michele ridacchiava nervoso, con la sua bocca mal dentata e chiedeva: - Che dici, Diego, glielo faremo il bidone ai nazisti? - Diego disse: - Io dico che glielo faremo. Il bidone a tutto il Grande Reich, faremo. - Anche a Von Ribbentrop? Anche a Von Ribbentrop. Anche a Von Brautschisch. Anche al dottor Goebbels -. E s’erano accucciati a ridosso d’un freddo termosifone, a smaltire il nervosismo in risa e scherzi (ancora non sapevano che parecchi presi con loro erano già stati uccisi) e in Diego era la contentezza di chi esce dal carcere dopo anni.
Il carcere era una vecchia fortezza sul porto, dove allora era installata la contraerea tedesca. La cella dove eran stati rinchiusi era servita da prigione di rigore per i soldati tedeschi; sui muri erano frasi scritte in tedesco di soldati pederasti: “Mein lieber Kamarad Franz, mio caro camerata Franz, io sono qui rinchiuso e tu sei lontano da me”. “Mein lieber Kamarad Hans, la vita era felice vicino a te”.
Loro erano in una ventina, nella stretta cella, stesi in terra uno a fianco dell’altro. Un vecchio con la barba bianca, vestito da cacciatore, padre d’uno di loro, s’alzava ogni tanto nella notte scavalcando i loro corpi e andava a orinare in un angolo, con sforzo. La latta nell’angolo era bucata dalla ruggine; in breve l’orina del vecchio invase il pavimento della cella, sotto i loro corpi, come 44 un fiume. Disumani urli di comando, come di uomini che vogliono cambiarsi in lupi, s’alzavano dagli echi della fortezza a ogni muta di sentinella.
L’inferriata dava sulla scogliera; il mare rogliava tutta la notte spinto negli scogli, come il sangue nelle arterie e i pensieri nelle volute dei crani. E ognuno aveva in testa l’angolo di strada che non avrebbe dovuto girare, per non finire là dentro: Diego, nell’angolo di strada che, scantonando con Michele per sfuggire alla retata, l’aveva messo faccia a faccia coi tedeschi bardati a guerra che fermavano i passanti in mezzo alla via, a tre metri da loro, come all’apritiscena d’un film.
Era una catena di sensazioni e d’immagini che continuava a sgranarsi nella sua mente come un rosario, per ripersuaderlo che non poteva succedere altrimenti, mentr’era rinchiuso nella cella con le scritte dei pederasti tedeschi sui muri e il vecchio che continuava a orinare nel buio, così come ora tra gli stucchi scrostati dell’albergo, in quell’ultimo piano come sospeso tra morte e vita, con uomini proni sui pavimenti quasi presi da vertigine.
Ogni giorno un certo numero di loro veniva smistato: alla vita o alla morte. Al mattino salivano il maresciallo e Pelle-di-biscia con un fascio di documenti in mano: quelli a cui restituivano i documenti erano liberi ed uscivano. Li si vedevano abbracciare le mogli e allontanarsi a braccetto, calpestando l’erba delle aiole, sotto la pioggia d’invidia dei loro sguardi.
Alla sera invece una camionetta grigio-piombo con soldati armati seduti intorno veniva a fermarsi davanti all’albergo; il maresciallo e Pelle-di-biscia salivano a chiamare altri nomi; qualcuno di loro andava via ogni sera in mezzo agli elmi di quei soldati. L’indomani le loro donne sarebbero venute a chiedere sotto le finestre, e girare da un Comando all’altro supplicando gli interpreti: nessuno sapeva dov’erano stati portati. Altre donne avrebbero parlato di spari sentiti a sera, verso i quartieri evacuati del porto.
Anche per Diego e Michele l’alternativa era questa: libertà o morte, o i loro documenti erano riconosciuti per buoni, e allora era il grande bidone a tutto il Reich, da raccontarsi nei casolari alla sera tra le risate dei compagni, oppure era la camionetta grigio-piombo che spariva tra le case sinistrate verso il molo, Pelle-di-biscia che aveva fatto la spia.
