Questo è il secondo dei racconti dedicati da Calvino al tempo della guerra civile. L'episodio considerato risale nella realtà all'autunno del 1944. Il 15 novembre 1944 per l'esattezza il giovane Italo viene arrestato con altri partigiani durante un rastrellamento e passa una notte nel carcere carcere di Santa Tecla, sopra il porto vecchio di Sanremo. È poi trasferito in una villa albergo che funge da carcere. Da qui il titolo del racconto: Attesa della morte in un albergo. Non proprio un posto tranquillo. Quello è un tempo nel quale, per i prigionieri, la morte si presenta come un evento del tutto probabile. A Santa Tecla, al mattino, vengono letti i nomi di coloro che restano prigionieri, mentre gli altri, quelli che non sono stati chiamati, dovranno essere fucilati. Anche nella prigione albergo, il traditore Pelle di biscia «ora salvava, ora uccideva». Ogni giorno un certo numero di loro veniva smistato: alla vita o alla morte. È questa l'«attesa della morte». Consiste nel sapere che da un momento all'altro puoi passare dall'essere al nulla.
Attesa della morte in un albergo
A una cert’ora del mattino cominciavano ad arrivare le mogli dei prigionieri e si mettevano a far
gesti, con il viso alzato verso le finestre. Dall’ultimo piano loro si sporgevano a domandare, a
rispondere; e le mani delle donne, a basso, e le mani degli uomini, poi lassù, sembrava volessero
raggiungersi attraverso quei metri d’aria vuota. Il grande albergo da poco degradato a caserma e a
prigione non aveva oggetti che servissero all’animo per concretizzare quel senso di libertà perduta,
come inferriate o muraglie. A nutrire la loro angoscia restava solo quella verticale lontananza dagli
uni agli altri, breve ma pure disperata, da quelli con i piedi sulle aiole, ancora padroni di se stessi,
fino a quegli altri condotti lassù come già a paesi senza via di ritorno.
Ogni tanto uno dei prigionieri che erano alla finestra si voltava verso il corridoio e chiamava un
nome: - Ferrari! Ferrari! C’è tua moglie di sotto! Il chiamato si faceva largo alla finestra già
affollata e cominciava a fare magri sorrisi, gesti che volevano essere rassegnati.
Diego non s’affacciava mai; la sua famiglia era lontana, dispersa dalla guerra. Egli era stanco di
quell’ininterrotto ondeggiare di previsioni, di supposizioni, di notizie buone e cattive che
l’andirivieni nel giardino dell’albergo spingeva fin lassù. S’infiltrava in lui con la stanchezza dei
nervi un gusto di lasciarsi andare alla deriva, verso la rovina o verso una sempre sperata miracolosa
salvezza, una voglia di estati trascorse steso sull’arena a fior d’acqua, voglia lasciata in lui dalle sue
troppe estati d’acqua e arena che l’avevano portato fin là, pigro e sprovveduto, a quella sua prima
estate utile, che ora finiva.
Ma il tempo era una ragnatela di nervi tesi, un “puzzle” che si può comporre in mille figure, tutte
senza senso. Smarriti, gli uomini imprigionati a caso per le vie camminavano avanti e indietro sul
linoleum delle stanze nude, dove solo ghignavano le labbra bianche dei lavabo e dei bidè, otturati
d’acqua putrida.
Il giorno prima, condotto là dalle prigioni del forte, dove era stato un giorno e una notte con altri
uomini ora forse uccisi, gli era sembrato di venir dissepolto, a ritrovarsi nell’albergo arioso, con
intorno il calore di quegli uomini ignari e facili alle speranze. Aveva riso e scherzato, ritrovandoli;
anche Michele, il compagno insieme al quale era stato preso, era tra i prigionieri dell’albergo. Si
fecero festa al rincontrarsi sani e uniti, dopo che per un giorno e una notte, divisi, avevano temuto
l’uno per l’altro. Diego s’era sentito commosso e insieme più forte a accarezzare il ruvido del
cappotto di Michele, il liscio della sua grossa testa calva che gli arrivava al petto. Michele
ridacchiava nervoso, con la sua bocca mal dentata e chiedeva: - Che dici, Diego, glielo faremo il
bidone ai nazisti? - Diego disse: - Io dico che glielo faremo. Il bidone a tutto il Grande Reich,
faremo. - Anche a Von Ribbentrop? Anche a Von Ribbentrop. Anche a Von Brautschisch. Anche al
dottor Goebbels -. E s’erano accucciati a ridosso d’un freddo termosifone, a smaltire il nervosismo
in risa e scherzi (ancora non sapevano che parecchi presi con loro erano già stati uccisi) e in Diego
era la contentezza di chi esce dal carcere dopo anni.
