Negli ultimi trent'anni più volte nella politica italiana un partito è sembrato sopravanzare tutti gli altri per arrivare a porsi come rappresentante potenziale dell'intera nazione. Colui o colei che si trova a capeggiare la forza politica sulla cresta dell'onda può pensare di avercela fatta. Quello che era il suo partito sta diventando, è diventato il partito della nazione. Ora è Giorgia Meloni a coltivare un'idea simile. Prima di lei. era suvccesso a Berlusconi con Forza Italia, poi a Renzi (Renzi!) con il Pd, a Di Maio (Di Maio!) con i Cinque Stelle, e infine a Salvini con la Lega: e fu la breve stagione del Papete. Giorgia Meloni, al di là dei proclami trionfalistici, ha il serio problema di consolidare il risultato raggiunto tesaurizzando per quanto possibile il consenso finora ottenuto. Come questo possa accadere - elezioni anticipate, crescita a danno degli alleati, nuove regole per lo scrutinio - non è dato per il momento ipotizzare. Né è dato sapere se il vento favorevole continuerà a soffiare fino alla prossima chiamata alle urne. Probabilmente la destra al potere è destinata a mantenere una composizione plurale che promette anche di reggere agli scossoni disseminati lungo il percorso futuro.
Ben diverso è il caso dello schieramento opposto che non può puntare su un semplice mantenimento della sua consistenza attuale, come sembra proporre Dario Franceschini. Sarebbe interessante stabilire come merita di essere chiamato lo "schieramento opposto". Il nome sinistra non gli si addice dato che viene respinto dal capo attuale dei Cinque Stelle. Quest'ultimo si considera "progressista", ma è da vedere se l'espressione vale anche per il centro residuo di Renzi e Calenda. Va bene parlare di "campo larghissimo", ma esiste un aggettivo che sia in grado di precisarne l'orientamento politico? Renzi ora si colloca nell'area del Pd, mentre Calenda si mantiene sulla soglia dell'intero schieramento, non sta né di qua, né di là. E poi la base stessa della sinistra appre contraria alla grande ammucchiata. Come risulta dal sondaggio di Alessandra Ghisleri per la trasmissione Porta a Porta, l'ipotesi di un "campo larghissimo", appunto, ossia di un'alleanza che incuda anche Italia viva (Renzi) e Azione (Calenda) non scalda molto i cuori tra i democratici e i pentastellati. Scrive Massimiliano Panarari sulla Stampa di oggi:
"Proprio alla luce di questo scenario, a proposito di quanto documentava il sondaggio di ieri di Alessandra Ghisleri, la sinistra-sinistra rischia di fare testimonianza, mentre avrebbe l'esigenza di presentarsi almeno come sinistracentro, se non di tornare a essere compiutamente un centrosinistra. E avrebbe bisogno, sebbene in vari settori del suo elettorato prevalga il virus della divisione e della purezza identitaria – che pare inestirpabile come l'influenza di questa stagione –, dell'unità [corsivo aggiunto] di tutti i progressisti, centristi e riformisti compresi".
Insomma il bravo opinionista arriva a invocare l'unità per uno schieramento che di fatto ha solo una definizione geometrica e che è tuttora privo di una etichetta politica forte. Perché non è il caso di alzare le spalle di fronte all'ostacolo lessicale. Se la parola giusta manca all'appello, ciò accade perché il contenuto sostanziale è oscuro. Il significante è geometrico, mentre un significato persuasivo non può essere detto senza ricorrere a una qualche forzatura. Bisognerebbe arrendersi all'evidenza. A destra c'è una omogeneità culturale di fondo, a sinistra o per meglio dire nello schieramento opposto manca una lingua e soprattutto un discorso, un vero discorso, comune. Va bene auspicare che si arrivi a uno schieramento capace di evitare la dispersione dei voti. Ma non si parli di unità, per favore. L'unità presuppone una battaglia culturale che una parte della sinistra dovrebbe condurre puntando a unificare culturalmente il cosiddetto campo largo, almeno: Il Pd, i Cinque Stelle, l'Alleanza Verdi Sinistra.
