lunedì 24 febbraio 2025

Alienazione e sentimento in Calvino


Ermanno Olmi, Il posto (1961)

La condizione sociale dei personaggi nell'opera narrativa di Italo Calvino merita un esame più attento. Colpisce la scarsa presenza degli operai. Marcovaldo è un impiegato e un operaio al tempo stesso, una figura intermedia, essendo di fatto magazziniere. Non ci sono operai nella trilogia dei Nostri antenatiMedardo di Terralba, Cosimo Piovasco di Rondò e Agilulfo vivono in epoche lontane, in un mondo che non è stato ancora toccato dalla Rivoluzione industriale. Agilulfo, il cavaliere inesistente, è addirittura uno tra i paladini che si trovano alla corte di Carlomagno. Medardo di Terralba, il visconte dimezzato, aveva per compagno un medico inglese che aveva esercitato la sua professione sulle navi  del capitano Cook; questo permette di collocare la vicenda narrata intorno agli anni 1770. Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante, è già in movimento al tempo di Voltaire e dell'Enciclopedia, ma fa in tempo a conoscere la Rivoluzione e l'Impero, parla con Napoleone in persona, incrocia il principe Andrej di Guerra e pace e da ultimo sperimenta l'avvio della Restaurazione. Se poi andiamo a vedere i racconti inclusi in Ultimo viene il corvo troviamo personaggi in genere molto pittoreschi, tutti collocabili in una posizione sociale lontana dall'universo del capitale e del lavoro salariato in una fabbrica o manifattura che sia. Ci sono un giardiniere, dei ragazzi ancora adolescenti, due bambini, due o tre coltivatori diretti, dei lavoranti, dei contadini poveri, un pastore, dei proprietari terrieri un po' agiati, un apicultore, degli studenti, diversi partigiani, dei trasportatori dotati di un animale - bue in un caso, mulo nell'altro -, degli animali tra i quali un gatto, dei trafficanti in dollari, delle prostitute, il cavalier servente di una vedova, un fante, un giudice, un poliziotto, un finanziere, un giornalista, un deputato, un generale, un contrabbandiere e un pescivendolo (più esattamente uno che vende frutti di mare).

La novità si produce nel 1957, quando a Torino si forma un gruppo di artisti decisi a introdurre un nuovo repertorio nel campo della musica leggera. Non più le canzoni stucchevoli presentate al Festival di Sanremo ma dei pezzi ispirati a tematiche di rilievo sul piano civile, sociale o politico: i cantacronache. Per loro Calvino nel maggio 1958 scrisse in particolare un testo sulla vita di due sposi la cui vita affettiva e sessuale era devastata dalla necessità di rispettare i turni di lavoro in fabbrica. Niente più amore, cuore e fiore disposti alla fine di ogni verso per fare rima, ma una pesante routine in un quadro fatto di nebbia e sguardi tristi. Concessioni al sentimento: un bacio in fretta e il tepore del letto. Canzone triste si intitolava il brano, fu musicato da Sergio Liberovici e portato in scena dalla moglie di lui, Margherita Galante Garrone, detta Margot.  

Erano sposi. Lei s'alzava all'alba
prendeva il tram, correva al suo lavoro.
Lui aveva il turno che finisce all'alba
entrava in letto e lei n'era già fuori.

Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.

Dopo il lavoro lei faceva spesa
- buio era già - le scale risaliva.
Lui in cucina con la stufa accesa,
fanno da cena e poi già lui partiva.

Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.

Mattina e sera i tram degli operai
portano gente dagli sguardi tetri;
fissar la nebbia non si stancan mai
cercando invano il sol, fuori dai vetri.

Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.

Poco tempo dopo, in novembre, Calvino pubblicò una nuova edizione dei suoi racconti, aggiungendo a quelli già pubblicati in precedenza dei nuovi pezzi e, tra questi, inserì una versione narrativa della vicenda trattata nella canzone. Invece dei versi allineati in uno spazio ristretto alcune pagine dense di  nuovi particolari altrettanto significativi e realistici. Umberto Massola era l'operaio comunista che aveva scritto un resoconto emblematico degli scioperi in tempo di guerra. E Arturo Massolari si chiama il protagonista del racconto. La moglie è nota solo con il nome di Elide. Il risveglio di lei al mattino è descritto con minuzia. Perfino i rumori sono codificati e si ripetono uguali da una volta all'altra. C'è l'imbarazzo di lei nel mostrarsi spettinata e ancora impastata di sonno. Le cose vanno meglio quando lui fa in tempo a svegliare Elide portandole il caffè. Un abbraccio suggella l'incontro. Il cappotto umido di nebbia evocato nella canzone diventa un giaccone impermeabile che funziona da rilevatore del tempo atmosferico. Qualche parola su ciò che era successo nelle ore precedenti, la prossimità dei corpi in bagno, lei che si veste, lui che la guarda con un certo imbarazzo, arriva il momento del bacio e lei è già proiettata fuori. Lui la segue con l'udito e con il pensiero. Poi Arturo si mette a letto e, quando si alza cerca di sbrigare, e sbriga malamente, qualche faccenda domestica. La cena viene consumata a spese di una tenerezza che non riesce a trovare il suo spazio. Alla fine con perfetta simmetria rispetto al mattino è Elide a ritrovarsi da sola nel letto e a cercare una traccia del calore lasciato dal suo sposo. Il fascino del racconto sta tutto nella finezza con cui viene analizzato e descritto l'intreccio tra il sentimento e l'invadenza delle abitudini meccaniche. 