Il carcere era una vecchia fortezza sul porto, dove allora era installata la contraerea tedesca. La
cella dove eran stati rinchiusi era servita da prigione di rigore per i soldati tedeschi; sui muri erano
frasi scritte in tedesco di soldati pederasti: “Mein lieber Kamarad Franz, mio caro camerata Franz,
io sono qui rinchiuso e tu sei lontano da me”. “Mein lieber Kamarad Hans, la vita era felice vicino a
te”.
Loro erano in una ventina, nella stretta cella, stesi in terra uno a fianco dell’altro. Un vecchio con
la barba bianca, vestito da cacciatore, padre d’uno di loro, s’alzava ogni tanto nella notte
scavalcando i loro corpi e andava a orinare in un angolo, con sforzo. La latta nell’angolo era bucata
dalla ruggine; in breve l’orina del vecchio invase il pavimento della cella, sotto i loro corpi, come
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un fiume. Disumani urli di comando, come di uomini che vogliono cambiarsi in lupi, s’alzavano
dagli echi della fortezza a ogni muta di sentinella.
L’inferriata dava sulla scogliera; il mare rogliava tutta la notte spinto negli scogli, come il sangue
nelle arterie e i pensieri nelle volute dei crani. E ognuno aveva in testa l’angolo di strada che non
avrebbe dovuto girare, per non finire là dentro: Diego, nell’angolo di strada che, scantonando con
Michele per sfuggire alla retata, l’aveva messo faccia a faccia coi tedeschi bardati a guerra che
fermavano i passanti in mezzo alla via, a tre metri da loro, come all’apritiscena d’un film.
Era una catena di sensazioni e d’immagini che continuava a sgranarsi nella sua mente come un
rosario, per ripersuaderlo che non poteva succedere altrimenti, mentr’era rinchiuso nella cella con le
scritte dei pederasti tedeschi sui muri e il vecchio che continuava a orinare nel buio, così come ora
tra gli stucchi scrostati dell’albergo, in quell’ultimo piano come sospeso tra morte e vita, con
uomini proni sui pavimenti quasi presi da vertigine.
Ogni giorno un certo numero di loro veniva smistato: alla vita o alla morte. Al mattino salivano il
maresciallo e Pelle-di-biscia con un fascio di documenti in mano: quelli a cui restituivano i
documenti erano liberi ed uscivano. Li si vedevano abbracciare le mogli e allontanarsi a braccetto,
calpestando l’erba delle aiole, sotto la pioggia d’invidia dei loro sguardi.
Alla sera invece una camionetta grigio-piombo con soldati armati seduti intorno veniva a
fermarsi davanti all’albergo; il maresciallo e Pelle-di-biscia salivano a chiamare altri nomi;
qualcuno di loro andava via ogni sera in mezzo agli elmi di quei soldati. L’indomani le loro donne
sarebbero venute a chiedere sotto le finestre, e girare da un Comando all’altro supplicando gli
interpreti: nessuno sapeva dov’erano stati portati. Altre donne avrebbero parlato di spari sentiti a
sera, verso i quartieri evacuati del porto.
Anche per Diego e Michele l’alternativa era questa: libertà o morte, o i loro documenti erano
riconosciuti per buoni, e allora era il grande bidone a tutto il Reich, da raccontarsi nei casolari alla
sera tra le risate dei compagni, oppure era la camionetta grigio-piombo che spariva tra le case
sinistrate verso il molo, Pelle-di-biscia che aveva fatto la spia.
Pelle-di-biscia li aveva passati in rivista appena condotti là, in fila davanti all’albergo, per vedere
se riconosceva qualche suo ex compagno. Camminava carezzandosi le mani che doveva aver
sudate, Pelle-di-biscia, gracile ragazzo nella divisa di tela attillata, con un sorriso umido sulle labbra
sbavate dall’arsura. Aveva dei baffi incerti di peluria biondiccia, pallido, col raffreddore che gli
arrossava le narici e le palpebre. Gli occhi gli luccicavano di commozione a sentirsi lui, gracile
ragazzo, arbitro della vita di quegli uomini che trattenevano il respiro a ogni sua parola, a ogni suo
gesto.