Se mai il campo degli esterni allo schieramento governativo di destra dovesse puntare alla vittoria e non solo a un piazzamento più o meno onorevole, al di là dei chiarimenti sul fondo - cosa vogliamo? cosa faremo nei primi cento giorni? quali sono le nostre priorità nel medio e nel lungo periodo? -, non sarebbe male che una domanda o due trovassero una risposta. Prima domanda: lo schieramento vuole strappare voti alla destra? impresa quanto mai ardua, per non dire disperata. Gli esterni da Conte a Calenda non hanno perso per via del successo conseguito dai loro avversari nella caccia ai voti. Nel 2022 la destra ha preso gli stessi voti di prima in termini assoluti: 12.305.014 contro 12.409.981 nel 2018. Nel campo larghissimo, tra gli esterni, si è invece prodotto il crollo dei 5 Stelle: hanno ottenuto 4.335.494 voti, ne avevano presi 10.945.411 la volta prima. Gli astenuti sono passati da 12milioni e 800mila circa a 17 milioni. Ed ecco la seconda domanda, quella decisiva: come si può incidere sul fenomeno dell'astensione che ormai colpisce assai più gli esterni che non la destra? Faceva notare qualche tempo fa Paolo Natale come nel campo dell'opposizione aleggiasse "una sorta di insicurezza, indecisione, incapacità di vedersi interprete attivo della vita democratica, quanto meno attraverso l'espressione del voto" (Votanti a destra, astenuti a sinistra, Gli Stati generali, 9 agosto 2023). Questa è la malattia che si tratta di debellare e per una simile operazione non basta certo riproporre pari pari il solito schieramento senza carattere.
Sarebbe necessario imbastire una nuova narrazione nella quale la rivincita sulle pretese maggioritarie della destra cominciasse ad apparire cosa ragionevole e sensata. Sarebbe soprattutto necessario trovare il linguaggio e le persone adatte per parlare agli esclusi, ai dimenticati, a quanti non osano più sperare in un futuro diverso. Gli esterni potranno aspirare alla vittoria solo se riapriranno le porte alla speranza, se sapranno parlare con convinzione di un altro mondo possibile. Non è cosa da poco. Per questo non basta dire che cosa non va. Occorre dire come può andare, come sta andando là dove si stanno sperimentando soluzioni alternative efficaci. Di questo ha parlato, oggi, sulla Stampa Alessandro De Angelis.
Alessandro De Angelis
Se il paese non smette di guardare al passato
La Stampa, 3 febbraio 2025
Se il paese non smette di guardare al passato
La Stampa, 3 febbraio 2025
Il discorso pubblico è piuttosto incline a rivolgere la testa al passato. Si celebra molto, ma è come mostrare una foto nel salotto: chi c'era pensa, con un po' di nostalgia, quanto stava bene allora. Un "come eravamo", buono per cultori della materia, sempre meno, e protagonisti canuti che resistono all'uscita di scena, in un paese, esso stesso, molto brizzolato. Qualche intervista e via. Chi non è brizzolato, cambia canale (e talvolta pure paese). Del resto, come può essere interessato se si parla di robe del secolo scorso, sconnesse da quel che accade: Fiuggi mica è stata l'occasione, a destra, per farsi due domande sull'oggi, così come Berlinguer è un santino buono per essere stampato sulle tessere, mica per fare i conti con la [nuova] "questione morale" dei capibastone al Sud. Vale anche per Craxi e il "riformismo", altra parola depauperata di senso; per l'Ulivo che pare una seduta spiritica agli occhi di chi è nato quando Prodi cadde in Senato e vota quest'anno per prima volta; per i cattolici e il loro ruolo, tema che, attualizzata sugli interrogativi etici di oggi e non dei tempi di Don Camillo, sarebbe pure interessante.
In fondo, la celebrazione è finzione conservativa. Da un lato il passato, trasformato in un ferro vecchio per l'oggi, al massimo strumento (autoreferenziale) di contesa alla bisogna. Dall'altro il presente senz'anima. Risultato: c'è una parola che manca, nel discorso pubblico. Che è la più importante: "futuro". Manca proprio perché siamo immersi dentro un presentismo in cui la dimensione prevalente è il qui e ora, il potere come gestione e la velocità come mito sostitutivo della profondità e del dubbio. Tutto si consuma nello spazio di un tweet e di una dichiarazione che ecciti gli eserciti di follower. Nulla si sedimenta. Ma una democrazia muore se si riduce solo a pagine Instagram e teche, senza grandi racconti che facciano camminare oltre le une e le altre. Appunto, nel futuro.
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