mercoledì 5 febbraio 2025

L'Ulivo che non torna




Andrea Carugati
L'Ulivo trent'anni dopo. Nostalgia senza autocritica
Un modello da seguire per le generazioni future? In questi giorni la suggestione torna a farsi insistente, soprattutto da parte di alcuni protagonisti dell’epoca.
il manifesto, 5 febbraio 2025

C’era una volta l’Ulivo, nato giusto trent’anni fa anche come risposta al tragico errore del 1994, quando ex democristiani e post comunisti si presentarono divisi al voto favorendo la vittoria di Silvio Berlusconi. Attorno a quel ramoscello, e alla sua clamorosa vittoria del 1996, nel corso degli anni è cresciuta la nostalgia, un po’ come per la nazionale italiana del 1982: un momento magico, un successo che in pochi si aspettavano.

Quella stagione ha prodotto un frutto, il Pd, che è ancora uno dei protagonisti della scena politica, pur con tutti i suoi limiti. Un figlio spesso disconosciuto dai padri (madri ce n’erano poche tranne Rosy Bindi) e prova ne è il rapporto travagliato con Romano Prodi, ben oltre la misera vicenda dei 101 franchi tiratori del 2013.

L’Ulivo nacque nel pieno della temperie dei 90, prima ancora del New Labour di Blair, anticipandone alcuni capisaldi ma con peculiarità tutte italiane: era il tentativo di mettere insieme l’Italia anti-berlusconiana, ma con una visione propositiva, non solo «contro» qualcuno.

C’era la volontà di risanare il debito pubblico per poter entrare in Europa tra i primi della classe, con l’adesione alla moneta unica. E quella di contrastare l’evasione fiscale, che prese le sembianze di Vincenzo Visco; e di modernizzare una macchina pubblica anchilosata e spesso corrotta.

C’era, e non è un dato da sottovalutare, la volontà degli ex Pci di andare finalmente al governo, dopo cinquant’anni dalla Liberazione. E la consapevolezza di una parte del mondo cattolico che l’unità politica era finita, e che col sistema maggioritario bisognava scegliere da che parte stare: destra o sinistra. E c’era nella triade che ispirò quell’esperienza, Giovanni Bazoli, Nino Andreatta e Romano Prodi, il disegno di sdoganare gli ex Pci ma anche di addomesticarli, portandoli nelle stanze dei bottoni ma senza affidare loro la guida politica.

La storia di quella legislatura racconta un grosso e insperato successo, l’ingresso nell’euro con i parametri in ordine, ma anche una tensione irrisolta con i principali partiti che avevano dato vita a quell’esperienza, l’orgoglio delle radici socialiste e popolari, rappresentate da Massimo D’Alema e Franco Marini, che non volevano ridursi ad appendici sotto la leadership di Prodi. Una tensione che contribuì alla crisi del 1998, insieme all’ambizione di D’Alema che voleva palazzo Chigi e alla picconate di Bertinotti che contestava un eccesso di moderatismo nell’azione del governo, vedi lo scontro sulle 35 ore.

Gli anni 90, la piena travolgente della globalizzazione, la sbornia maggioritaria che puntava troppo sulla razionalità dell’elettore medio, non permisero di osservare con cura cosa covava sotto la pelle del paese: il ribellismo anti-politico della piccola borghesia imprenditoriale del Nord, la precarietà che si faceva strada anche grazie a norme varate da quei governi come il Pacchetto-Treu, che aprì la strada a varie forme di lavoro (allora) atipico. L’irrisolta questione meridionale.

In quegli anni l’economia tirava e la spinta riformatrice si indirizzò soprattutto in direzione di un’apertura al mercato e alla rinuncia da parte dello Stato all’intervento sull’economia, in nome di una maggiore efficienza. Su questi temi non ci furono vere divisioni tra i principali leader, più impegnati a litigare sulla forme della politica, tra chi sognava l’Ulivo come partito e chi difendeva le vecchie culture e nomenklature. Ma anche i Ds di D’Alema, ancorati al socialismo europeo, erano (per certi versi più degli ex Dc) permeati dalla temperie mercatista ed efficientista, anche in settori cruciali come scuola e università. Una temperie, che in Italia si è fatta più cruenta molti anni dopo con Renzi, che spingeva i partiti progressisti più vicino alla ragioni degli imprenditori che a quelle dei sindacati, con la conseguente svalutazione del lavoro.

Cosa significa dunque oggi ripensare all’Ulivo? Al netto della nostalgia per la prima vera vittoria delle sinistre, assai poco. E anzi, il centrosinistra paga lo scotto di non avere fatto abbastanza i conti con le sue stagioni di governo. Non solo le parentesi autolesioniste dei due governi tecnici (Monti e Draghi), ma anche quelle figlie di successi elettorali, 1996, 2006 e 2013. E non solo su immigrazione e diritti civili, su cui Elly Schlein ha impresso una revisione critica piuttosto robusta, ma anche sulle politiche economiche e sociali: se oggi l’Italia è così diseguale, se i salari non crescono dagli anni Novanta, la colpa non è solo di Berlusconi e Meloni. Anzi.

E questo è il nodo su cui gli sforzi della leader dem appaiono meno efficaci, anche a causa della forte resistenza che incontra, prova ne sono le divisioni dentro il Pd sui referendum della Cgil.

Dell’Ulivo resta dunque la spinta a mettere insieme forze diverse con un progetto comune che non sia solo «contro» la destra al governo. Non stupisce che Prodi si arrovelli su questo, spronando Schlein a uscire dalla vaga formula del «più soldi alla sanità» per chiederle un vero e sostenibile progetto di riforma del welfare. E non stupisce che il padre nobile dica no alla proposta di Franceschini di costruire un cartello elettorale senza un programma condiviso.

Ma quel programma, per esistere, deve guardare in faccia gli errori di trent’anni, il dna costitutivo dell’Ulivo e poi del Pd del Lingotto, l’idea-guida che il conflitto sociale fosse archeologia. La nostalgia dell’Ulivo si mescola con le spinte di chi si ostina a pensare che si vince al centro. Con lo sguardo miope di chi non vede come a imporsi oggi sia la radicalità di Trump, di Le Pen e di Afd: la destra che si afferma sulle macerie della globalizzazione.

Mentre l’Ulivo era uno dei figli della stagione dell’ottimismo, del governo come «forza tranquilla». A Schlein, e ai suoi potenziali alleati, tocca cercare strade nuove nel tempo della rabbia e della disillusione, delle destre senza più freni inibitori.

Nessun commento:

Posta un commento