Erano momenti di trionfo inebriante per lui, ma sempre popolato d’angoscia; ogni volta che
appariva per i corridoi dell’albergo i rinchiusi gli si affollavano intorno per domandargli, per
raccomandargli, lo chiamavano per nome: - Tullio, Tullio -. Lui guardava quegli uomini docili
intorno a lui, ma vedeva l’odio emergere affilato dietro alla loro umiltà, a uno di loro aveva detto: -
Oggi mi fate la corte, domani mi sparerete nella schiena.
Pelle-di-biscia ora salvava ora uccideva: era lunatico e ambiguo. Molti che l’avevano conosciuto
prima, quand’era dei loro, s’eran creduti persi vedendosi interrogati in sua presenza: lui aveva finto
di non conoscerli. Altri che lo speravano clemente per vecchi favori o amicizie l’avevan visto
scoprire le gengive contro di loro, metterli in gioco come topi. Pelle-di-biscia ora sembrava perduto
sulla via del sangue, ora in preda ai rimorsi.
Passandoli in rivista s’era fermato davanti a Michele e aveva detto: - Noi due ci siamo già visti in
qualche posto -. Michele aveva ritratto il collo come se una goccia gli fosse scesa fredda per la
schiena e aveva fatto una smorfia d’ignoranza con la faccia stranita.
Diego sedeva sul pavimento a piastrelle del corridoio, con le mani sui ginocchi. Michele era
accanto a lui, affacciato alla finestra. Attendeva sua moglie, andata a parlare con Luciano, un
interprete dell’esse-esse che lavorava per il comitato e che s’era impegnato a farli uscire. La moglie
di Michele era assai più giovane di lui, sposa da ragazza. Aveva grandi occhi grigi nuvolosi,
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qualcosa di severo nel viso, incorniciato di capelli lisci e neri, qualcosa d’allegro nel corpo magro,
nella corta veste lilla. Rincresceva, a vederla, che la vita fosse quella che è, dolorosa e oscena, e
tutto non fosse risolto e tranquillo. A Diego sarebbe piaciuto con una donna come quella girovagare
per paesi soleggiati e senza ingiustizie.
Disse: - Se la scampiamo, finito tutto, voglio tornare in questo albergo per una settimana, quando
si riaprirà ai turisti -. Michele non rispondeva. Diego disse: - Mi sdraierò in terra proprio qui come
sono ora, in mezzo a tutti quei signori dignitosi che mi crederanno matto.
Michele restava
affacciato, non si voltava. Poi si girò e disse in fretta come stesse per sfuggirgli di mente: - Diego,
se vuoi del pane mia moglie ne ha portato. L’ha dato a un milite che ce lo dia -. Diego domandò: - È venuta tua moglie? Ha parlato?... Michele non lo guardava in faccia, teneva lo sguardo alto sul
soffitto. - Di’, Diego, per me non c’è più nulla da fare. Pelle-di- biscia m’ha venduto. L’ha detto
Luciano a mia moglie. É là sotto che piange -. Così disse Michele; nelle sue parole c’era la
semplicità delle cose a lungo temute, una volta che avvengono.
Michele aveva preso a camminare avanti e indietro per il corridoio, con le mani nelle tasche, gli
occhi enormi nelle palpebre che gli pesavano aperte. Talvolta gli altri gli rivolgevano la parola e lui
li guardava smarrito, come dovesse tornare da smisurate lontananze per riaccostarsi agli oggetti del
loro discorso. Forse pensava al vuoto, come per abituarsi a non esistere.
Diego seguiva il passeggiare di Michele da distante, quasi con ansia che gli altri ignari
disturbassero quella camminante agonia: un accenno dei loro discorsi di vivi sarebbe bastato a farlo
a un tratto disperato per la vita perduta. Egli solo di tutti loro sapeva che quell’uomo per il corridoio
camminava verso la morte, distante ormai solo mille, duemila passi. Quella era la sua veglia
funebre: era un morto che passeggiava nella sua camera ardente, in quel corridoio dai rosoni di
stucco scrostati ai soffitti e dalle impronte sbiadite delle specchiere sopra i camini di marmo.
