mercoledì 26 febbraio 2025

Il vero e il falso


Margherita Marvulli, Storie per credere alla storia, Corriere della Sera, 26 febbraio 2025

Alcuni saggi sono come spiragli. Non pretendono di esaurire il proprio oggetto, né di offrirne una rappresentazione sommaria. Socchiudono piuttosto una porta, dal cui uscio si intuisce uno spazio che non afferriamo del tutto ma di cui percepiamo la vastità. Appartiene a questa tipologia Cambiare la storia. Falsi, apocrifi, complotti di Adriano Prosperi, di recente uscito nelle «Vele» Einaudi (collana che, a suo merito, conta al proprio interno molti simili «spiragli»): una riflessione che si sviluppa a partire da quattro falsi celebri per affrontare l’immenso tema del senso della ricerca storica. Infatti, se «la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità è quello che si chiede allo storico», come scrive l’autore nelle prime righe, emerge qui che le categorie del vero e del falso sono molto più ambigue e problematiche di quello che sembra quando si tratta di determinare l’oggettività di un «fatto storico». Problema non da poco, se dall’accertamento e dalla combinazione di tali «fatti» ci si attende l’agognata «verità».

Il discorso di Prosperi comincia da quello che è considerato il «falso dei falsi, la madre di tutti i falsi»: il Constitutum Costantini (l’editto, datato 315 d.c., con cui l’imperatore Costantino, guarito dalla lebbra dal battesimo di Papa Silvestro, gli offre in dono la parte occidentale dell’impero, con Roma, e le insegne del potere). Documento sensibile, perché ha costituito la base giuridica per l’affermazione del potere temporale del papato. Già attaccato nella sua legittimità (secondo i critici, né l’imperatore aveva il diritto di alienare territori e poteri spettanti all’impero, né il pontefice, in quanto guida spirituale dei credenti, diritto di riceverli) fu duramente contestato anche nella sua autenticità dall’umanista Lorenzo Valla nella sua orazione De falso credita et ementita donatione Constantini (1440). Il suo esame è innovativo perché si avvale non solo di argomenti che confutano la validità formale e la plausibilità storica della donazione, ma cerca (e trova) la prova decisiva in elementi interni di natura testuale. Rileva una serie di anacronismi che dimostrano senza ombra di dubbio come quel documento non possa essere attribuito al IV secolo d.c.: il suo latino è pieno di barbarismi e si fa menzione di istituti evidentemente non dell’epoca. La Chiesa tentò di silenziare la Declamatio ma alla fine giustizia fu fatta: nella donazione fu riconosciuto un apocrifo e il testo di Valla segnò l’atto di nascita della filologia come libero esercizio della critica — e dunque dell’intelligenza razionale — contro «canonisti e teologi», vale a dire contro il principio di autorità. Una storia gloriosa, parrebbe, in cui la verità celebra il proprio trionfo.

«Ma è proprio vero?» scrive Prosperi. «E fino a che punto il falso ha contribuito a modificare il processo storico? Esiste un qualche rapporto fra la lunga polemica intorno al Constitutum Constantini e la questione del potere temporale del papato, dibattuta fino all’appuntamento del concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede?» (il che ci porta fino al 1929!). Come dire: riscontrato il falso, si chiude la partita? Oppure si apre una nuova indagine, che ha a che fare con le ragioni che lo hanno prodotto e le conseguenze che ne sono scaturite? Ha scritto Federico Chabod: «il Constituto non serve a nulla per la storia del secolo IV, ma serve moltissimo per quella del secolo VIII», cioè per capire «le aspirazioni e gli intendimenti politici della Chiesa» nel momento in cui il documento fu allestito (Lezioni di metodo storico, 1969).

Ma seguiamo Prosperi nel suo ragionamento fino all’ultimo degli esempi scelti: i Protocolli dei Savi anziani di Sion. Se il problema fosse riconoscere il falso in quanto tale, qui il racconto sarebbe molto breve: è sufficiente arrivare agli anni Venti del Novecento per accertare come questi presunti «verbali», apparsi tra il 1903 e il 1905 a testimonianza di una cospirazione mondiale ebraica, fossero una falsificazione per alimentare la propaganda antisemita in Russia. Tuttavia, «l’efficacia è stata del tutto indipendente dalla fede nella loro autenticità»: esportati all’estero dopo la Prima guerra mondiale hanno continuato a fomentare l’antisemitismo. La tesi a sostegno della loro perdurante circolazione è che, pur essendo falsi, rappresenterebbero il vero. La convinzione fideistica nell’esistenza reale di un complotto ebraico ha fatto sì che il documento che lo attesta, pur malamente confezionato, sia stato considerato «veridico». E tanto è bastato.

Con questo il cerchio si chiude: siamo partiti da una prova che smaschera il falso con la forza della ragione per arrivare a una credenza che rende vero ciò che è di conclamata inautenticità. In questi passaggi, il falso ha avuto il potere di «cambiare la storia» grazie al suo «effetto risonanza», che ha prodotto una distorsione nella percezione del passato. E questo, ci avverte Prosperi, vale anche per operazioni retroattive come quelle classificate con la moderna e anglofona etichetta di cancel culture (ma sempre esistite) con cui si seleziona quanto del passato corrisponde a una sensibilità o interesse presenti, espellendo ciò che turba, imbarazza oppure nuoce al racconto che si vuole diffondere (lo storytelling, si direbbe oggi).

La storia non è dunque una realtà fissa e immobile davanti ai nostri occhi: muta di continuo, e non solo perché studiandola la comprendiamo più a fondo. I casi citati da Prosperi sono noti, istruttiva è l’avvertenza che l’autore ne trae, affidandola alle parole di Marc Bloch: «L’errore non si propaga, non si amplia, non vive se non a una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita» (Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, 1921). L’inautenticità non invalida un documento, anzi. Lo trasforma in un testimone di qualcos’altro, che potrebbe essere persino più importante. Vero, falso o finto che sia, un testo è un messaggero e dunque un portatore di informazioni, che è compito degli studiosi decifrare con tutti gli strumenti del «mestiere». Ma il principio è valido anche per chiunque senta come necessario instaurare un rapporto critico e consapevole con il passato. Perciò questo piccolo libro è una preziosa indicazione di metodo che giova a tutti.





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