Pelle-di-biscia li aveva passati in rivista appena condotti là, in fila davanti all’albergo, per vedere se riconosceva qualche suo ex compagno. Camminava carezzandosi le mani che doveva aver sudate, Pelle-di-biscia, gracile ragazzo nella divisa di tela attillata, con un sorriso umido sulle labbra sbavate dall’arsura. Aveva dei baffi incerti di peluria biondiccia, pallido, col raffreddore che gli arrossava le narici e le palpebre. Gli occhi gli luccicavano di commozione a sentirsi lui, gracile ragazzo, arbitro della vita di quegli uomini che trattenevano il respiro a ogni sua parola, a ogni suo gesto.
Erano momenti di trionfo inebriante per lui, ma sempre popolato d’angoscia; ogni volta che appariva per i corridoi dell’albergo i rinchiusi gli si affollavano intorno per domandargli, per raccomandargli, lo chiamavano per nome: - Tullio, Tullio -. Lui guardava quegli uomini docili intorno a lui, ma vedeva l’odio emergere affilato dietro alla loro umiltà, a uno di loro aveva detto: - Oggi mi fate la corte, domani mi sparerete nella schiena.
Pelle-di-biscia ora salvava ora uccideva: era lunatico e ambiguo. Molti che l’avevano conosciuto prima, quand’era dei loro, s’eran creduti persi vedendosi interrogati in sua presenza: lui aveva finto di non conoscerli. Altri che lo speravano clemente per vecchi favori o amicizie l’avevan visto scoprire le gengive contro di loro, metterli in gioco come topi. Pelle-di-biscia ora sembrava perduto sulla via del sangue, ora in preda ai rimorsi.
Passandoli in rivista s’era fermato davanti a Michele e aveva detto: - Noi due ci siamo già visti in qualche posto -. Michele aveva ritratto il collo come se una goccia gli fosse scesa fredda per la schiena e aveva fatto una smorfia d’ignoranza con la faccia stranita. 

Diego sedeva sul pavimento a piastrelle del corridoio, con le mani sui ginocchi. Michele era accanto a lui, affacciato alla finestra. Attendeva sua moglie, andata a parlare con Luciano, un interprete dell’esse-esse che lavorava per il comitato e che s’era impegnato a farli uscire. La moglie di Michele era assai più giovane di lui, sposa da ragazza. Aveva grandi occhi grigi nuvolosi, 45 qualcosa di severo nel viso, incorniciato di capelli lisci e neri, qualcosa d’allegro nel corpo magro, nella corta veste lilla. Rincresceva, a vederla, che la vita fosse quella che è, dolorosa e oscena, e tutto non fosse risolto e tranquillo. A Diego sarebbe piaciuto con una donna come quella girovagare per paesi soleggiati e senza ingiustizie.
Disse: - Se la scampiamo, finito tutto, voglio tornare in questo albergo per una settimana, quando si riaprirà ai turisti -. Michele non rispondeva. Diego disse: - Mi sdraierò in terra proprio qui come sono ora, in mezzo a tutti quei signori dignitosi che mi crederanno matto.
Michele restava affacciato, non si voltava. Poi si girò e disse in fretta come stesse per sfuggirgli di mente: - Diego, se vuoi del pane mia moglie ne ha portato. L’ha dato a un milite che ce lo dia -. Diego domandò: - È venuta tua moglie? Ha parlato?... Michele non lo guardava in faccia, teneva lo sguardo alto sul soffitto. - Di’, Diego, per me non c’è più nulla da fare. Pelle-di- biscia m’ha venduto. L’ha detto Luciano a mia moglie. É là sotto che piange -. Così disse Michele; nelle sue parole c’era la semplicità delle cose a lungo temute, una volta che avvengono.

Michele aveva preso a camminare avanti e indietro per il corridoio, con le mani nelle tasche, gli occhi enormi nelle palpebre che gli pesavano aperte. Talvolta gli altri gli rivolgevano la parola e lui li guardava smarrito, come dovesse tornare da smisurate lontananze per riaccostarsi agli oggetti del loro discorso. Forse pensava al vuoto, come per abituarsi a non esistere.
Diego seguiva il passeggiare di Michele da distante, quasi con ansia che gli altri ignari disturbassero quella camminante agonia: un accenno dei loro discorsi di vivi sarebbe bastato a farlo a un tratto disperato per la vita perduta. Egli solo di tutti loro sapeva che quell’uomo per il corridoio camminava verso la morte, distante ormai solo mille, duemila passi. Quella era la sua veglia funebre: era un morto che passeggiava nella sua camera ardente, in quel corridoio dai rosoni di stucco scrostati ai soffitti e dalle impronte sbiadite delle specchiere sopra i camini di marmo.