Diego pensava a Michele, vegliandolo: un compagno anziano, Michele, un brav’uomo, pur con
tutti i suoi difetti; non molto coraggioso, non molto in linea col partito. Spesso avevano litigato, per
quella mania di Michele di sputar sentenze e di voler sempre ragione, con la sua prosopopea
d’autodidatta.
Ora Michele camminava per il corridoio, con le mani nelle tasche del cappotto, la grossa testa
calva incassata nelle spalle, i grossi occhi bovini perduti nel vuoto, come sbigottito dell’enormità di
quanto stavano per togliergli. Era un povero uomo basso e calvo, in un vecchio cappotto, con la
barba di tre giorni; ma a Diego parve di vedere in lui, in quei suoi occhi bovini, in quel suo
camminare lento e assorto una forza minacciosa della natura, gli parve che Michele avrebbe
continuato a camminare così anche dopo morto, che sarebbe entrato l’indomani nelle sale dove gli
ufficiali tedeschi facevano i bagordi, dalla finestra, diventato grandissimo, ma sempre nel suo
povero cappotto, con le mani nelle tasche, la testa calva con lo sguardo bovino perduto nel vuoto, e
avrebbe camminato con quel suo lento passo sulle tovaglie macchiate di spumante, in silenzio,
davanti agli alberi di Natale illuminati, alle croci di ferro luccicanti, al nudo delle mammelle e delle
natiche imbandite, tra il terrore degli ufficiali tedeschi e i gridi delle donne. E così avrebbe
continuato a camminare, anche finita la guerra, e i ricchi non avrebbero avuto pace nei loro palazzi,
non gioia nelle loro famiglie, senza che quest’uomo basso e smisurato non fosse entrato dalle
finestre a traversare le loro stanze; e sui tavoli attorno a cui si decide la pace e la guerra e in tutti i
luoghi dove s’impedisce o si toglie o si mente, dove si predica il falso, dove si adorano iddii
ingiusti, sempre sarebbe apparsa l’ombra dell’uomo ucciso la sera sul molo.
Qualcuno dei prigionieri parlò d’uomini impiccati dai tedeschi; Diego vide Michele appeso a un
lampione del porto, gli occhi enormi, le mani strette ancora nelle tasche. E gli parve che a uccidere
Michele fossero stati tutti gli uomini, tutti loro, una colpa senza limiti che doveva togliere ogni gioia
alla vita, da espiarsi nei secoli dei secoli.
Sopra i cerchi nell’acqua dove Michele era scomparso galleggiava solo il suo cappotto vuoto, a
braccia aperte come una croce. La campana della boa rossa in mezzo al porto suonava a morto per il
compagno ucciso, mossa dalle onde. Sotto l’acqua la gomena che teneva ancorata la boa finiva in
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un nodo scorsoio, con la testa di Michele dentro. Ma la testa di Michele veniva a galla, verde
d’alghe, gli occhi sbarrati; dava un urlo. Il vecchio padre vestito da cacciatore s’alzava nella notte e
cominciava a orinare gemendo, enorme sopra tutti loro. I fiumi straripavano, tutti gli uomini cattivi
e buoni venivano sommersi. Gli organi del vecchio, stanchi per aver generato tutti gli uomini, ora
annegavano l’universo. Solo Pelle-di-biscia fuggiva per la terra in cerca di scampo, carezzandosi le
mani sudate, umide dell’acqua putrida dei bidé dell’albergo. Ma ogni bara era occupata da un
morto, ucciso da lui; la fiumana lo circondava da ogni parte, lo travolgeva in un gorgo.
La camionetta era in ritardo quella sera e tutti dicevano con sollievo che non sarebbe venuta.
Michele aspettava affacciato nell’imbrunire. Arrivarono invece quattro torpedoni da turismo,
guidati da soldati tedeschi. Ci fu dell’agitazione tra i rinchiusi, un domandarsi, un supporre. Subito
salì il maresciallo con l’elenco e li chiamò uno per uno. Michele e Diego furono chiamati insieme
agli altri, con i nomi falsi che avevano dato; anzi il nome di Michele il maresciallo lo pronunciò
storpiato, come se non l’avesse mai inteso.
