Italo Calvino, La stessa cosa del sangue, 1946
Il comunista era un uomo basso, con una grossa testa calva, che aveva girato il mondo e sapeva tutti i mestieri. Era uno che conosceva il male e il bene della vita, vedeva tutto andar male ma sapeva che un giorno andrebbe meglio, era un operaio che aveva letto dei libri, un comunista. Lavorava a giornata per le campagne, perché l'aria delle città non era più buona per lui; e lavorava bene, s'intendeva di semine e d'ortaggi. Ma più gli piaceva starsene seduto sui muri a parlare delle cose che si perdono nel mondo, del caffè che si brucia nel Brasile, dello zucchero che si butta in mare a Cuba, delle scatole di carne che marciscono nei docks a Chicago. E ricordi suoi, di una vita impastata di miseria, d'emigrazioni, di carabinieri; ricordi di un uomo preso a botte dalla vita, di un uomo che si interessa a tutte le cose, al male e al bene del mondo, e ci ragiona sopra.
Il sentiero dei nidi di ragno, 1947
No, i suoi pensieri sono logici, può analizzare ogni cosa con perfetta chiarezza. Ma non è un uomo sereno. Sereni erano i suoi padri, i grandi padri borghesi che creavano la ricchezza. Sereni sono i proletariche sanno quel che vogliono, i contadini che ora vegliano di sentinella ai loro paesi, sereni sono i sovietici che hanno deciso tutto e che ora fanno la guerra con accanimento e metodo, non perché sia bello, ma perché bisogna. I bolscevichi! L'Unione sovietica è forse un paese sereno. Forse non c'è più miseria umana laggiù.
In che senso Calvino era comunista
Nel 1944, prima di unirsi ai partigiani, Italo Calvino aderisce al partito comunista. Lo scrittore poi resterà fedele a questa scelta fino al dissenso sui fatti d'Ungheria e alle dimissioni rassegnate nel 1957. Egli tuttavia ha sempre mantenuto una sua autonomia di giudizio in campo culturale, anche se a volte si è lasciato traviare da un qualche pregiudizio. Tendeva a vedere nel partito un riferimento necessario senza per questo sentirsi obbligato a sposarne gli indirizzi culturali imposti dalla tradizione. Fu sempre scettico nei confronti dell'imperativo realista nel campo dell'arte, per esempio. In una dichiarazione del 1960 definiva anarchica la sua disposizione d'animo fondamentale: "La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una "tabula rasa" e perciò mi ero definito anarchico. Verso l'Unione Sovietica avevo tutto l'armamentario di diffidenze e obiezioni che si avevano di solito, ma risentivo pure del fatto che i miei genitori erano sempre stati inalterabilmente fliosovietici. Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l'azione, e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata" (Album Calvino, 58-59). Certo, negli anni del più stringente legame con il partito, Calvino moltiplica i richiami a posizioni ideologiche di natura marxista. Eppure, come ha fatto notare Gianfranco Ferretti, la sua posizione era in fondo, già allora, "quella di un razionalista diviso tra i philosophes e Rousseau" (Le capre di Bikini, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 13).
Nessun commento:
Posta un commento