Elisa Sola, Scene da una rivolta, La Stampa, 7 febbraio 2025
Dopo sei ore di trattative fallite e sedici dall'inizio dell'occupazione, il comandante urla l'ultimo appello: «Allontanatevi e mettetevi nelle camere. Nessuno si fa male. Assolutamente». Il dirigente esclama: «Entrare nelle camere! Chi sta fuori si assume la responsabilità di stare fuori. Meglio se entrate». Sono le nove di mattina del secondo giorno della rivolta. I detenuti della terza sezione del blocco A del carcere delle Vallette sono barricati dal pomeriggio del giorno prima. È una delle proteste più lunghe della storia recente di un istituto affollato da 1.480 detenuti quando potrebbe ospitarne 1.035. Un'occupazione con barricate durata due giorni, dal 10 all'11 febbraio del 2022. Sono dieci gli indagati, dal pm Paolo Toso, che verranno processati in primavera con l'accusa di violenza e resistenza nei confronti di pubblici ufficiali.
Ma gli avvocati - tra cui Riccardo Magarelli e Cristina Rey - negano l'uso della violenza. Occupare una sezione non significa usare la forza, ma essere «disperati», è il senso della tesi difensiva. «Siamo senza medici, psicologi ed educatori», dicono i giovani carcerati ai poliziotti penitenziari quando si chiudono dietro al cancello. Le chiavi di quello di ingresso e di uscita sono sparite. Un cumulo di materassi, brande e tavoli da ping pong sbarra la visuale degli agenti che tentano di scorgere cosa c'è oltre le sbarre. Oltre la zona che sarà off limits per sedici lunghissime ore.
Dentro il braccio occupato ci sono almeno 13 detenuti. Gli altri, che restano fuori, incitano: «Continuate così». Nella relazione del Nucleo investigativo della polizia penitenziaria c'è scritto: «Uno ha bloccato con un mestolo la serratura del cancello d'ingresso. In sette hanno accatastato dietro al cancello oggetti per ostacolarne l'apertura. Un detenuto ha minacciato di tagliarsi. Un altro di appiccare il fuoco». Segue l'elenco delle «persone offese dal reato». «Lo Stato italiano», al primo posto. A seguire, i nomi di un dirigente, di un assistente capo, e di tre agenti. Tutti in servizio alle Vallette.
Nelle immagini riprese dalla penitenziaria è immortalata anche la scena dello sgombero. È già passata l'alba del secondo giorno. Gli idranti sparano acqua verso i carcerati oltre le sbarre. Il cancello viene spaccato con la fiamma ossidrica. Scatta l'irruzione degli agenti in tenuta antisommossa, con caschi e scudi. Dal soffitto piove l'acqua rimbalzata dal getto dell'idrante. «Fate piano, non scivolate!». «Le chiavi! Le chiavi!». «Non tutti insieme». «Basta, basta!». Le mani dietro alla schiena, la testa piegata in avanti, un detenuto urla piangendo. Verrà riportato nella sua cella, con gli altri "rivoltosi". Poche ore dopo, in quelle celle, scatteranno le perquisizioni.
Il primo a essere interrogato è il carcerato più giovane. Ha 19 anni. Il pomeriggio prima dell'inizio dei disordini doveva prendere le medicine della sera. Forse non le ha prese, forse sono arrivate in ritardo. Non è chiaro. Ha puntato un mestolo di legno nella serratura del cancello d'ingresso della terza sezione del blocco A. E lo hanno seguito. Ma non è stata una manifestazione improvvisata, secondo la tesi dell'accusa. «Il gruppo aveva scientemente pianificato e sviluppato modalità e mezzi per assicurare al piano criminoso una possibilità di riuscita, perché era stata condivisa prima una petizione tra tutti i detenuti», scrivono i poliziotti, che aggiungono: «Molti sono stati costretti a firmarla». Quando i detenuti sono barricati dentro alla sezione appendono un cartello fuori dal cancello: «Solo giornalisti». Come spiegheranno agli agenti: «Vogliamo parlare con gli organi di stampa per denunciare come ci fate vivere, devono vedere». Nessun giornalista verrà fatto entrare. I detenuti attaccano pannelli di cartone sulle sbarre. Per non fare vedere cosa c'è dietro. Quello che oggi possiamo documentare, è ciò che è rimasto nelle immagini delle telecamere degli investigatori. Ci sono uomini dietro alle sbarre che gridano. Bombolette di gas appoggiate al cancello. Sei ore di trattativa finiscono nel nulla. «O ci date i giornalisti o diamo fuoco a tutto». Lo sgombero scatta il giorno dopo perché gli agenti devono dormire almeno sei ore. Così viene scritto in uno dei verbali. Il mattino dopo, alle nove, l'ultima chiamata: «Rientrate nelle camere. Nessuno si farà male». Un detenuto si taglia: «Mi incido la carotide». Un altro, finito lo sgombero, quando viene caricato su un furgone, sputa due lamette. La terza resta in gola. Lo convincono a non ingoiarla dopo trenta minuti. Iniziano gli interrogatori. Un testimone dichiara: «Uno di noi che aveva il dito fasciato ha scritto la lettera. L'ha letta ad alta voce e l'ha fatta girare per firmare». La lettera che i detenuti avrebbero voluto consegnare ai giornalisti, se mai li avessero fatti entrare in prigione, iniziava così: «La situazione è diventata insostenibile. Siamo costretti a barricarci. Il problema più grande è la sanità. Dal mal di testa alla mano rotta, qualsiasi sia il problema, ci sono detenuti che aspettano giorni per essere visitati. Siamo stanchi, è un diritto di ogni essere umano essere curati. Ci ritroviamo a litigare con le guardie fino ad arrivare al suicidio. Ed è per questo che questa sera siamo arrivati a questo punto. Lo stesso di prima». —
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