L’avventura di due sposi

L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei.  Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione,  in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette,  cioè  alle  volte  un  po’  prima  alle  volte  un  po’  dopo  che  suonasse  la  sveglia  della  moglie, Elide.    Spesso  i  due  rumori:  il  suono  della  sveglia  e  il  passo  di  lui  che  entrava  si  sovrapponevano  nella mente  di  Elide,  raggiungendola in  fondo al  sonno, il  sonno  compatto  della  mattina  presto  che  lei  cercava  di  spremere  ancora  per  qualche  secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli  appariva così,  in  cucina,  dove  Arturo  stava  tirando  fuori  i  recipienti  vuoti  dalla  borsa  che  si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull'acquaio. Aveva  già  acceso  il  fornello  e  aveva  messo  su  il  caffè.  Appena  lui  la  guardava,  a  Elide  veniva  da  passarsi  una mano  sui  capelli,  da  spalancare  a  forza  gli  occhi,  come se ogni volta si vergognasse un po' di questa prima immagine  che il marito aveva di lei  entrando  in  casa,  sempre  così  in  disordine,  con  la  faccia  mezz’addormentata.  Quando  due  hanno  dormito  insieme  è  un’altra  cosa,  ci  si  ritrova  al  mattino  a  riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari.    Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè,  un minuto prima che la sveglia suonasse; allora  tutto era più naturale, la  smorfia  per  uscire  dal  sonno  prendeva  una  specie  di  dolcezza  pigra,  le  braccia  che  s’alzavano  per  stirarsi,  nude,  finivano  per  cingere  il  collo  di  lui.  S’abbracciavano.  Arturo  aveva  indosso  il  giaccone  impermeabile;  a  sentirselo  vicino  lei  capiva  il  tempo  che  faceva:  se  pioveva  o  faceva  nebbia  o  c’era  neve,  a  secondo  di  com’era  umido  e  freddo.  Ma  gli  diceva  lo  stesso:  –  Che  tempo  fa?  –  e  lui  attaccava  il  suo  solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli  erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo  di  fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul  lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.    A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un  po’  rabbrividendo, e  si lavava,  nello  stanzino  da  bagno. Dietro  veniva lui,  più  con  calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e  l’unto dell’officina. Così stando  tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi,  un po’ intirizziti, ogni  tanto dandosi delle spinte,  togliendosi di mano il sapone, il  dentifricio, e  continuando a  dire le  cose  che avevano  da  dirsi,  veniva il momento  della confidenza, e alle  volte, magari aiutandosi a  vicenda a strofinarsi la schiena,  s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati. Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una  sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po' impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e  già la si sentiva correre giù per le scale. Arturo  restava  solo.  Seguiva il  rumore dei  tacchi di Elide giù  per  i  gradini,  e quando non  la  sentiva  più  continuava  a seguirla  col  pensiero,  quel  trotterellare veloce per il  cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene,   invece: stridere,  fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona  che  saliva. “Ecco,  l’ha preso”,  pensava,  e vedeva  sua  moglie  aggrappata  in  mezzo alla folla d’operai e  operaie  sull’”undici”, che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca,  chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in  letto.    Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo,  era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte,  per  bene,  ma  dopo  allungava  una  gamba  in  là,  dov’era  rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla  parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di  lei,  e  affondava  il  viso  nel  suo  guanciale,  nel  suo  profumo,  e  s’addormentava.    Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva  acceso  la  stufa,  messo  qualcosa  a  cuocere.  Certi  lavori  li  faceva  lui,  in  quelle  ore  prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da  lavare.  Elide  poi  trovava  tutto  malfatto,  ma  lui  a  dir  la  verità  non  ci  metteva  nessun  impegno  in  più:  quello  che  lui  faceva  era  solo  una  specie  di  rituale  per  aspettare lei,  quasi  un  venirle incontro  pur  restando  tra le  pareti  di  casa, mentre  fuori  s’accendevano  le  luci  e  lei  passava  per  le  botteghe  in  mezzo  a  quell’animazione  fuori  tempo dei quartieri dove ci sono  tante donne che  fanno la  spesa alla sera.    Alla  fine  sentiva  il  passo  per  la  scala,  tutto  diverso  da  quello  della  mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e  carica della  spesa.  Arturo  usciva  sul  pianerottolo,  le  prendeva  di  mano  la  sporta,  entravano  parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto,  intanto  che lui levava la  roba  dalla  sporta.  Poi:  –  Su,  diamoci  un  addrizzo, – lei  diceva,  e  s’alzava,  si  toglieva  il  cappotto,  si  metteva  in  veste  da  casa.  Cominciavano  a  preparare  da mangiare:  cena  per  tutt’e  due,  poi  la merenda  che  si  portava lui in  fabbrica  per  l’intervallo  dell’una  di  notte,  la  colazione  che  doveva  portarsi  in  fabbrica  lei  l’indomani,  e  quella  da  lasciare  pronta  per  quando  lui  l’indomani  si  sarebbe svegliato.    Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa  doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far  tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la  testa già ad altro.  In quei momenti lì,  alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei  lo  avrebbe  voluto  più  attento  a  quello  che  faceva,  che  ci  mettesse  più  impegno,  oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione.  Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era  tornata, stava già con la  testa  fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare. Apparecchiata  tavola,  messa  tutta  la  roba  pronta  a  portata  di  mano  per  non doversi più alzare,  allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d'avere così poco  tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla  voglia che avevano di star lì a tenersi per mano.    Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere  se  ogni  cosa  era  in  ordine.  S’abbracciavano.  Arturo  sembrava  che  solo  allora capisse  com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici  e scendeva attento le scale.    Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il  marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto,  spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata,  strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui,  ma  ogni  volta  s’accorgeva  che  dove  dormiva  lei  era  più  caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.  

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