Diego pensava a Michele, vegliandolo: un compagno anziano, Michele, un brav’uomo, pur con tutti i suoi difetti; non molto coraggioso, non molto in linea col partito. Spesso avevano litigato, per quella mania di Michele di sputar sentenze e di voler sempre ragione, con la sua prosopopea d’autodidatta.
Ora Michele camminava per il corridoio, con le mani nelle tasche del cappotto, la grossa testa calva incassata nelle spalle, i grossi occhi bovini perduti nel vuoto, come sbigottito dell’enormità di quanto stavano per togliergli. Era un povero uomo basso e calvo, in un vecchio cappotto, con la barba di tre giorni; ma a Diego parve di vedere in lui, in quei suoi occhi bovini, in quel suo camminare lento e assorto una forza minacciosa della natura, gli parve che Michele avrebbe continuato a camminare così anche dopo morto, che sarebbe entrato l’indomani nelle sale dove gli ufficiali tedeschi facevano i bagordi, dalla finestra, diventato grandissimo, ma sempre nel suo povero cappotto, con le mani nelle tasche, la testa calva con lo sguardo bovino perduto nel vuoto, e avrebbe camminato con quel suo lento passo sulle tovaglie macchiate di spumante, in silenzio, davanti agli alberi di Natale illuminati, alle croci di ferro luccicanti, al nudo delle mammelle e delle natiche imbandite, tra il terrore degli ufficiali tedeschi e i gridi delle donne. E così avrebbe continuato a camminare, anche finita la guerra, e i ricchi non avrebbero avuto pace nei loro palazzi, non gioia nelle loro famiglie, senza che quest’uomo basso e smisurato non fosse entrato dalle finestre a traversare le loro stanze; e sui tavoli attorno a cui si decide la pace e la guerra e in tutti i luoghi dove s’impedisce o si toglie o si mente, dove si predica il falso, dove si adorano iddii ingiusti, sempre sarebbe apparsa l’ombra dell’uomo ucciso la sera sul molo.
Qualcuno dei prigionieri parlò d’uomini impiccati dai tedeschi; Diego vide Michele appeso a un lampione del porto, gli occhi enormi, le mani strette ancora nelle tasche. E gli parve che a uccidere Michele fossero stati tutti gli uomini, tutti loro, una colpa senza limiti che doveva togliere ogni gioia alla vita, da espiarsi nei secoli dei secoli.
Sopra i cerchi nell’acqua dove Michele era scomparso galleggiava solo il suo cappotto vuoto, a braccia aperte come una croce. La campana della boa rossa in mezzo al porto suonava a morto per il compagno ucciso, mossa dalle onde. Sotto l’acqua la gomena che teneva ancorata la boa finiva in 46 un nodo scorsoio, con la testa di Michele dentro. Ma la testa di Michele veniva a galla, verde d’alghe, gli occhi sbarrati; dava un urlo. Il vecchio padre vestito da cacciatore s’alzava nella notte e cominciava a orinare gemendo, enorme sopra tutti loro. I fiumi straripavano, tutti gli uomini cattivi e buoni venivano sommersi. Gli organi del vecchio, stanchi per aver generato tutti gli uomini, ora annegavano l’universo. Solo Pelle-di-biscia fuggiva per la terra in cerca di scampo, carezzandosi le mani sudate, umide dell’acqua putrida dei bidé dell’albergo. Ma ogni bara era occupata da un morto, ucciso da lui; la fiumana lo circondava da ogni parte, lo travolgeva in un gorgo.
La camionetta era in ritardo quella sera e tutti dicevano con sollievo che non sarebbe venuta. Michele aspettava affacciato nell’imbrunire. Arrivarono invece quattro torpedoni da turismo, guidati da soldati tedeschi. Ci fu dell’agitazione tra i rinchiusi, un domandarsi, un supporre. Subito salì il maresciallo con l’elenco e li chiamò uno per uno. Michele e Diego furono chiamati insieme agli altri, con i nomi falsi che avevano dato; anzi il nome di Michele il maresciallo lo pronunciò storpiato, come se non l’avesse mai inteso.
