Francesca Schianchi
È stata la spina nel fianco della segretaria Pd fin dalla sua elezione, la guerra in Ucraina. L'atteggiamento da tenere, l'invio di armi a Kiev, hanno ripetutamente fatto fibrillare il partito, così come il rapporto con gli alleati di AvS e del Movimento cinque stelle. Una tensione risolta fin qui da Elly Schlein con l'equilibrismo che, almeno tra i dem, mascherava fratture e divisioni: ok a nuove munizioni, è stato sempre il mantra, ma accompagnate dalla raccomandazione che si cominci un percorso diplomatico. Ora che quel percorso è iniziato, ma sotto le insegne brutali di Donald Trump, che ha capovolto le parti assegnando quella della vittima al presidente russo Putin e quella dell'aggressore all'ucraino Zelensky, rischia paradossalmente non di chiudere una stagione complicata, ma di far deflagrare tutte le differenze che albergano dentro a quell'eterna incompiuta definita per comodità campo largo.
Non ci possono essere dubbi su cosa pensi Schlein del presidente americano: fin dal giorno della sua elezione lo accolse come «una brutta notizia per l'Europa e per l'Italia». Non possono esserci nemmeno se, due giorni fa, davanti alla sequela di attacchi e falsità rovesciati da Trump su Zelensky, non è intervenuta, fedele alla linea un po' lunare di non lasciarsi trascinare dal flusso quotidiano e tenere la barra sulle difficoltà concrete degli italiani. Il problema però è che il vicino di banco riottoso, quel Giuseppe Conte con cui lei vuole costruire lo schieramento futuro e che al contrario spesso e volentieri si sottrae all'abbraccio, usava invece parole che lo collocano dritto dritto da un'altra parte, lontanissimo dall'accorata difesa di un popolo aggredito e del diritto internazionale, predicata in questi anni anche da Schlein.
Così, come il celebre battito d'ali di farfalla che provoca un terremoto dall'altra parte del mondo, il ritorno di Trump alla Casa Bianca rischia di disfare in un amen la tela tessuta pazientemente negli ultimi due anni. Il tentativo di costruire uno schieramento comune con i Cinque stelle, di mettere le basi di un'alternativa in grado di competere ad armi pari con la destra, quando sarà il momento. Ora a Schlein non basterà più chiedere con insistenza alla premier di togliere il berrettino del Make America Great Again per indossare la maglia dell'Europa: dovrà rivolgere la stessa domanda anche al suo alleato. Consapevole che la sua risposta potrebbe travolgere in un attimo la strategia testardamente inseguita fin qui.
Federico Geremicca
L'unico sentimento che dovrebbe esser escluso, analizzando politicamente le ultime mosse di Giuseppe Conte, è la sorpresa. Infatti, la ruvidezza con la quale ha annunciato di apprezzare il Trump che denuncia «la propaganda bellicista dell'Occidente sull'Ucraina», smaschera definitivamente un sentire che da tempo (forse da sempre) appariva mal represso. Un sentire, per altro, riemerso qualche giorno fa con la flebile solidarietà – formale, non sostanziale – rivolta al Capo dello Stato, finito nel mirino della Russia.
Il pensoso dubbio su chi scegliere tra Biden e Trump, è dunque finalmente sciolto: con tutto quello che potrebbe (dovrebbe) seguirne. I Cinquestelle di Conte, infatti, si ritrovano di nuovo sottobraccio a Matteo Salvini, altro leader in difficoltà dalla parte opposta del campo.
Considerati i blocchi contrapposti, questa vicinanza potrebbe esser considerata una fuorviante suggestione. E può esser sia così. Ma il governo "gialloverde" resta pur sempre l'età dell'oro, per l'uno e per l'altro. Un richiamo psicologicamente irresistibile. E peccato che oggi pesino nelle urne meno della metà di quando fu il tempo dell'"avvocato del popolo" ... Per muovere il suo pezzo sulla scacchiera, Conte ha atteso quello che gli è parso il momento migliore, ed ha colto l'attimo. Ha immaginato quel che le ruvide dichiarazioni di Trump avrebbero determinato nei due campi: a destra, la difficoltà di Meloni e Tajani a schierarsi d'improvviso con Putin; nel centrosinistra (teoricamente la sua parte) un'accelerazione della difesa di Kiev e – dunque – delle ragioni della guerra. Ed ha rotto gli indugi. Davanti a sè ha visto una prateria, politicamente occupata dal solo Salvini. Non ci ha pensato due volte.
Nemmeno la spregiudicatezza, naturalmente, può sorprendere: ognuno ha i suoi trascorsi, e quelli di Conte raccontano di una qualche predisposizione ai rapidi cambi di campo. Colpisce, piuttosto, il corto respiro di un'operazione che – se ognuno tirasse le inevitabili conseguenze – rischia di avere per i Cinquestelle conseguenze catastrofiche: ritrovarsi nel giro di poche settimane senza alleati e senza più nemmeno una guerra da osteggiare. Certo, avrebbero recuperato un rapporto con la Russia di Putin e l'America di Trump. E forse con Salvini. Finalmente, come si dice, una scelta chiara. —
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