I prigionieri furono divisi in quattro squadre e fatti entrare a uno a uno nei torpedoni. Diego e
Michele si ritrovarono vicini, ancora uniti a quella folla quasi gelosa dell’ingiustizia subìta. Tra le
voci ansiose di quegli uomini girò un nome partito non si sapeva donde: - Marassi, Marassi. Ci
portano a Marassi -. Ma quel nome quasi rassicurava Michele e Diego, voleva dire lasciare
quell’angoscia di morte vicina, il Pelle-di-biscia ambiguo, i luoghi noti gremiti d’insidie.
Diego sentiva il ruvido cappotto di Michele sotto le sue dita, il sangue riguadagnare le loro
arterie. Disse: - Te l’avevo detto che Luciano è un contaballe? Te l’avevo detto? - E Michele
ripeteva: - Che contaballe, di’! - con un sorriso già più sciolto, come se apprezzasse uno scherzo.
E i due compagni compresero che qualunque fosse il loro destino da allora in poi, di sangue,
d’urli, di sfinimento, pure avrebbero sentito il gusto sanguigno dell’essere vivi e del dividere il
dolore come il pane. Un ruvido sapore di vita li avrebbe accompagnati da allora in poi, nei cunicoli
urlanti di Marassi, nei baraccamenti desolati del Nord, fino al ritorno.
COMMENTO
Il racconto non ha un chiaro protagonista, fotografa un ambiente e un clima. L'ambiente è il carcere, il clima è quello determinato dalla morte che incombe come destino probabile e prossimo sui prigionieri. Quella narrata è una vicenda corale che vede alcuni personaggi muoversi in primo piano, i due prigionieri Diego e Michele, il fascista Pelle-di-biscia, più di tutti. I luoghi sono due: la vecchia fortezza sul porto e il grande albergo da poco degradato a caserma e a prigione. Il discorso ha un andamento binario, sempre si susseguono coppie di elementi opposti: la vita e la morte, l'età matura e la giovinezza, la perdizione e il rimorso, la sottomissione apparente e l'odio nascosto, la carcerazione e la libertà. Il contrasto si ritrova anche nella struttura dell'albergo che è divantato una prigione ma è privo di sbarre e di inferriate. A un polo estremo nella scala delle età troviamo il vecchio padre di uno tra i prigionieri con il suo bisogno frequente di urinare. Al polo opposto si situa la moglie di Diego, sposa da ragazza, assai più giovane di lui, con grandi occhi grigi nuvolosi, qualcosa di severo nel viso, incorniciato di capelle lisci e neri, qualcosa d'allegro nel corpo magro, nella corta veste lilla. Anche Michele e Pelle-di-biscia hanno diritto a una presentazione distinta. Il prigioniero è dotato di un profilo più morale che fisico: un compagno anziano, un brav'uomo, pur con tutti i suoi difetti, non molto coraggioso, non molto in linea con il partito. Pelle-di-biscia trasuda ripugnanza nella sua sagoma di ragazzo gracile stretto in una divisa di tela, con un sorriso umido sulle labbra sbavate dall'arsura. Le emozioni dei prigionieri assumono in taluni momenti una forma corporale: una goccia fredda che scivola lungo la schiena, il sangue che riguadagna le arterie. Sembrerebbe una discesa agli inferi se non fosse che all'abisso della disperazione subentra volentieri il soprassalto della speranza. Un tratto questo comune all'esperienza dei reclusi nei campi di concentramento. A Diego (non a Michele) per esempio sarebbe piaciuto con una donna come quella girovagare per paesi soleggiati e senza ingiustizie. Qua e là si configurano spettacoli immaginari di morte o di riscatto. Torna l'idea dell'offesa ricevuta, come nell'altro racconto, La stessa cosa del sangue. Si tratta, ora, di una atrocità collettiva: l'uccisione paventata di Michele sarebbe da attribuire a tutti gli uomini, una colpa senza limiti che doveva togliere ogni gioia alla vita, da espiarsi nei secoli dei secoli. Alla fine non c'è la liberazione, c'è il passaggio da un luogo di prigionia all'altro. Con la prospettiva di un ritorno finale a casa. Di nuovo una sensazione fisica chiude l'intero racconto: un ruvido sapore di vita.
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