I prigionieri furono divisi in quattro squadre e fatti entrare a uno a uno nei torpedoni. Diego e Michele si ritrovarono vicini, ancora uniti a quella folla quasi gelosa dell’ingiustizia subìta. Tra le voci ansiose di quegli uomini girò un nome partito non si sapeva donde: - Marassi, Marassi. Ci portano a Marassi -. Ma quel nome quasi rassicurava Michele e Diego, voleva dire lasciare quell’angoscia di morte vicina, il Pelle-di-biscia ambiguo, i luoghi noti gremiti d’insidie.
Diego sentiva il ruvido cappotto di Michele sotto le sue dita, il sangue riguadagnare le loro arterie. Disse: - Te l’avevo detto che Luciano è un contaballe? Te l’avevo detto? - E Michele ripeteva: - Che contaballe, di’! - con un sorriso già più sciolto, come se apprezzasse uno scherzo. E i due compagni compresero che qualunque fosse il loro destino da allora in poi, di sangue, d’urli, di sfinimento, pure avrebbero sentito il gusto sanguigno dell’essere vivi e del dividere il dolore come il pane. Un ruvido sapore di vita li avrebbe accompagnati da allora in poi, nei cunicoli urlanti di Marassi, nei baraccamenti desolati del Nord, fino al ritorno.


COMMENTO

Il racconto non ha un chiaro protagonista, fotografa un ambiente e un clima. L'ambiente è il carcere, il clima è quello determinato dalla morte che incombe come destino probabile e prossimo sui prigionieri. Quella narrata è una vicenda corale che vede alcuni personaggi muoversi in primo piano, i due prigionieri Diego e Michele, il fascista Pelle-di-biscia, più di tutti. I luoghi sono due: la vecchia fortezza sul porto e il grande albergo da poco degradato a caserma e a prigione. Il discorso ha un andamento binario, sempre si susseguono coppie di elementi opposti: la vita e la morte, l'età matura e la giovinezza, la perdizione e il rimorso, la sottomissione apparente e l'odio nascosto, la carcerazione e la libertà. Il contrasto si ritrova anche nella struttura dell'albergo che è divantato una prigione ma è privo di sbarre e di inferriate. A un polo estremo nella scala delle età troviamo il vecchio padre di uno tra i prigionieri con il suo bisogno frequente di urinare. Al polo opposto si situa la moglie di Diego, sposa da ragazza, assai più giovane di lui, con grandi occhi grigi nuvolosi, qualcosa di severo nel viso, incorniciato di capelle lisci e neri, qualcosa d'allegro nel corpo magro, nella corta veste lilla. Anche Michele e Pelle-di-biscia hanno diritto a una presentazione distinta. Il prigioniero è dotato di un profilo più morale che fisico: un compagno anziano, un brav'uomo, pur con tutti i suoi difetti, non molto coraggioso, non molto in linea con il partito. Pelle-di-biscia trasuda ripugnanza nella sua sagoma di ragazzo gracile stretto in una divisa di tela, con un sorriso umido sulle labbra sbavate dall'arsura. Le emozioni dei prigionieri assumono in taluni momenti una forma corporale: una goccia fredda che scivola lungo la schiena, il sangue che riguadagna le arterie. Sembrerebbe una discesa agli inferi se non fosse che all'abisso della disperazione subentra volentieri il soprassalto della speranza. Un tratto questo comune all'esperienza dei reclusi nei campi di concentramento. A Diego (non a Michele) per esempio sarebbe piaciuto con una donna come quella girovagare per paesi soleggiati e senza ingiustizie. Qua e là si configurano spettacoli immaginari di morte o di riscatto. Torna l'idea dell'offesa ricevuta, come nell'altro racconto, La stessa cosa del sangue. Si tratta, ora, di una atrocità collettiva: l'uccisione paventata di Michele sarebbe da attribuire a tutti gli uomini, una colpa senza limiti che doveva togliere  ogni gioia alla vita, da espiarsi nei secoli dei secoli. Alla fine non c'è la liberazione, c'è il passaggio da un luogo di prigionia all'altro. Con la prospettiva di un ritorno finale a casa. Di nuovo una sensazione fisica chiude l'intero racconto: un ruvido sapore di vita.        


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