mercoledì 26 febbraio 2025

Il tempo immobile di Casorati




Chiara Gatti, Il caos calmo di Felice Casorati, la Repubblica, 26 febbraio 2025


Milano – Il tempo non esiste per la fisica teorica e neppure per Felice Casorati. Il tempo, per il grande pittore italiano, maestro assoluto dell’attesa e dell’oblio, è un’esperienza interiore, è la forma del nostro percepire il mondo e ciò che si agita nel cuore. Il resto è silenzio. Per questo le sue mele non marciscono, gli sguardi delle sue donne eteree si perdono nel vuoto, la polvere si ferma in sospensione e i bambini, sotto le frange sforbiciate, non invecchiano mai. «Quanta poesia nelle cose immobili!» confessa all’alba del 1912, stregato da portagioie celesti, collane di corallo e da quelle scodelle bianche che diventeranno l’icona muta e potente dei suoi enigmi quotidiani.

Si percorre così, in uno stato di rapimento vagamente sensuale, la mostra dal titolo nudo e puro Casorati, allestita al Palazzo Reale di Milano (fino al 29 giugno), prodotta da Marsilio e curata da Giorgina BertolinoFernando Mazzocca Francesco Poli, massimi studiosi dell’artista di Novara, classe 1883, morto a Torino nel 1963 dopo aver attraversato mezzo secolo e i suoi stravolgimenti: il vortice delle avanguardie storiche dichiarandosi antifuturista; il primo conflitto combattendo sulla frontiera del Tirolo; poi il ventennio e il secondo conflitto aggrappandosi alla lezione del passato per sfuggire ai drammi del presente.

Davanti alla realtà di cristallo di oltre cento opere, tutti capolavori, fra dipinti, sculture e incisioni della stagione simbolista, si capisce come il suo tacere sia un caos calmo, una fuga non spostandosi di un metro e anche un atto di accusa che striscia in sottotraccia, rispondendo alla retorica di regime con «la dolente malinconia del nostro tempo», come dirà l’amico scrittore e pittore Carlo Levi in un articolo struggente all’indomani della sua scomparsa.

L’andamento cronologico accompagna lungo la sua ricerca, indagando nel dettaglio ogni passaggio e debito. Gli esordi dal gusto liberty di un ragazzo autodidatta cui scoppia nel petto «il demone della pittura», studiando Botticelli e Kandinskij, sono superati dall’attrazione fatale per l’estetica decadente dei “salottini in disuso” alla Gozzano. Ecco allora le figure allegoriche delle quattro Signorine, acquistate dal Comune di Venezia in Biennale per destinarle a Ca’ Pesaro, seminare oggetti come sciarade su un tappeto di fiori secessionisti, mentre stelle cupe e baci avvinghiati, eredi di Klimt, stillano uno spirito dannunziano e onirico in pezzi strepitosi della giovinezza come La via lattea del 1915, sintesi lirica di «notti popolate da “esseri invisibili”, “spiriti” e “allucinazioni”».

Frequentando le Biennali di Venezia, assorbe il succo delle novità in circolo, vivendole come luogo di dialogo e scoperta; la stessa cerchia di Ca’ Pesaro è densa di stimoli, visto il confronto coi colleghi Arturo Martini o Ubaldo Oppi. Muovendosi fra Verona (dove allestisce l’atelier in una sala da ballo), Torino (alla Promotrice) e Roma (in Quadriennale) la sua strada si intreccia a quelle di de Chirico Carrà, i dioscuri della Metafisica, la poetica dell’eternità rappresa in un manichino, destinata a segnare il periodo maturo delle sue «nature morte artificiali», così definite da Lionello Fiumi nel 1919.

Le famose scodelle o le uova algide di Casorati – amatissime dall’amico antifascista Piero Gobetti – sono infatti solidi geometrici, architetture minime, tanto quanto le bottiglie di Morandi. Con la differenza che sulle bottiglie scorre il tempo scandito dalle ombre, mentre le uova che Felice ruba alla Pala di Brera di Piero della Francesca o alle ceste di Cézanne (ammirato in Laguna nel 1920), sono moduli per misurare e trasfigurare lo spazio.

Rinascimento e astrazione si toccano pure nei nudi fanciulleschi (La donna e l’armatura, visione erotica) ma, più che mai, nei ritratti ipnotici. Silvana Cenni è una madonna, una sfinge, un oracolo, una dea. È una figura immaginaria, custodita gelosamente nello studio di Torino e adesso allestita a due metri d’altezza per acuire la prospettiva del pavimento che s’arrampica verso un paesaggio ispirato al Quattrocento, come lo sono i davanzali memori di Antonello o di Bellini, nei mezzi busti di Cesarina Riccardo Gualino.

Lui, imprenditore e mecenate, commissiona a Casorati il progetto per un teatrino nel suo palazzo torinese, prima di finire al confino per via delle critiche espresse alla politica economica di Mussolini. È il 1931: nello stesso anno il “suo” critico Lionello Venturi migra a Parigi per aver rifiutato il giuramento dei docenti al fascismo, mentre Casorati sposa l’allieva inglese Daphne Maugham (nipote del grande scrittore Somerset) giusto un mese dopo il rogo al Glaspalast di Monaco, sede dell’Esposizione internazionale, che riduce in cenere nove sue opere capitali, fra cui Lo studio, presentato alla Biennale del ’24 in una sala personale oggi ricostruita coi pezzi superstiti. Fra questi, spicca il Meriggio, dove tre corpi spogli sono assopiti fra coperte di panno. «L’immobilità delle figure ancora perfetta non è più assoluta...» spiega egli stesso in una conferenza del 1943 all’Università di Pisa.

La coscienza dell’epoca tragica sembra riattivare improvvisamente il tempo, che ora fluisce sulla pelle tradito dai raggi di sole.

Nessun commento:

Posta un commento